Sergio Tavčar

Sergio Tavčar

Quanto è bello vivere in Italia! Solo qui da noi su un non-fatto, e cioè che il giocatore Daniel Hackett, arrivato al raduno della Nazionale e improvvisamente partito per ragioni che solo lui sa, è stato ovviamente squalificato, si è scatenato un putiferio incredibile che ha anche fatto salire la temperatura delle discussioni su questo blog (dove la mia idea era che ci fossero persone civili, educate e rispettose delle opinioni del prossimo, con cui possiamo essere diametralmente all’opposto, ma non per questo bisogna per forza insultarsi).  

Ripeto: su un non-fatto. Bisogna innanzitutto fare un po’ di chiarezza. Io ho già, ahimè, la mia veneranda età, per cui mi ricordo benissimo i tempi passati, quando un giocatore europeo andava nell’NBA. Era come se fosse defunto, morto, cancellato. Non esisteva più in quanto giocatore usabile dalla Nazionale. Fra l’altro era andato a fare il professionista, cosa impensabile per la FIBA che originariamente stava per Federation Internationale de Basketball Amateur. Questa era stata anche la ragione principale per cui Ćosić, prima ancora di finire gli studi a Brigham Young, annunciò chiaramente che sarebbe tornato a giocare in Europa. E che non sarebbe andato nell’NBA (per chi non lo sapesse sarebbe stato una sicura scelta fra le prime cinque). Poi, verso la fine degli anni ’80 del secolo scorso i due mondi cominciarono a avvicinarsi, grazie alla grandissima opera di due geniali politici quali David Stern e Bora Stanković. Mi ricordo ancora adesso quando in conferenza stampa prima della finale di Coppa delle Coppe a Novi Sad nell’ ’88 feci questa precisa domanda a Stanković, cioè su come erano le relazioni con i professionisti e se la FIBA pensasse di includerli nel suo movimento, ed ero convinto che mi avrebbe mandato a defecare rispondendo con le consuete parole di circostanza. E invece a mia gran sorpresa fu come se attendesse la domanda e partì con una precisa descrizione della “road map” che avevano tracciato assieme a Stern, per cui già allora si sapeva che più o meno per Barcellona avrebbero giocato le Olimpiadi open.

Poi ne è passata ovviamente di acqua sotto ai ponti, tanto che oggi nella percezione generale c’è quasi la consapevolezza che si tratti di due mondi comunicanti per i quali valgono più o meno le stesse regole. Col c….!!! (scusate, ma quando ci vuo’, ci vuo’) Non bisogna mai dimenticare che fra le Federazioni Nazionali, raggruppate nella FIBA, e l’NBA c’è una genesi totalmente diversa che ancora adesso fa sì che le regole che le governano siano totalmente diverse e che l’intercambiabilità fra le due organizzazioni sia in realtà il prodotto di un miracolo politico. La FIBA è in soldoni al vertice della piramide delle varie Fortitudo, Robur et Fides, Libertas o Circoli Italsider di tutte le nazioni del mondo, il vertice delle società nate principalmente per far fare attività fisica ai cittadini o per aggregarli tramite lo sport ai fini di qualche scopo umanitario, sociale o, perché no, politico. Pensate quelli delle nostre parti alle ragioni per cui verso la fine del 19.esimo secolo sono nate la Ginnastica Triestina e la Ginnastica Goriziana e capirete benissimo quello che voglio dire. Ambedue Società fra l’altro che al basket hanno dato tantissimo, come forse poche altre Società in Italia. Chiaro, più i club sono diventati grandi e importanti, più hanno cominciato a vincere, più si sono dovuti affrancare dalle condizioni iniziali e arrivare a un professionismo “de facto”. Il quale però, e questo è un fatto importantissimo, non è per nulla acquisito vita natural durante: si può tranquillamente retrocedere fino a ritornare fra i dilettanti, cioè il fatto fondamentale è che da noi il professionismo nel basket è una situazione in realtà temporanea di chi sta al vertice.

(Foto Savino Paolella 2014)

Daniel Hackett (Foto Savino Paolella 2014)

L’NBA, al contrario, nasce come un’organizzazione commerciale, di un’organizzazione che, tramite il basket, si propone di creare guadagni. Il fine di lucro è il fine ultimo dell’NBA, contrariamente a quanto succede nella FIBA. In un’organizzazione del genere va da sé che vigono le regole del professionismo più spinto, regole che fanno sì che i giocatori siano in realtà prestatori d’opera sui quali la loro franchigia ha, diciamo così, potere di vita e di morte. Sono cioè proprietà assoluta del club che può farne quello che vuole per la semplice ragione che deve sopravvivere e deve creare guadagni, per cui non ci può essere il minimo spazio per la poesia. Vale il vile denaro e basta.

Mi sembra che in questa ottica sia del tutto normale che il regime dei giocatori dell’NBA rispetto a quelli della FIBA sia totalmente diverso. Come detto la FIBA è la Federazione delle Federazioni, per le quali Federazioni nazionali i giocatori sono in realtà proprietà loro. E’ la Federazione che stabilisce le serie di competizione, i calendari, le regole generali e le varie Leghe, nate proprio per arginare lo strapotere che avevano assunto le Federazioni, sono costrette comunque a duri negoziati per trovare ragionevoli compromessi che lascino la botte piena e la moglie ubriaca. In definitiva comunque non esiste Federazione per la quale la Nazionale non sia il fulcro di tutto il movimento e ciò per tutta una serie di ovvie ragioni, la prima e più importante delle quali è che sono i successi della Nazionale a creare interesse presso il pubblico più vasto che altrimenti a quello sport non si interesserebbe con tutte le ricadute di immagine, di reclutamento, di soldi che entrano tramite le scuole di minibasket, che voi conoscete sicuramente meglio di me.

In questo panorama rifiutare la convocazione per la Nazionale da parte di un giocatore tesserato per una squadra FIP e di conseguenza FIBA è il crimine più fondamentale che si possa commettere perché colpisce direttamente tutto il movimento proprio lì dove è più sensibile: il sacro totem della Nazionale. Pensate un po’ a cosa possa pensare il calciomane medio leggendo delle diatribe del basket e provate un po’ a mettervi nei suoi panni per capire che danno di immagine possa aver creato il caso Hackett. Secondo me incalcolabile, andandone di mezzo la credibilità di tutto il movimento. Ma come, si dice. I nostri, dopo aver giocato tutti i campionati possibili con Coppe e tutto il resto arrivando a fine stagione spompati, avrebbero fatto carte false per andare in Brasile, e questi fighetti non hanno voglia? Ma che sport è questo?

Per l’NBA vale tutta un’altra cosa. Intanto i club di origine possono tranquillamente impedire al giocatore di andare a giocare i mondiali e la FIBA, con in sottordine le Federazioni nazionali, non può farci assolutamente niente se non abbozzare. Sapete meglio di me che l’NBA non è parte della FIBA né mai potrebbe esserlo. C’è un’organizzazione formale che fa parte della FIBA e che in realtà agisce da tramite. Tutto qua. Se dunque un giocatore NBA dice: “questa estate rimango a casa” ha tutto il diritto di farlo e se va a giocare per la Nazionale in realtà lo fa a suo rischio e pericolo come capitò a Ginobili nel 2008 e infatti adesso, per quanto lui vorrebbe tanto giocare, col cavolo che gli daranno il permesso. Nel nostro piccolo in Slovenia tiene banco il caso di Goran Dragić che dapprima aveva affermato di volersi riposare per un’estate, ma poi, dopo un paio di settimane di inattività ha cambiato idea, per cui si è aggregato alla Nazionale, ma con tutta una serie di strettissimi vincoli che gli sono stati imposti dai Suns per cui, per esempio, potrà giocare un, dicasi uno, torneo di preparazione per tre partite complessive. Per loro basta e avanza.

In definitiva paragonare i casi dei giocatori NBA con quelli FIBA è altamente fuorviante, perché qui siamo in regimi di regole totalmente diversi. Rendiamoci conto che se un giocatore NBA decide di giocare per la Nazionale è perché “vuole” farlo (ed è, ricordiamolo sempre, una straordinaria vittoria della FIBA che, seppure con limitazioni stringenti, ha fatto sì che l’NBA desse il suo placet), mentre un giocatore FIBA “deve” farlo. Tutto qua. Non credo sia una differenza da poco. Anzi.

In tutto questo discorso penso sia totalmente irrilevante parlare delle qualità del giocatore Daniel Hackett. A me era piaciuto enormemente nelle qualificazioni per gli Europei di due anni fa, ma forse era perché allora la squadra era saldamente in mano a Danilo Gallinari (che è e rimane la perdita assolutamente insostituibile per la Nazionale italiana), per cui, come diciamo a Trieste, non aveva certamente l’occasione di fare il “mona”, perché se no con ogni probabilità Gallinari l’avrebbe attaccato al muro. Parlo così a occhio, non conoscendo il giocatore, e se dico cose sbagliate, me ne scuso in anticipo. Giudico solo da quello che posso vedere da fuori. Poi ha fatto un’ottima stagione a Siena, ha cominciato bene a Milano, ma ha finito malissimo facendo il giocatore né carne né pesce, il tipico esempio di chi vorrebbe ma non può. Voleva essere cioè l’uomo della Provvidenza togliendo in realtà palloni e spazio a chi era stato designato per questo compito, parlo di Langford, che non per niente si è perso anche lui nel finale di stagione, tanto che poco è mancato che Milano riuscisse addirittura a perdere un Campionato nel quale aveva una squadra di miglia superiore a tutte le altre.

Per finire un piccolo commento sulla lettera dei giocatori che questa invece sì sarebbe un meraviglioso esercizio della più pura dietrologia all’italiana. Intanto ieri leggendo il comunicato la prima impressione era che l’avesse scritta Datome e che gli altri si fossero limitati a firmare, poi però mi sono chiesto il classico “cui prodest”: sono arrivato alla conclusione che si sia trattato di un’iniziativa dello staff della Nazionale (estensore Pianigiani stesso? – vedete la dietrologia come galoppa?) per tentare di limitare il danno tremendo di immagine di cui parlavo sopra. Purtroppo però l’impressione che se ne ricava è che l’iniziativa sia uno dei più classici “pezo el tacon del buso”.