I Blue Scholars di Seattle trattano i Supersonics a modo loro. Saltando da palo in frasca, citando nomi di giocatori, quelli che hanno scritto la storia della franchigia bianco-verde. “Slick Watts” è un pezzo pazzesco.

Quand’ero piccolo andavo matto per una canzone particolare, un rock and roll abbastanza classico, mi sembra di ricordare anche qualche influenza glam (d’altronde, gli anni erano quelli), ma potrei anche sbagliare. Al di là della musica, di pazzesco c’era il testo. Che infilava nomi di band, musicisti, cantanti: uno dietro l’altro, a ritmo forsennato, con tanto di rime e refrain. Era cantata in inglese, non so se a opera di un gruppo o di un solitary-man. Ecco, i miei ricordi si fermano qui. In realtà, la canzone l’ho ben piantata in testa, ma non riesco a venirne a capo, anche perché l’ultima volta che l’ho ascoltata indossavo un paio di pantaloni alla zuava niente male. E i pantaloni alla zuava danneggiano i neuroni, la scienza lo ha ampiamente dimostrato. Così, ogni tanto, penso che la mia mente burlona si sia inventato tutto, compresi rime e ritornelli, che la canzone di cui sopra non sia mai esistita, che sia solo un riflesso, freudianamente parlando, del mio mancato ingresso nello star-system canzonettaro, un sogno abortito da una voce inqualificabile e da una scarsa propensione a condividere i segreti del pentagramma. Poi, un giorno, ho ascoltato “Slick Watts”, dei Blue Scholars, e in quel preciso istante ho capito che no, la mia mente non aveva inventato nulla: quella la canzone deve esistere per forza. Perché se esiste “Slick Watts”, allora tutto è possibile.

Partiamo dai Blue Scholars. Sono in due (DJ Sabzi e MC Geologic), si conoscono alla fine dello scorso secolo all’università di Washington per poi tornarsene nel natio borgo selvaggio, Seattle. Dovrebbe essere dura la vita di un duo rap (già, perché i Blue Scholar sono devoti all’hip hop, ma forse si era già capito) in una città come Seattle. Dove è nato e si è sviluppato il grunge, dove son venuti fuori Nirvana, Pearl Jam, Alice in Chain, Mudhoney. Chissà che vita avranno fatto DJ Sabzi e MC Geologic, probabile siano stati vittime di bullismo, come sarà stato difficile vivere in mezzo a tanti zazzeruti con la camicia di flanella a quadri. Loro, con il cappellino alla rovescia d’ordinanza e quel flow sul quale andare a tempo, con quella musica nevrotica, quasi isterica. Almeno per quel che riguarda “Slick Watts”. Che è un pezzo – ma sì, abusiamo pure del termine – pazzesco.
Che parte citando luoghi a caso (laghi, piazze, spiagge, parchi) per poi proseguire un po’ (scusate il francesismo) alla cazzo di cane. E infatti, se ne ignora il motivo, i due giovanotti, a un certo punto, cominciano a sputare dai denti nomi di giocatori di basket. Dei Seattle Supersonics. Del presente (“Slick Watts” è uscito nel 2011) e del passato.
Ci sono tutti, più o meno: quelli dell’unico titolo custodito in bacheca, conquistato nel 1979 (Gus Williams, Jack Sikma), poi Tom Chambers, Lenny Wilkens (il playmaker e il coach), Ricky Pears, Ray Allen e tanti altri. Tra i quali qualche “ex italiano”, come Frank Brikowski, Spencer Haywood, Vinny Askew, e persino uno che l’Italia l’ha assaporata solo per qualche giorno (per fortuna, peraltro), riferimento non casuale a Sean Kemp.
Citando i Blue Scholars, gente che va e che viene, che a Seattle ha scritto la storia e che, spiega sempre il duo, avevano qualcosa da dire. Un atto d’amore nei confronti dei Sonics? Probabilmente sì, altrimenti non si spiegherebbe perché un paio di ragazzi di Seattle avrebbe dovuto citare, senza alcun motivo apparente, tutta quella gente. Rimane da capire come i due componenti dei Blue Scholars abbiano preso il trasferimento del club a Oklahoma City. Magari scriveranno una canzone per maledire quel giorno. Noi siam qui ad aspettarla.