Christian Narciso, allenatore del Vejen, in Danimarca (Wika Photography)

Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: “Non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero. La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui passi già fatti, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre“.

Così si esprimeva Josè Saramago, portoghese che vinse il Premio Nobel per la letteratura nel 1998. Viaggiare, per chi lavora nel mondo della pallacanestro, diventa spesso un’abitudine quasi settimanale. Le trasferte rappresentano, anche per i tifosi, dei momenti che inevitabilmente si trasformano in ricordi, alcuni più belli altri un po’ meno, ma c’è anche decide di lasciare l’Italia e fare un’esperienza all’estero. Probabilmente non è un treno che passa solo una volta nella vita, ma ci sono dei momenti in cui ci sono tutti i presupposti per dire “sì”. E il suo “sì”, Christian Narciso (a questo link potrete scoprire qualcosa in più sulla sua carriera), giovane allenatore italiano, l’ha detto due anni fa al Vejen Basketball Klub, un club che ora milita nella seconda lega danese.

Paese che vai, usanze che trovi. Come viene vista la pallacanestro in Danimarca?Qui gli sport principali sono il calcio e la pallamano, ma la passione per la pallacanestro sta progredendo sempre di più. Certo, ci sono molte meno squadre: la conseguenza principale è il fatto di dover affrontare tante trasferte, sempre piuttosto lunghe”.

La passione c’è oppure il basket viene visto solo come un hobby?La passione è tanta anche in Danimarca, ma è il livello di competitività ad essere differente”.

Narciso durante un time-out (Wika Photography)

A livello tecnico come giudichi il basket danese? “Scendendo nelle Minors, ci sono tutte guardie tiratrici e pochi lunghi. Sembra incredibile, invece è così. Ora come ora si sta cercando di emulare tantissimo il modello italiano del minibasket: utilizzare i fondamentali come strumento per insegnare le capacità coordinative in relazione alle varie situazioni di gioco. Bakken, che si può considerare una sorta di “Armani Jeans Milano danese” (per il predominio tecnico ed economico), l’anno scorso se l’è giocata con Avellino in semifinale di EuroCup”.

E tu, invece, come ti trovi in Danimarca? “Mi trovo molto bene al Vejen, squadra in cui sono arrivato due anni fa. Eravamo in Terza Divisione, poi abbiamo vinto il campionato con una squadra formata da alcuni studenti del campus e altri giocatori che hanno già calcato queste categorie o superiori. Sia l’anno scorso che in questa stagione abbiamo anche avuto un giocatore americano. Quest’anno siamo secondi, perdendo solo due partite”.

Cosa ti ha sorpreso di più?Appena sono arrivato, sono rimasto a bocca aperta scoprendo un centro sportivo all’avanguardia, che fa davvero impressione e che in Italia ci possiamo solo sognare. A parte le strutture, non mi aspettavo di trovare un’organizzazione così dettagliata: c’è una suddivisione di ruoli ben precisa. Anche a livello culturale è bello allenare qui, perché ci sono anche tanti volontari che danno una mano al club per soddisfare varie esigenze”.

Ti aspettavi un po’ di freddezza quando sei arrivato in Danimarca e invece… “Invece ho trovato un ambiente molto caloroso, che ha cercato di aiutarmi davvero sotto ogni aspetto”.

Che regole ci sono per gli americani nel campionato danese? “In realtà, nella Basketligæn non ci sono regole che limitino l’acquisto di giocatori Usa e la competitività è molto alta. Bakken la fa da padrona, ma è bene ricordare come anche in Europa non abbia ancora registrato sconfitte”.

Dopo l’esperienza a Napoli come assistente di Antonio d’Albero, ora Christian vive questa esperienza in Danimarca con grande passione (Wika Photography)

Avete già stabilito gli obiettivi stagionali? “Da quando sono arrivato l’obiettivo è quello di migliorare il livello giovanile e poi aggiungere competitività nella cultura cestistica locale. La nostra ambizione è salire in Basketligæn (Serie A danese), anche se nemmeno l’anno scorso c’era l’obiettivo forzato di vincere. La società vuole cambiare la cultura dalle radici, con un progetto specifico sul minibasket che possa far crescere giovani in grado di stare in campo a livello senior”.

Che cosa ti ha spinto a provare questa avventura? In fondo, la Danimarca non è proprio dietro l’angolo: “Principalmente la voglia di trovare nuovi stimoli. Ho allenato a Napoli come assistente della A2 Femminile e il mio capo-allenatore, Antonio d’Albero, che ai tempi a sua volta visse un’esperienza simile in Danimarca, è stato il mio contatto principale e mi ha aiutato a creare questa opportunità”.

Con Antonio hai un rapporto importante, vero? “È il mio mentore: è questa la definizione più corretta. Sin da quando ho iniziato a Napoli come istruttore di minibasket, lui tornava dalla Danimarca: gli feci da assistente con la Dike, anche nella sua esperienza da capo allenatore in A2. Abbiamo davvero un bel rapporto”.

Cosa ne pensi del basket femminile italiano?Il lavoro intrapreso a livello giovanile qualche anno fa sta dando i suoi frutti. Si parla tanto di ricambio generazionale, ma in realtà è un processo già in atto, visto che abbiamo tante giovani talentuose in rampa di lancio. Forse, si dovrebbe dare un po’ più importanza anche ad allenatori che hanno maggiore dimestichezza con il basket femminile”.

Vorrei precisare una cosa” – prego – “A volte si pensa che sia la stessa cosa, invece ci sono grandi differenze tra il basket maschile e quello femminile: a livello di velocità, tecnica individuale e tattica soprattutto. Ad esempio, le donne hanno la capacità di stare sul pezzo molto di più. Ciò non implica, chiaramente, che uno dei due sia meglio dell’altro”.

A livello di visibilità, invece, cosa manca al basket femminile? “A livello tattico o tecnico non credo manchi nulla, è solo ed esclusivamente una questione culturale. Potrebbe essere interessante, magari, organizzare degli eventi congiunti: l’esempio arriva direttamente dagli Usa. Se si vuole più visibilità, ci vuole probabilmente anche più spettacolo”.

Hai mai pensato di tornare ad allenare in Italia?Il lavoro di un allenatore costringe sempre a valutare la situazione anno per anno. Manca Napoli e l’Italia, ma da un altro punto di vista, anche professionale, accetterei esperienze anche in altri Paesi, visto che siamo abbastanza ricercati per la nostra ottima formazione”.

Qual è l’aspetto da insegnare su cui hai trovato le maggiori difficoltà? “In Danimarca è veramente difficile insegnare le letture in campo: fin da piccini sono stati abituati a seguire alla lettera tutti i dettami degli allenatori”.

Oltre alle letture delle situazioni, su quali principi si basa il tuo credo cestistico? “A livello difensivo tanta pressione sulla palla e parecchie zone trap per non dare troppi riferimenti e confondere agli attacchi avversari; in difesa cerco di abituare i miei giocatori a cambiare spesso, quasi ad ogni azione. La flessibilità mentale per un giocatore è fondamentale. In fase offensiva, come detto, penso che alla base ci debbano essere le letture dei vari momenti del match: con il basket odierno, in ogni caso, gran parte dei possessi vengono giocati con il pick&roll, comprese diverse situazioni in uscita dai blocchi. Come allenatori, però, è chiaro che bisogna essere trasformisti e adattarsi ai giocatori presenti in squadra”.

A Vejen ha trovato terreno fertile in cui testarsi come coach ed istruttore (Wika Photography)

La chiave per cercare di diventare dei buoni allenatori, è proprio quest’ultima, quindi? “Non ho chiaramente l’esperienza tale da poter dare consigli, visto che sono un giovane allenatore e miro a migliorarmi ogni giorno continuando il mio percorso formativo. Penso che spesso sia importante tenere a bada il proprio ego. Ciò che più conta è essere bravi anche a cambiare le proprie idee e fare in modo che ogni giocatore renda al massimo sul campo in base alle sue caratteristiche.  L’essere trasformisti è fondamentale, adattando le proprie competenze avendo come fine ultimo il rendimento dei giocatori, evitando eccessività rigidità e provando, al contempo, ad essere leader e motivatori”.

Lavorando tanto con i giovani, sia a Napoli che in Danimarca, hai mai avuto dei problemi a livello di attenzione quando insegni pallacanestro? “Cultura e strutture sono profondamente diverse. A Vejen ci sono scuole con palestre che potrebbero essere tranquillamente considerate campi da gioco in tante città italiane. Hanno più laboratori che classi: la cultura infantile è diversa. Qui i bambini hanno fin troppa scelta in merito alle attività da fare: da parte degli istruttori è molto importante renderli partecipi nei giochi e farli appassionare, in modo tale da convincerli a praticare il nostro bellissimo sport invece di altri più popolari a queste latitudini”.

Se un altro giovane coach volesse tentare la tua stessa esperienza, cosa gli diresti? “Apprezzare quello che ha al momento, cercare di migliorarsi ogni giorno, credere in ciò che fa e impegnarsi al massimo perché le occasioni, in fin dei conti, possono sempre arrivare. Riuscire a crearsi una buona rete di contatti è altrettanto importante per poi riuscire a convincere ad investire sulla propria persona”.

 


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