Minuto 39:50 di Italia-Lituania. Sul punteggio di 79 pari, Alessandro Gentile guadagna la linea di fondo, ma viene triplicato dagli avversari che lo obbligano a un improbabile scarico su Belinelli, costretto a sua volta a una preghiera da oltre 10 metri. Air ball, si va all’overtime. L’europeo degli azzurri, accantonando per un attimo la pur fondamentale qualificazione al pre-olimpico ottenuta il giorno dopo, termina in quel fatidico momento, visto che i supplementari si rivelano poi un’autentica agonia. Basta poco perché l’emotività e le reazioni a caldo prendano il sopravvento. Dai Social ai Mass Media, fino ad arrivare ai tifosi e agli addetti ai lavori, gli sfoghi e le esternazioni di profondo rammarico si sprecano e, come spesso accade soprattutto dalle parti di casa nostra, non mancano accuse, alcune fondate, altre decisamente meno.

È innegabile: la delusione resta il sentimento prevalente. Inconsciamente, considerato il tasso di talento di cui potevamo disporre, ci si aspettava di piu, non tanto dai singoli, quanto dall’insieme dei singoli, che è ben altra cosa. D’altra parte, se è vero che siamo tutti consapevoli di quanto questo torneo, con questo roster, fosse una ghiottissima opportunità di riportarsi ai vertici continentali (celebre ormai la dichiarazione senza peli sulla lingua di Danilo Gallinari: “Che occasione: mi sono rotto le palle di perdere!”), è altrettanto giusto rendere onore a dei ragazzi che hanno lasciato anima, cuore e sudore sui parquet della Mercedes Benz Arena di Berlino e del Pierre Mauroy Stadium di Lille. L’atteggiamento, la voglia di lottare, la capacità di sporcarsi le mani quando necessario: quelle no, non sono affatto mancate. Ecco perché, al di là delle ovvie conclusioni che è logico trarre quando un risultato si discosta da quello atteso, ci sentiamo senza dubbio di dire grazie a tutti i 12 giocatori scesi in campo per le intense emozioni regalateci, nel bene e nel male. Caratteristica tipica di questa nazionale, infatti, è ed è stata l’irrazionalità, figlia della tendenza ad esprimere scampoli di basket celestiale, alternati a momenti di totale black out in entrambe le metà campo. A distanza di qualche giorno, quindi, sorge spontaneo un bilancio, quantomeno per provare a capire aspetti positivi (da conservare) e negativi (da correggere/eliminare) di una spedizione europea che ha lasciato il segno.

COSA HA FUNZIONATO

1) La leadership dei 3 + 1. Chiunque avesse inizialmente nutrito dubbi sul reale impatto dei quattro NBA (diventati quasi subito tre con l’infortunio di Gigi Datome) e del loro probabile futuro compagno di lega, Ale Gentile, è stato poi smentito dal campo. Le nostre stelle annunciate, infatti, non hanno mancato l’appuntamento, facendosi carico delle responsabilità proprie dei veri campioni, dando ri-prova di classe indiscussa, ma anche di coraggio e attributi. In primis Gallinari, definitivamente entrato nella schiera dei più grandi giocatori azzurri di ogni epoca. Riduttivo dire “solamente” che è stato il miglior realizzatore italiano del torneo, con 17,9 punti di media a gara, e punte di 33 (vs Turchia), 29 (vs Spagna) e 25 (vs Germania, il suo vero capolavoro). Ad impressionare di Danilo sono state l’intelligenza messa in campo ad ogni apparizione e la capacità di prendersi la squadra sulle spalle nei momenti complessi. Non solo innumerevoli giocate di livello (il tiro con cui ci ha portato all’overtime contro i tedeschi rimarrà negli annali), ma anche tanta legna a rimbalzo (quasi 7 per gara) e la solita furbizia nell’andare spesso in lunetta, utile soprattutto nelle situazioni di maggior sterilità dell’attacco (basti una statistica: secondo in tutto il torneo, dietro un Pau Gasol in versione aliena, per numero di tiri liberi tentati e realizzati). Arma tattica incredibile e giocatore universale se ce n’è uno: vederlo palleggiare, condurre transizioni e tirare come fosse un esterno (alla faccia dei 208 centimetri che madre natura gli ha donato), e poi, magari nella stessa azione, giocare in avvicinamento contro un pari ruolo o marcare il “5” avversario, è uno spettacolo di rara bellezza.

Danilo Gallinari, il vero "faro" degli Azzurri.

Danilo Gallinari, il vero “faro” degli Azzurri.

Quale miglior spot per il basket tricolore, invece, della straordinaria serata contro la Spagna vincitrice del titolo, in cui Marco Belinelli ha vestito i panni del mattatore con 7 triple (su 9 tentate) vivendo momenti di totale onnipotenza cestistica. Per il Beli si è trattato di un europeo di assoluto livello, con Pianigiani che gli ha praticamente affidato le chiavi dell’attacco: 16,3 punti di media e primo nella classifica generale per numero di tiri da tre messi a segno e tentati. Costantemente oggetto di un’attenzione particolare da parte delle difese avversarie, la nuova guardia dei Sacramento Kings è stato un leader emotivo riconosciuto di questa squadra, spesso aggrappatasi al suo sconfinato talento offensivo per spaccare le partite in momenti cruciali. Apparso in apnea in alcuni frangenti, Marco avrebbe probabilmente dovuto essere sgravato di qualche responsabilità in regia, e sfruttato maggiormente da “guardia pura” in uscita dai blocchi, dove ha dimostrato più volte nel corso della sua carriera di poter essere letale. Un discorso che potrebbe valere in parte anche per Gentile, indotto per tutto il torneo a creare le sue soluzioni principalmente dal palleggio, con il rischio, molte volte divenuto realtà, di rendere statico e prevedibile l’attacco. Detto questo, anche il più giovane dei “fantastici quattro” ha fatto sentire, e in modo imponente, la propria voce. La solita produttività offensiva (16,8 la sua media punti, sesto in tutto l’europeo), una fisicità straripante (la mente va alla paurosa schiacciata contro la Lituania) e un grande, grande apporto in difesa, dove ha sprigionato una cattiveria agonistica e uno spirito di sacrificio davvero importanti. Casspi, lo spauracchio alla vigilia del match contro Israele, quasi certamente lo starà ancora sognando nei suoi incubi peggiori. Senza dubbio, Ale ha dimostrato al mondo intero di essere predestinato a un approdo oltre oceano, offrendo sprazzi di pallacanestro davvero pregiati, ma ha anche ricordato, a sé stesso innanzitutto, di quanto per raggiungere la tanto agognata maturità cestistica necessiti di lavorare ancora tanto sulla selezione delle scelte e sullo stare in campo insieme ai compagni. Le potenzialità e le premesse per diventare un autentico fuoriclasse sono sotto gli occhi di tutti, e condannarlo o giudicarlo solamente per quell’ultimo possesso di Italia-Lituania (per quanto decisivo, sia chiaro) sarebbe del tutto ingeneroso.

Una menzione particolare, infine, per il Mago, Andrea Bargnani. Dovessimo raccogliere la pioggia di critiche e l’assoluta mancanza di fiducia che hanno circondato la sua figura prima di EuroBasket, forse occorrerebbe creare una sezione dedicata, dal titolo “Non crediamo nel Mago”. Eppure, sebbene i timori e le diffidenze avessero un fondo di legittimità, Andrea li ha spazzati via tutti. Come? Ritornando ad essere quello che forse in NBA non è mai stato, ma che a Treviso, nella sua gioventù, ricordano bene: un gladiatore. Si, esatto, perché il Mago, prendendosi una grande rivincita verso i suoi numerosi detrattori, in questo Europeo ci ha messo il cuore e ha lottato strenuamente come non gli vedevamo fare da anni. Se a questo aggiungete le mai discusse capacità tecniche, ecco che capirete perché la sua immagine ne esce completamente riabilitata. Diciannovesimo miglior realizzatore del torneo (14,8 di media), grande impatto non solo al tiro, ma anche attaccando il ferro in penetrazione, Bargnani, pur non sanando del tutto la sua arcinota scarsa attitudine a rimbalzo (soltanto 3,6 a gara, meno dei 4,8 di Gentile ad esempio), ha assolutamente sorpreso per la voglia e l’efficacia difensiva. Non dimentichiamo gli avversari che ha avuto di fronte, e ai quali ha creato non pochi grattacapi: Gasol, Nowitzki e in ultimo Valanciunas, devastante contro gli azzurri, ma più per meriti propri che per mancanze di Andrea. Commovente la sua performance contro la Lituania, quando, nel quarto periodo, ha praticamente sorretto da solo il peso dell’attacco, realizzando 10 punti (dei 21 totali), compreso un lay-up rovesciato di difficoltà immane. In generale, dopo due prime partite da incubo contro Turchia e Islanda che lasciavano presagire il peggio, il Mago ha recuperato quell’aggressività e quella voglia di spaccare il mondo che, martoriato dagli infortuni, sembrava aver smarrito negli ultimi tempi. L’augurio di tutti, ma proprio tutti, Brooklyn Nets compresi, è che sia come un nuovo inizio per un giocatore che rappresenta uno dei più grandi potenziali inespressi dell’ultimo decennio.

Andrea Bargnani in maglia Knicks

Andrea Bargnani in maglia Knicks

2) La voglia di non mollare mai. Ce lo eravamo ripetuti probabilmente in tanti, e dopo la gara con la Turchia a maggior ragione: “Senza cazzimma (per riprendere un termine caro a Gentile padre, Nando) non si va da nessuna parte”. La paura presente tra gli addetti ai lavori era che questa squadra, così carica di talento, potesse appunto pensare di risolvere le partite solo con quello, non curante delle insidie e del livello di agonismo che caratterizza una manifestazione come gli Europei. La stangata con i turchi, la (quasi) figuraccia con l’Islanda e, si presume, le parole di Pianigiani devono poi aver sortito il loro effetto. Perché da quel momento, aiutata forse dalla serata di grazia contro gli iberici, l’Italia è stata diversa. Si sono visti i tanto attesi “occhi della tigre“, quelli che fanno capire all’avversario prima ancora che a te stesso, che sei lì per giocartela alla morte. È stato questo probabilmente il “fattore X” che ci ha permesso di essere così competitivi e temibili, rischiando seriamente di buttar fuori la Lituania finalista. È stato questo a far innamorare degli azzurri anche quei tifosi più scettici e disinteressati. Ed è stato questo a dimostrare come le capacità tecniche individuali, nel basket come nello sport in genere, non possono mai bastare se non accompagnate da uno spirito agonistico superiore. Abbiamo ancora negli occhi la difesa, tosta e con il culo basso, di Bargnani su Gasol, Cusin che stoppa Rodriguez sulla linea dei tre punti e combatte in area come fosse uno spartano in guerra, Gentile che mette la museruola a Casspi, Melli cattivo a rimbalzo, Belinelli sempre pronto a prendersi una tripla spacca gambe, Gallinari che non rifiuta il contatto, anzi lo cerca e segna subendo il fallo. Tutte queste immagini, a prescindere dal risultato finale, rimarranno impresse nei nostri ricordi, ma soprattutto dovranno costituire un punto di partenza imprescindibile per la nazionale del futuro, a cominciare da quello immediato, ossia il pre-olimpico di Rio 2016.

3) Aradori e Cusin. Non solo le “stelle”, ma anche alcuni gregari hanno dato il loro grande contributo. Per quanto la panchina sia stata poco utilizzata da Pianigiani (approfondiamo in seguito a riguardo), almeno due elementi si sono distinti sugli altri, risultando utilissimi alla causa. Il primo è Pietro Aradori: dopo una stagione da girovago tra Galatasaray, Estudiantes e Venezia, “Peter” è arrivato a questo Europeo in punta di piedi, sapendo di dover recitare un ruolo da comprimario. Eppure, la forse minor tensione sulle spalle lo ha portato a essere decisivo tutte le volte in cui è stato gettato nella mischia, e a toglierci in diverse occasioni le castagne dal fuoco. Praticamente impiegato come sesto uomo di rottura, la sua varietà di soluzioni offensive ci ha permesso di creare dei break e di sorprendere gli avversari in momenti chiave del match (vedi Spagna e Lituania). Col senno di poi siamo tutti bravi a sparare sentenze, ma è difficile non pensare a quanto un suo ingresso nel quarto periodo o nel supplementare di Italia-Lituania avrebbe potuto aiutarci, se non altro per dare respiro a Hackett e avere un’opzione offensiva più credibile in quella particolare situazione di partita.

Per Marco Cusin abbiamo invece terminato gli aggettivi. Instancabile lottatore, difensore superlativo e di una generosità fuori dal comune. Questo Europeo lo ha trascorso in campo per poco più di 10 minuti a partita, ma in ogni occasione si è fatto trovare pronto dando la sua immancabile solidità sotto le plance e permettendo a Bargnani di rifiatare in panchina. In una squadra dove sono in molti ad avere punti nelle mani e la cui attitudine difensiva è assolutamente migliorabile, un giocatore “operaio” come Cusin risulta ancora una volta fondamentale, sia per l’equilibrio che riesce a generare attraverso la sua presenza che per la formidabile propensione a contagiare gli altri con la sua intensità. Anche di loro, Pietro e Marco, non potremo certamente fare a meno nel prossimo esame pre-olimpico.

COSA NON HA FUNZIONATO

1) La strategia offensiva. Sembra paradossale affermare che l’attacco più prolifico dell’intero europeo (85,8 punti a gara e unico team a portare ben quattro giocatori tra i primi venti marcatori del torneo) avesse in realtà dei problemi strutturali palesi. Fa doppiamente male, per di più, pensare dove saremmo potuti arrivare senza quei limiti mai superati. Ad eccezione della partita contro Israele, infatti, complice probabilmente la “leggerezza” degli avversari, gli azzurri non hanno mai dato la sensazione di avere un’idea ben precisa di gioco, dove per “gioco” si intende una impostazione a monte chiara, definita e soprattutto adatta agli interpreti. I ragazzi ci hanno emozionato e sorpreso in ogni incontro con numerose giocate di qualità, ma lo hanno fatto quasi esclusivamente grazie al talento e alle iniziative individuali, non certo per via della loro organizzazione. È sembrato, a tratti, che Pianigiani portasse avanti la pericolosa teoria del “tanto in un modo o nell’altro la buttano dentro, inutile vincolarli a delle regole ben definite”Gli dei del basket, per l’ennesima volta invece, hanno premiato anche in questa rassegna non chi aveva i giocatori migliori, ma chi ha saputo meglio combinarli assieme. Perché la pallacanestro, si sa, non è il tennis.

Senza essere retrò scomodando paragoni con l’Italia di Myers, Fucka e Meneghin, prendiamo ad esempio la Spagna campione: Scariolo, al terzo titolo in sei anni alla guida degli iberici, ha costruito un sistema incentrato su un Gasol espressosi a livelli semplicemente irreali. “Sistema” poiché la Roja ha sì cavalcato ampiamente la propria individualità migliore, ma in un contesto tattico assolutamente pronto a sfruttarne i vantaggi fatti di scarichi sul perimetro (pane quotidiano per Mirotic, Fernandez e Claver) e conseguente magistrale circolazione di palla (orchestrata dal fosforo di Llull e Rodriguez).

Oppure, guardiamo al nostro carnefice, la sorprendente Lituania. Valanciunas e Maciulis esclusi, una squadra composta da giocatori normalissimi, mai saliti alla ribalta. Eppure, un collettivo fantastico, capace di applicare una versione rivisitata e più fisica del datato Flex Offense, ossia un gioco d’attacco fatto di continui blocchi verticali e orizzontali in cui sono tutti in movimento. Risultato? Difese avversarie costrette sempre a inseguire e ad adeguarsi a una mobilità costante, tiri ad alte percentuali, dinamismo. Per non parlare poi dell’altro marchio di fabbrica lituano, il penetra e scarica che ci ha letteralmente fatto a pezzi, ma che inspiegabilmente ha rappresentato poco meno di un’utopia per gli azzurri di Pianigiani.

Osservando le due finaliste (ma anche la Serbia e, in parte, la Francia) non possiamo fare a meno di notare le significative differenze tra noi e loro, in termini puramente di “strategia“. Nel senso che quella italiana è stata piuttosto scarna (per usare un eufemismo). Palla su un lato, pick’n roll tra Gallinari/Bargnani e un esterno, ribaltamento sull’altro lungo e successivo pass and screen sul lato opposto, con conclusione dell’attacco tipicamente in 1 vs 1 o con tiro in punta di Bargnani. Questo il leit motiv più frequente, con l’eccezione di un gioco costruito per liberare Gallinari sui tre punti con un blocco verticale, mandandolo poi su un (ennesimo) pick’n roll portato dall’altro lungo, allo scopo di cercare un cambio difensivo che favorisse Danilo. Le domande spuntano quindi come funghi. Perché Pianigiani non ha provato a dare un’identità più strutturata e meno “playground oriented” a quella che in molti hanno definito come l’Italia più forte di sempre? Perché, vista l’assenza di lunghi di peso, non esasperare il ritmo utilizzando una sorta di Run & Gun disciplinato, invece che ricorrere il più delle volte ad attacchi a difesa schierata, prevedibili e statici? Come mai non si è cercato di lavorare, sin dal raduno, sulla necessità di muovere la palla piuttosto che tenerla tanto tra le mani? Emblematico a riguardo l’attacco alla zona contro la Germania, che ci ha visto andare totalmente in bambola, faticando persino a completare un ribaltamento di lato. E ancora: perché abusare del pick’n roll invece di scegliere un attacco fatto di blocchi lontano dalla palla quando si hanno in organico il miglior tiratore da tre punti d’Europa, la guardia più esplosiva del torneo e un numero “4” in realtà perfettamente capace di agire da esterno puro contro pari ruolo più lenti e pesanti?

A questi e ad altri interrogativi, che devono essere spunti di riflessione piuttosto che un inutile processo, riteniamo sia necessario che coach Pianigiani dia seguito per capire come colmare il divario con le più forti e risolvere il paradosso di una nazionale carica di contraddizioni, apparsa come una roboante Ferrari lasciata in garage, in attesa di dare sfogo a tutto il suo potenziale.

2) La protezione dell’area. Che gli azzurri fossero un roster più propenso all’attacco che alla difesa lo sapevano anche i muri del Palasport di Bormio ospite del ritiro azzurro. Tuttavia, anche in questo senso, l’Europeo ci ha riservato delle sorprese. L’approccio rabbioso tutto cuore di cui parlavamo sopra ha infatti dato i suoi frutti anche e soprattutto nella metà campo difensiva, dove gli azzurri, Turchia a parte, sono sempre stati pronti a dare battaglia e a spendersi con grinta nelle situazioni di single coverage. Eppure, proprio come nel caso dell’attacco, nel momento in cui la ragione era chiamata a prevalere sull’istinto, l’organizzazione sull’improvvisazione, ecco il crollo. E dire che Pianigiani aveva costruito i suoi successi in terra senese grazie all’attenzione maniacale con cui preparava la difesa. Risulta davvero difficile da spiegare come, dal primo all’ultimo minuto della manifestazione, l’Italia si sia sempre e costantemente fatta trovare impreparata nella copertura del proprio verniciato, in più occasioni terra di vere e proprie scorribande. Sebbene le attenuanti non manchino (assenza di lunghi intimidatori alla Marconato, per intenderci, avversari pronti a colpirci nel nostro punto debole), a questi livelli non è accettabile, per di più dopo tante partite giocate assieme, l’incapacità di trovare una contromisura alle penetrazioni degli esterni avversari. Le prime avvisaglie le avevano fornite Dixon e Guler, passando da un devastante Schröder, Teodosic e arrivando al culmine di Kalnietis e Seibutis, i quali ci hanno irriso arrivando al ferro con facilità disarmante e trovando comodi scarichi sul perimetro.

Le ragioni di questo problema sono state essenzialmente due, entrambe di carattere tattico. La prima il posizionamento sul lato debole, che, purtroppo per gli azzurri, non è una dote naturale, ma va allenato, studiato e applicato con una precisa cognizione di causa. Troppe volte siamo stati puniti da una mancata rotazione o da un’errata disposizione in campo, troppe per pensare si trattasse di un caso e non di un difetto congenito a questa squadra. La seconda, invece, è stata la difesa sul tanto amato pick’n roll, un autentico pianto greco. Perché se errare è umano, perseverare nell’inseguire a trenino (come si dice in gergo) il palleggiatore che sfrutta il blocco è più che diabolico. Specialmente se, come già detto, l’area non è occupata dal Gasol o Koufos di turno e il lato debole non fornisce l’aiuto che ci si aspetta. Una soluzione probabilmente percorribile, considerate le nostre caratteristiche, avrebbe potuto essere quella di proporre il classico “aiuto e recupero” del lungo sul blocco sulla palla, sfruttando il dinamismo dei nostri Big Men e mettendo pressione sul play/guardia costringendolo a liberarsi del pallone. Ancor di più se si pensa che, oltre a Gallinari, dalla panchina potevano uscire i vari Melli, Polonara e Cusin, i quali hanno nel DNA questo tipo di aggressività e avrebbero aiutato non poco a mascherare i nostri limiti. Del resto, quando si ha una squadra fondamentalmente “piccola” non è saggio adottare un approccio attendista ma, a maggior ragione, la scelta più appropriata risulta quella di aggredire in prima persona, alzando l’intensità, portando raddoppi, “mordendo” i playmaker avversari e viaggiando su ritmi che non possono non essere congeniali agli azzurri, viste le suddette peculiarità. Anche questo, per noi che valutiamo a posteriori e che siamo qui a mangiarci le mani tanto quanto i veri protagonisti, resta un mistero di difficile soluzione.

3) Lo scarso utilizzo della panchina. Prima ancora delle sensazioni, parlano le statistiche. Melli, 11 minuti di media a partita; Polonara, 4,4 minuti; Cusin 10,5; Della Valle 6,7, ma spalmati su sole tre gare. In sostanza, poco più che scampoli. Non stiamo parlando di stelle affermate o di prospetti NBA (almeno per ora), ma sicuramente di buoni giocatori che, inseriti in un contesto opportuno (vedi sopra) sarebbero stati un aiuto validissimo, soprattutto da un punto di vista difensivo. Senza contare che, in una competizione massacrante, dove si gioca tutti i giorni, in cui ogni match ha un’importanza capitale, allargare le rotazioni diventa un obbligo, oltre che un’opportunità. Gli ultimi minuti di Italia-Lituania oppure della partita contro la Germania ci riportano alla mente le tante palle perse causa debito d’ossigeno, suffragando la nostra tesi secondo cui potevamo e dovevamo cercare di ottenere di più dalla nostra panchina. Non dimenticando che, alla vigilia dell’europeo, tra i fattori positivi di un’Italia dalle grandi aspettative, uno dei più menzionati era proprio la profondità del roster. Ecco appunto, perché non provarci allora, togliendo un pò di carico dai sette attori principali? Aradori insegna come la giusta fiducia e la chiarezza del proprio ruolo possano portare a fare grandi cose, anche subentrando a gara in corso.

Schiacciata di Melli (foto A. Bignami 2013)

Melli, poco utilizzato nella manifestazione (foto A. Bignami 2013)

4) Daniel Hackett. Uno che invece il campo lo ha visto abbastanza è stato sicuramente Daniel, dandosi il cambio con un generoso Cinciarini in cabina di regia. Ciò nonostante, la nostra opinione è che l’elevato minutaggio sia stato tale solo per mancanza di vere alternative. Hackett ha infatti non solo confermato tutte le sensazioni negative che lo hanno circondato nelle ultime due stagioni in maglia Armani, ma le ha addirittura amplificate. Troppo brutto e impaurito per essere vero, troppo limitatosi al compitino per offrire quella verve e quell’inventiva di cui gli azzurri avevano bisogno come il pane. Più che da vero playmaker, infatti, Danny Boy ha svolto la funzione di “trasportatore di palla“, non creando gioco, non rendendosi mai pericoloso al tiro e non cercando quasi mai fino in fondo l’entrata per concludere o per provare a scaricare sui compagni. Al di là di qualche prestazione difensiva sopra le righe, fra tutte quella con i lituani, l’atteggiamento di Daniel è stato sempre piuttosto remissivo, quasi a volersi liberare di responsabilità che puntualmente ricadevano nelle mani dei fantastici quattro. Abulico è probabilmente l’aggettivo che inquadra meglio il suo Europeo.

Certi che non sia questa la versione dell’Hackett che vogliamo e di cui ha bisogno la nazionale, ci chiediamo: dov’è finito, ormai da due anni a questa parte, quel giocatore fantastico che a Siena aveva incantato? Dove si è cacciato quel ragazzotto terribile, dalla personalità strabordante, che in maglia Montepaschi risolveva le partite da solo, schiacciando in testa a chiunque e servendo vagonate di assist? La speranza di tutti è che Daniel possa ritrovare, nel suo spirito innanzitutto, quella versione di sé tanto apprezzata e soprattutto tanto utile a un’Italia che rischia di avere altrimenti, nel prossimo futuro, un grosso vuoto in quello che è forse il ruolo più importante.