L’hanno preso in giro senza un perché. Prima Michael Jordan, poi Drake, solo per citare i casi più eclatanti. Eppure Dikembe Mutombo è stato un pivottone di tutto rispetto, solido e intimidatore. Ensi, al secolo Jari Ivan Vella, lo ha rivalutato. In nome dell’hip hop.

A un certo punto sembrava che tutto il mondo ce l’avesse con Dikembe Mutombo. Be’, tutto il mondo proprio no, diciamo l’emisfero occidentale. Prima Michael Jordan che lo sfotte mentre insacca un tiro libero a occhi chiusi, poi, uno dopo l’altro, i tanti musicisti impegnati a passare il tempo citandolo, con intenti denigratori, nei testi delle loro opere d’arte. Senza un motivo apparente, peraltro. Ricordate Drake e la sua “Jumpman” (in caso negativo, andarsi a ripassare il Pick and Rock dello scorso 24 settembre, please)? “Mutombo, per colpa di quelle troie continui a essere scartato”, concionava il rapper canadese. Ma cosa ha fatto il povero Mutombo per attirarsi tali e tanti strali? Vai a un po’ a saperlo. Eppure, la sua carriera sportiva non è stata male, e la vita passata al di fuori dei legni del parquet non ha mai esibito una sia pur minima traccia di ombra, anzi. E poi cosa gli dici a uno che è passato attraverso un’esistenza così meravigliosamente spericolata? A uno che abbandona il villaggio nel Congo, se ne va negli Stati Uniti a studiare, si becca due lauree, diventa professionista della spicchia e impara a parlare altre sette lingue? Niente, eppure…
Allora si sentiva il bisogno di qualcuno in grado di riabilitare il campione di mille battaglie, che lo trattasse per quello che è e, soprattutto, è stato. Un lavoro per nulla sporco, eppure nessuno lo aveva mai fatto. Almeno fino a qualche giorno fa. Quando, direttamente da Torino, è arrivato Ensi, professione rapper, registrato all’anagrafe come Jari Ivan Vella e uscito di recente con l’album “Clash”.

Nulla a che vedere con la band di Joe Strummer, solo un bel tot di rime che spaccano. Ensi, tra i dodici pezzi inseriti all’interno del suo nuovo lavoro, ha pensato bene di dedicarne uno proprio a Mutombo, al suo immaginario, al suo modo di interpretare basket. Edificato a forza di una massiccia presenza fisica sotto i cristalli, di difesa sanguinosa, di tante, ma tante davvero, stoppate. “Not in my house”, urlava invasato il buon Dikembe agitando il dito indice agli avversari che tentavano di uccellarlo. Ed è proprio da qui che parte Ensi.
Per Ensi, il centrone africano rappresenta una sorta di metafora, usata a mo’ di randello da scagliare contro gli avversari. Contro gli altri rapper, insomma. Perché l’hip-hop equivale a una sfida continua, a una lotta di sopravvivenza all’ultimo respiro. Da combattere con il flow, il free-style, l’hype. In “Mutombo”, Ensi è parecchio esplicito sin dall’attacco: “Entra dentro questa giungla, sono King Kong, non venire a fare il King nel mio kingdom”. Per poi proseguire con malcelato amor proprio: “Faccio fuoco e cabriolet ogni posto, bravi tutti ma nessuno prenderà il mio posto (…). Nessun MC manda in para Ensi, invece del grill metti il paradenti”. E via così, a difendere il territorio nel nome di Mutombo: “Puoi provarci dove vuoi ma non a casa mia. No, no, not in my house”. Ensi, dunque, evoca Dikembe per una questione di orgoglio e di legittima difesa. Niente occhi chiusi, nessuna contumelia o sfottò, solo massimo rispetto per Dikembe Mutombo. Era ora.