Sergio Tavčar

Sul caso Facebook penso che abbiate detto tutto voi e io vorrei solo aggiungere una similitudine che mi è venuta in mente quando discutevamo del caso con Tommaso in redazione. Lui, da buon esponente di una generazione posteriore alla mia, nato negli anni ’70, gli anni che dalla mia esperienza di coach sono stati gli anni di rottura nella personalità delle giovani generazioni (lo dico sempre e non so perché mi sia accaduto: fino alla generazione del ’69 allenare i ragazzi era semplicissimo, in quanto erano praticamente tuoi fratelli minori che avevano la tua stessa concezione della vita, della gioventù, del divertimento, che facevano le cose che tu stesso facevi alla loro età, per cui trovare con loro punti di contatto era estremamente semplice, mentre dalla generazione del ’70 in poi mi sono trovato davanti di colpo alieni che reagivano in modo per me del tutto inatteso agli stimoli che loro proponevo e che erano infallibili con quelli di prima, che si comportavano in modo del tutto diverso, che erano per certi versi assolutamente infantili in certe cose e dall’altro canto degli adulti, se non vecchi nell’anima, in tantissime altre, per cui tenerli assieme e motivarli nel modo giusto mi veniva sempre più difficile, cosa che mi ha progressivamente distaccato dal piacere di fare il coach), si meravigliava fino a un certo punto del mio disappunto e meraviglia, asserendo, giustamente, che si trattava semplicemente del passo in più che veniva fatto nel controllo delle masse attraverso i media, cosa che c’è stata sempre, e che sempre sarà, per cui non vedeva questo salto di tipo, diciamo così, “quantistico” che io vedevo. Sul quadro generale aveva ovviamente perfettamente ragione, per cui, pensandoci su, ho trovato questa similitudine, chiamatela metafora, se volete essere pomposi, per spiegare quello che intendevo. Allora: se una volta i media gettavano nel mare una rete a strascico per impigliarvi e catturare più pesci che potevano, ora è stato dimostrato che sono capaci di lanciare in acqua ami per ogni singolo pesce con esca “personalizzata” per essere sicuri che abbocchino. E questo mi sembra un salto, appunto “quantistico”, non da poco.

L’unico antidoto a questa agghiacciante deriva, lo avete sottolineato voi, è l’istruzione. La gente dovrebbe sapere il più possibile rispetto a ciò che vede e soprattutto deve diffidare di ogni cosa che le dicono o scrivono, ricordandosi soprattutto la cosa fondamentale rilevata da Terzani e così opportunamente riferita, che nel mondo di oggidì esistono solo i fatti che vengono raccontati.  Ragion per cui non occorre diffondere fake news per indirizzare l’opinione pubblica, basta diffondere semplicemente le notizie e i fatti che supportano le tesi che si sostengono tacendo opportunamente gli altri. Già…l’istruzione. E a chi la affidiamo? A quelli stessi che poi ci trasformano in pecore o peggio ancora in topi che seguono il pifferaio magico? Così, di straforo. Non sarebbe una sacrosanta bandiera della sinistra moderna quella di supportare in ogni modo l’istruzione pubblica, mettendo i più possibili bastoni fra le ruote a quella privata che per essere riconosciuta in ambito pubblico dovrebbe sostenere esami di stato pignoli al massimo, istruzione che dovrebbe essere la più a buon prezzo possibile e soprattutto rigidamente laica? E in tutto ciò riconoscendo al massimo i meriti degli insegnanti e degli studenti con salari decenti, se non buoni, per gli insegnanti bravi e immediato calcio nel sedere ai lavativi? Indirizzando la scuola verso un lavoro duro, severo, ma ripagante, stimolando i ragazzi alla conoscenza, ma soprattutto alla responsabilità, insomma facendo tutto il contrario di quanto si fa adesso con metodi cervellotici di avanzamento di carriera basati su carte acquisite in modo burocratico senza minimamente considerare il lavoro sul territorio, l’esperienza o addirittura la capacità stessa di insegnare che non è una dote che si acquisisce sui banchi, ma solo avendo una certa predisposizione e poi facendosi un sedere da babbuino? E soprattutto dove, vigilanti i potentissimi sindacati, una volta che uno si siede sulla sua carega (sedia, nel nostro dialetto), non lo sposti neanche con la bomba H, qualsiasi cosa faccia? Non è la meritocrazia, il premio al bravo che si applica e la punizione del lavativo, la base stessa di qualsiasi progresso? E perché non dovrebbe essere una delle stelle polari dell’offerta sociale della sinistra? Che ora premia solamente le rendite di posizione, per cui tutti gli operai votano, ahimè giustamente, Lega o M5S. Mentre la sinistra dovrebbe finalmente far passare il messaggio che non si transige sul principio dell’uguaglianza delle opportunità, per cui il figlio dell’immigrato nigeriano ha esattamente lo stesso diritto allo studio del figlio di Agnelli, che poi però devono essere sviluppate in modo individuale e che alla fine a decidere è solo il merito. Scusate lo sfogo. Per favore non commentatelo, se non personalmente, in quanto l’ultima cosa che voglio è scatenare una discussione politica. Continuate a pensare come volete, ogni opinione è sacra e legittima, e semmai ricominceremo a discutere in occasione della prossima campagna elettorale che a occhio verrà abbastanza presto. Se poi vorremo azzuffarci alla prossima sconvenscion, non ne vedo l’ora.

Tornando a temi più leggeri, breve risposta a Llandre che non deve aver letto con attenzione, sempre che l’abbia fatto, il mio libro: sì, esatto, nella vecchia Jugoslavia il risultato era sempre in secondo piano rispetto al divertimento dato da coloro che sbertucciavano gli avversari. Per la stra-utilitaristica mentalità italiana, per la quale conta solo il risultato, è una cosa totalmente incomprensibile. Diciamo così: c’è una partita nella quale la squadra di casa, piccolina, debole, ma con due funamboli, incontra lo squadrone schiacciasassi formato da armadi semoventi di 2 e 10 che non li tiene nessuno. La gente va a vedere la partita esclusivamente per i funamboli. Del risultato non potrebbe fregarle di meno, lei vuole solo vedere qualche tunnel, qualche palleggio sotto le gambe, qualche trucco nuovo. E, se li vede, va via contenta. Per cui: se la squadra di casa organizza il match in modo perfetto tatticamente e perde 60 a 80, ma non fa giochetti, il pubblico tira pietre. Se invece vede i giochetti e la partita finisce 20 a 130, allora se ne va a casa contenta come una pasqua. Che, ripeto per l’ennesima volta, è ciò che ha fatto grande il basket jugoslavo: il fatto che i lunghi, per poter stare in campo, dovevano saper giocare e fare i giochetti anche loro. Che prendessero i rimbalzi e aprissero al più libero era solo una seccatura da subire per poter finalmente vedere all’opera i maghi dell’inganno. Per cui, se un lungo voleva giocare, doveva allenarsi come un disperato per far dimenticare alla gente il fatto, paradossalmente, che era tanto lungo. Fra l’altro era la mentalità del pubblico anche in Italia prima dell’era di Giancarlo Primo e della genuflessione senza critiche (per me ancora un evento inspiegabile e misterioso) nei confronti del basket americano. Chiedete a Bologna ai più anziani chi andavano a vedere, se volevano vedere Pellanera o Lombardi, oppure Calebotta che prendeva i rimbalzi o faceva il tagliafuori. O a Milano se volevano piuttosto vedere le entrate di Riminucci o i rimbalzi del giovane Masini.

E infine risposta a Franz. Ho fatto il mio compitino per casa e ho diligentemente seguito le due partite che mi ha suggerito. Premessa, ho rigorosamente guardato i match con l’audio sul commento originale americano, in quanto volevo, da buon neofita, farmi un’opinione mia sui giocatori che vedevo senza dover ascoltare gli imbonimenti dei commentatori Sky (ma perché, di grazia? Che interesse avete a pompare in modo grottesco eventi interessantissimi certo, ma che proprio per questo si guardano senza dover vendere aria fritta volendo far credere di star assistendo ad eventi storici?). In realtà non sapevo che Villanova-Texas Tech, che ho guardato in diretta, qualificasse per le Final Four. Pensavo fosse ancora un match dei primi turni, viste le squadre che c’erano sul parquet. Allora: ho visto due squadre che hanno tirato ambedue con il 33%. Franz, scusami, ma per me il discorso comincia e finisce qui. Due squadre che tirano con il 33%, mi dispiace, fanno qualsiasi cosa eccetto che giocare a basket. Giocano forse “verso” il basket, ma non “a” basket. Nel basket bisogna fare canestro. E se non lo si fa, non si gioca a basket. Ho visto nella squadra che ha vinto schiacciare a rimbalzo l’unico bianco che avevano, un tale Donte De Vincenzo, mentre i più abbronzati, direbbe qualcuno, quelli che proverbialmente saltano come grilli, vagavano sperduti per il campo, compreso quello che veniva presentato come uno molto forte, tale Spellman, del quale però devo ancora capire le doti. Forse le avrà nascoste proprio in quella partita. E poi c’era “lui”, il fenomeno, quello che se gli apri la scatola cranica, trovi fili e non neuroni, come ha scritto ieri la Gazzetta. Il quale fenomeno Jalen Brunson ha fatto 4 su 14 al tiro con una roba tipo 2 su 10 da tre. Ora: nella mia concezione il leader della squadra vuole far vincere la squadra. Se in una giornata non ha tiro, capita spesso e volentieri e non è nulla di strano, allora si mette al servizio degli altri e fa tirare loro. Certo, ha dato un paio di bellissimi assist, ma per esempio di assist del genere ne ho visti fare millanta a Luca Vitali, per dire uno a caso, per cui non mi sono sembrati nulla di eclatante. Insomma, tutto qua? Questo sarebbe un fenomeno? E allora Larry Bird, cos’era? Un marziano? Rispetto a questi più che certamente.

Davide Moretti (foto Matteo Cogliati)

Di Texas Tech non parlo perché qualsiasi cosa dicessi potrebbe incriminarmi. Una sola domanda sale prepotente, angosciosa, agghiacciante: ma cosa c…o è andato a fare a Texas Tech Davide Moretti?

E poi c’è stata la finale anticipata, come da presentazione di Franz. Che è stata sicuramente una partita nettamente migliore. Come partita, perché, scusami Franz, ma non ho visto individualmente assolutamente alcun fenomeno. Il livello medio atletico, quello tecnico essendo ugualmente triste, era ovviamente molto superiore, dunque in campo c’erano per definizione due squadre più forti rispetto a quelle viste prima. Voglio qui farla un po’ (un po’?) fuori dal vaso e dire chi è stato l’unico giocatore che mi è molto piaciuto e che secondo me ha un eccellente futuro davanti a sé. Gioca nel Kansas da centro, dal nome sembra nigeriano, e si chiama Udoka Azubuike. Uno senza fronzoli, che va a canestro quando deve, che ha una testa che funziona, e infatti lo guardavo in difesa stare sempre al posto giusto anche andando ad aiutare sulle penetrazioni o sui servizi in post basso con il passettino di chiusura fatto al momento giusto, uno insomma che lavorandocisi sopra, con il fisicaccio che ha, potrebbe essere molto, ma molto buono. Per il resto c’è il tiratore Malik Newman, un altro che sicuramente farà carriera, in quanto è sicuramente uno che vede il canestro (anche se in una delle azioni decisive della partita gli arbitri gli hanno fischiato un inesistente fallo a favore mentre era andato lui clamorosamente a sfondare sul centro avversario che, per soprammercato, si è anche beccato nell’occasione il quinto fallo), e più o meno, dal punto di vista del talento, tutto qua (Mihajljuk? – non ditemi che in Europa non ce ne sono almeno una ventina come lui – se lui è un fenomeno, allora Šengelija cos’è? un venusiano?). Dall’altra parte c’era Duke di coach K. Che, scusatemi, ma per tutta la partita ho continuato a chiedermi se per caso non avesse per caso già imboccato la via del tramonto, diciamo così per non usare un frasario più crudo. La zona che ha usato per buona parte della partita è stata la zona 2-3 più ridicola che abbia mai visto (e uno di voi l’ha giustamente sottolineato), una zona che se l’avesse giocata il mio Polet a questo punto non sarei in manicomio solo perché c’è stata la riforma Basaglia. Che poi i fenomeni di Kansas non l’abbiano sfruttata come ogni squadra decente con un po’ di raziocinio avrebbe subito fatto, ammazzandola dalla lunetta, il punto più nevralgico di ogni zona 2-3 che Duke incredibilmente lasciava sempre desolatamente vuota (e anche questo aspetto lo avete giustamente colto), è tutto un altro discorso. Duke mi veniva presentata come una squadra di future stelle. Allora. Quella più fulgida, tale Marvin Bagley III, è uno che ha un fisico terribile e una buonissima mano. Sapesse anche giocare sarebbe bravo. Peccato che ogni volta che riceveva la palla nel profondo, da dove avrebbe dovuto distruggere tutto e tutti, appena veniva raddoppiato si incartava e riapriva oppure faceva un solo e unico movimento verso il centro normalmente incartandosi o tirando un orribile tre quarti di gancio che mi sono chiesto chi glielo abbia insegnato, perché sarebbe immediatamente da interdire ai pubblici uffici nel basket. Poi ci sarebbe l’altro marcantonio, Wendell Carter. Che ve lo raccomando. Uno che in un’azione cruciale, dopo che la sua squadra ha incredibilmente giocato un attacco umano, tira indisturbato in gancio da un metro rimanendo corto di mezzo metro, per me ha già finito di giocare. Guardie: Gary Trent. Sarà anche figlio (o nipote, non ricordo più) d’arte, ma dopo 40 minuti di gioco non sono riuscito a capire che tipo di ruolo avesse nella squadra. Quella di play non di certo, in quanto ha fatto esattamente tutto meno che il play. Tiro? 7 su 18 con 2 su 10 da tre (dati ufficiali NCAA, ho già detto che ho fatto il mio compito per casa). Non mi sembra devastante. L’anima della squadra, il senior Grayson Allen. Tanto anima che nel finale ha deciso che avrebbe giocato da solo come se i compagni non esistessero. Gli hanno dato per pietà quattro tiri liberi fischiando falli che se c’erano (anzi, diciamo pure che lo erano) erano più che altro idiozie commesse dalla difesa che avrebbe dovuto lasciare che si incartasse tranquillamente da solo, e poi sull’ultima azione si è esibito in un funambolismo che per poco non entrava. Grazie a Dio, perché sennò ci saremmo dovuto sorbire per secoli la storia del colpo di culo del secolo spacciato per la storica prodezza di uno straordinario vincente. La mia stima per un giocatore del genere potete immediatamente dedurla dall’amore che nutro verso tutti coloro, compreso il futuro MVP dell’NBA (o tempora, o mores!), che nel finale giocano da soli infischiandosene della squadra.

In definitiva, Franz, se pensavi di convertirmi non ci sei riuscito. Anzi, direi esattamente il contrario. Quanto scritto l’altra volta mi sembra addirittura troppo all’acqua di rose. La realtà mi sembra ancora peggio di quanto paventato.