Post Malone si immedesima in Allen Iverson. Un Iverson bianco, un maestro nel palleggio, un tiratore invidiabile, che però si distrae troppo…

Ad Austin Richard Post, meglio conosciuto come Post Malone, piace rompere gli schemi. Lui preferisce spaziare, attraversare i confini, abbattere gli steccati. Son cose che gli riescono bene. Molto bene. Almeno a giudicare da quanto fattura con le vendite dei propri dischi, da quanti zero sono composte le visualizzazioni dei suoi videoclip. La sua ultima fatica discografica, HOLLYWOOD’S BLEEDING, del 2019, si è arrampicato sin da subito al vertice della classifiche di vendita, mentre STONEY, il debutto sulla lunga distanza di tre anni precedente, è riuscito nell’impresa di superare THRILLER, il must di Michael Jackson, in quanto a numero di presenze nelle prime dieci posizioni della classifica di Billboard Top R’n’B/Hip Hop Albums. Numeri da capogiro per un artista dalla difficile catalogazione, che si è abbeverato alla fonte del pop senza disdegnare l’R’n’B, tantomeno il rock e la trap, che ha scelto il nome d’arte non ispirandosi a Karl o a Moses Malone: più semplicemente, si è affidato a un generatore di nomi rap. Allora perché Post Malone si arrabbia non appena lo si accosta all’hip hop? Al di là del generatore, un po’ rapper lo è, lo è dentro e anche un po’ fuori. “White Iverson”, sta lì a dimostrarlo.

I suoni del primo, enorme successo del musicista originario di Syracuse, si alimentano di un restrogusto elettronico, mentre la voce che ne esce è malinconica e distante: l’ideale per un testo che flirta in continuazione, a modo suo, con la palla a spicchi. I palleggi, le Jordan (intese come scarpe), i richiami ai tre califfi dell’NBA Kevin Durant, Anthony Davis, James Harden e, soprattutto, ad Allen Iverson La canzone si snoda attorno a un mondo parallelo: Post Malone si sente un Iverson bianco, più spiantato rispetto all’originale, a dire il vero, per come costretto a dare la caccia, con una certa insistenza, al contante fresco: “Ho bisogno di quei soldi / come l’anello che non ho mai vinto”. Il processo di immedesimazione con l’uomo che, a fine secolo scorso, provò a sbancare l’NBA comincia così, con un riferimento a quell’anello che Allen Iverson non è riuscito a portare a casa a dispetto di un talento offensivo devastante. E prosegue alludendo al nickname dell’ex asso dei Philadelfia 76ers (“The Answer”): “Io sono la risposta, non fatemi mai domande”.
L’uomo al quale non bisogna chiedere mai, che passa il tempo palleggiando e tirando la palla in direzione di un canestro, sta tentando, in realtà, di farsi notare da un gruppo di ragazze che non spiccano per la loro tranquillità: “Sono insieme ad alcune ragazze bianche / a loro piace la cocaina”. Adesso si capisce a cosa servono i soldi, e quei pochi che il protagonista si trova in saccoccia volano via subito, facile capire quale strada prendano: “Sto spendendo tutta la mia fottuta paga”. L’Iverson bianco si sta atteggiando (“I’m swagging”) e forse sta rinunciando all’idea di provare a diventare un campione, come è comprensibile da quel “Fuck practise” (“Fanculo l’allenamento”) che irrompe tra un discreto numero di imprecazioni, mentre la confusione mentale cresce a dismisura: “Commas, commas in my head” (“Virgole, virgole nella mia testa”).
Coca, basket, soldi, le donne sono solo delle cagne: in White Iverson gli stereotipi del rapper medio rispondono uno dietro l’altro all’appello. Inutile che si arrabbi: Post Malone è un rapper dentro. E anche fuori.

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