I più astuti fra di voi sono riusciti a capire perché i miei contributi al “mio” blog (precisazione non casuale) si siano diradati. Non ci voleva molto: l’ho scritto anche nero su bianco. Non mi diverte scrivere cose che penso sensate, frutto di ragionamenti e esperienze vissute, per poi vedere gente che insulta a prescindere, alci e cervi maestosi che ti danno del cornuto. Mi offendo e dunque, novello Achille, mi ritiro sotto la mia tenda? Può anche essere, anche se non penso che lo sia, e del resto non credo che possa essere tacciato di superbia se mi viene da mandare tutto al diavolo non riuscendo a innescare una discussione seria, confortata da dati certi e verificati storicamente (o, nel caso dello sport, dai semplici numeri statistici) che ponga a confronto opinioni e tesi diverse, tutte però con fondamenti nella realtà dei fatti e non vomitate dal profondo della pancia per partito preso.

Alessandro mi chiede perché, vista la piega presa, non chiuda il blog. Sono una persona sinceramente democratica e penso che ognuno abbia il diritto di dire la sua. E inoltre mi diverte leggere i commenti, in quanto tengo presente sempre l’assunto che ho citato anche nell’intervento precedente: essendo convinto che la stupidità sia la caratteristica più diffusa nell’umanità, caratteristica perfettamente lineare rispetto a qualsiasi differenza di razza, colore, sesso, religione, orientamento sessuale, censo, istruzione, spalmata dunque uniformemente su tutta l’umanità, mi sembra solo normale che quando tutti hanno la parola, la maggior parte di queste parole siano totalmente stupide. In realtà sono talmente pessimista sulla nostra specie che mi meraviglio, e commuovo anche, quando leggo qualcosa di sensato, intelligente, ma soprattutto ponderato, indice della più grande dote che possa avere un essere umano, quella di mettere in moto e poi adoperare l’unica cosa che ci distingue dal resto delle specie viventi: un cervello pensante. Poi si può pensare giusto o sbagliato, e cosa sia giusto e cosa sia sbagliato nessuno lo può sapere, ma l’atto stesso di pensare fa di un bipede un uomo (nel senso di homo, cioè sia uomini che donne, non voglio essere frainteso). Comunque sul fatto del blog ho già messo in moto Walter Fraccaro che dovrebbe aprire (lui sa queste cose, che per me sono magie da Mandrake, che non capisco e che, ahimè, non ho nessuna ambizione di capire) un nuovo sito dove potranno commentare solamente coloro che avranno il benestare da parte dell’”administrator”. Sembra che si possa fare. Quando ciò succederà, allora lì sì che potremo parlare anche di basket, cosa che su questo blog sono sempre più restio a fare, in quanto mi pare del tutto inutile.

Per contribuire alla discussione che interessa a qualcuno sui popoli dell’ex Jugoslavia vorrei introdurre un elemento che per esempio Edoardo percepisce “a pelle” e che si riferisce alla Croazia. Se approfondite un po’ la storia croata verrete alla conclusione che in realtà, per quanto sembri strano, la Croazia attuale è niente più e niente meno che uno stato “artificiale”, formata da tre entità storicamente ben distinte fra di loro. Per capirlo vi invito a prendere in mano un atlante storico e di dare un’occhiata ai vari confini della Croazia durante i secoli. In breve: dopo un inizio indipendente con un regno proprio la Croazia finì sotto la sfera di influenza ungherese, pur mantenendo un’amplissima autonomia. Poi ci furono le invasioni turche che ridussero la Croazia a una sottile striscia di territorio parallela al confine sloveno (Zagorje, zona di Zagabria, Karlovac, fino a Fiume), la quale striscia corrisponde alla Croazia storica vera e propria. La Slavonia, cioè tutta la pianura fra Drava e Sava passò sotto dominio turco, mentre la costa dalmata divenne possesso dapprima veneziano e poi, molto più tardi (epoca napoleonica), austriaco. Storia a parte è la vicenda della Repubblica ragusea, ma sempre nell’ambito della Dalmazia rimaniamo. Si svilupparono dunque tre entità ben distinte che con il tempo accumularono tutta una serie di differenze di abitudini, usi e soprattutto lingua. Mentre in Croazia si parlava il croato che poi funse da base per il croato letterario odierno, in Slavonia si parlava più o meno il serbo (per ovvie ragioni orografiche e di stessa appartenenza politica), mentre in Dalmazia si sviluppò il caratteristico dialetto farcito di parole venete che viene parlato ancora oggi e che per uno che conosce ambedue le lingue è di struggente bellezza (in città ci sono le rive, i kali – la strada principale di Zara anche in Jugoslavia rimane la Kalelarga – e le pjace, i lampioni sono feraj, le lenzuola sono lancuni, citando una famosa canzone moderna spalatina, quando Nadalina sbatte le uova nella terrina, essa “žbatije jaja u terini” eccetera). Fu dunque un’impresa titanica trovare un compromesso alla metà del secolo scorso quando si dovette dare una forma al croato letterario che soddisfacesse un po’ tutti, mediando con il bilancino da farmacista fra le varie parlate in “kajkavo”, “štokavo” e “ćakavo”, parlate caratterizzate dal modo di dire la parola che, cosa che nelle rispettive parlate era “kaj” (come in sloveno), “što” (come in serbo) o “ća” alla dalmata. E dunque come mai si parla di Croazia tout court? Semplicissimo: l’identità croata è indissolubilmente legata alla religione e di conseguenza all’alfabeto usato. La Croazia è dunque semplicemente lo Stato dei cattolici di lingua serbo-croata dei Balcani che scrivono nell’alfabeto latino. Va da sé che tutto ciò, pur costituendo un collante formidabile per l’identità nazionale, non cancella per nulla le differenze di usi, costumi, storia che ci sono fra le tre entità costitutive, differenze molto forti che a volte hanno anche connotati politici non indifferenti, e che comunque fanno sì che per esempio uno di Zagabria non sia particolarmente amato né a Spalato né a Osijek e viceversa. A tutto questo bisogna aggiungere anche i cattolici sempre vissuti fuori dai confini croati, parlo ovviamente dei croati di Erzegovina che, proprio perché nei secoli assediati da musulmani e ortodossi, per mantenere identità e religione hanno sviluppato un fortissimo senso di appartenenza che oggigiorno fa sì che siano di gran lunga i più impegnati nel professare il loro patriottismo, senza se e senza ma, con ciò schierandosi chiaramente e inevitabilmente dal punto di vista politico verso la destra più estrema.

Proprio per dire qualcosa di basket vorrei fare una mia considerazione sulla notizia che sembra che Pianigiani venga silurato e che al suo posto subentri Messina. Giusto, sbagliato, l’avrei fatto anch’io? Non lo dico, primo perché, come detto sopra, lo ritengo inutile, secondo perché non ha nesso con quanto voglio dire. Quello che voglio dire è che bisogna fare una grossissima distinzione fra coach di nazionale e coach di club. Dire: questo ha fatto benissimo con il suo club, dunque lo metto alla guida della nazionale, è fare il classico discorso di pere e banane. Non c’entra. Uno: nel club uno ha a disposizione i giocatori sempre, dunque può fare un tipo di lavoro, in nazionale li ha ogni tanto e dunque il lavoro da fare è altro. Ma non è questo il punto fondamentale: il punto fondamentale è che nel club un coach può selezionare i giocatori prima dell’inizio della stagione secondo i suoi gusti e dunque prendere i giocatori giusti per il tipo di gioco che vuole fare. In nazionale invece i giocatori sono quelli, possibilmente i migliori che una nazione possa produrre che non è detto che rispondano alle caratteristiche che piacciono al coach, anzi di solito, Murphy insegna, succede il contrario. Dote fondamentale di un coach della nazionale è dunque quella di prendere i migliori giocatori, magari a volte violentando le proprie preferenze, sedersi a un tavolo, analizzare le loro caratteristiche e alla fine scegliere un tipo di gioco che possa esaltare le loro doti e mascherarne i difetti. Deve cioè fare in grande quello che fanno i coach delle squadre piccole e più povere che prendono i giocatori che possono e tocca poi al coach farli rendere al meglio. E tutto ciò avendo a disposizione poco tempo, tempo che, visto l’andazzo nel basket mondiale, sarà fra l’altro sempre di meno. Quali sono dunque le doti fondamentali di un coach della nazionale? Grandi capacità umane per motivare i giocatori, grandi capacità mediatiche per tenere a bada i media e le strutture politiche che, giustamente, sulla nazionale investono gran parte della loro credibilità, estremo pragmatismo in campo tecnico con possibilmente il minor numero di idee possibili, ma che siano il più chiare che si può, tali cioè da poter essere assimilate in poco tempo, e infine una grandissima dose di fortuna. Quella non guasta mai. Identikit questo che con quello di un coach di club ha ben poco da spartire.

Per finire su Boris Kristančič. Molto in breve, anzi lapidario. Delle persone che ho avuto la fortuna di conoscere nel campo del basket, di gran lunga la persona più intelligente con cui abbia avuto a che fare. E’ meraviglioso e appagante quando parli con una persona esponendole quello che pensi su un determinato argomento, sul quale hai meditato molto e a furia di ragionamenti sempre più complessi sei arrivato a una conclusione, e avere in risposta un ragionamento e una conclusione ancora molto più profondi e meditati rispetto a quanto possa esserci arrivato tu. Ogni volta che ci parlavo mi arricchivo, tecnicamente, cestisticamente parlando, e culturalmente. Per me è stato uno straordinario maestro  e l’unico rimpianto che ho è di non aver potuto avere con lui colloqui più lunghi e frequenti. Ricorderò sempre quanto mi disse più di 30 anni fa (inizi anni ’80) in risposta a quanto gli stavo dicendo sul fatto che in Italia Aldo Giordani andava dicendo che le nazionali erano obsolete, che giocavano malissimo e dunque non si sa perché servissero, anzi, diceva lui, si sapeva benissimo a cosa servissero, cioè solamente a giustificare gli elefantiaci apparati della Federazione.

“Sergio”, mi disse, ”il problema è esattamente l’opposto. Il mondo si sta globalizzando e la gente avrà sempre più bisogno di un simbolo nel quale riconoscersi, e che simbolo migliore può esserci di una nazionale sportiva? E inoltre ricordati che se in uno sport vuoi avere una grossa cassa di risonanza e vuoi avere popolarità, diffusione e soldi, i successi della nazionale sono l’unico veicolo che ti permette di raggiungere la più vasta opinione pubblica. Nazionali morte? Neanche per sogno! Il loro vero momento deve ancora venire!”

Ecco, lo disse 30 anni fa. Me lo ricordo sempre, perché sono parole che mi si impressero nella mente in modo indelebile. Penso che il tempo gli abbia dato pienamente ragione.