Ramel Curry con la "famiglia" italiana

Ramel Curry con la “famiglia” italiana

In Italia se lo ricordano in molti. Del resto, è un giocatore – e prima di tutto una persona – che non si dimentica. Abbiamo incontrato Ramel Curry, guardia ex Avellino e Pesaro, per una lunga chiacchierata a cuore aperto sul basket, sulla vita, sulla fede che lo guida, su presente, passato e futuro.

Solo a sentirlo parlare ci si emoziona. Sarà il suo sguardo intenso e il suo sorriso reticente quando lo si invita a parlare di sé, sarà la voce profonda, sarà la semplicità con cui racconta di sé senza che gli venga chiesto niente. Saranno tutte queste cose insieme, ma quando si ha l’opportunità di trascorrere un po’ di tempo con Ramel Curry ci si sente fortunati. E si capisce perché è arrivato a dire la sua in Eurolega, costruendosi una carriera di alto livello senza essere mai stato un giocatore da copertina, senza aver frequentato college sotto i riflettori. “Sono cresciuto di livello in ogni squadra in cui ho giocato e mi sono sempre messo in discussione per migliorarmi”, dice candidamente, nel salotto del suo appartamento vicino all’OAKA Arena. E pensare che è forse l’unico giocatore ora professionista di tutta l’America che ha cominciato a giocare a pallacanestro solo al college, senza averlo fatto all’high school. Perché prima di ogni giocatore di pallacanestro, c’è la qualità della persona che, ancora, conta. E lui ce lo ha insegnato.

Curry in maglia Panathinaikos

Curry in maglia Panathinaikos

Ramel Curry nasce a Brooklyn, New York, vive insieme alla madre e a 13 cugini. Figlio dei playground della Grande Mela, come molti americani di famiglia modesta ma dignitosa pratica il baseball e per farlo in maniera seria si sposta giornalmente nel Queens. Il tragitto dura 40 minuti e i campi da basket sono troppi per non fermarsi a giocare con gli amici. Il talento è tanto, la passione cresce ogni giorno di più e finalmente l’opportunità giusta arriva: A quell’epoca giocavo solamente dei tornei locali e sono diventato velocemente il miglior giocatore del quartiere. Lì ho conosciuto il mio mentore, Theo Perry, padre di un amico. E’ stato lui a notare che c’era qualcosa di più in me, come persona e come giocatore. Un coach di Fresno City College in California cercava una combo guard, capace di giocare uno contro uno e di segnare: il nome giusto era il mio. Finita l’high school mi chiamò dicendo che aveva bisogno di parlarmi. Andammo a cena e mi disse:«Se stai qui, potresti non fare mai niente. Hai bisogno di scoprire il mondo, andare al college e seguire il tuo sogno». Questo è quello che ho fatto, nel 1998. Ho lasciato per la prima volta la mia famiglia e sono andato a Fresno”.

Ramel Curry fuori dal campo (foto archivio personale R.Curry)

Ramel Curry fuori dal campo (foto archivio personale R.Curry)

Un salto che è necessario fare, per diventare giocatore, ma anche per diventare uomo. E’ stata una grande esperienza, ma anche molto dura. Quando arrivò il giorno in cui dovetti lasciare i miei parenti fu bellissimo perché vennero tutti a salutarmi e augurarmi ogni bene. C’erano tutti i miei migliori amici, ho aperto la porta di casa ed erano tutti lì. C’erano altri tre ragazzi di New York, erano con me all’aeroporto e saremmo dovuti andare a giocare nella stessa squadra”. Poi l’impatto con la vita da campus: “Sentivo per la prima volta un grande senso di me. Il basket era quello per cui ero andato via ed ero pronto a giocare. Il primo anno al college fu il migliore. Ricordo ancora il primo giorno nel campus, una cosa strana: persone di 20, 30, 40 anni e io così giovane, così diverso nel modo di vestire e di apparire. La gente voleva sapere da dove venivamo, che cosa facevamo, eravamo stranieri nella nostra terra. Al momento di giocare mi dimostrai all’altezza, sono sempre migliorato a mano a mano che si alzava il livello. Avevamo una combinazione di giocatori locali della California e di ragazzi che venivano da New York, e c’era anche Terrell Lyday (ex Treviso, Galatasaray e Kazan tra le tante), ancora oggi mio grande amico. Il coach fece un gran lavoro, avevamo talento sia negli esterni che nei lunghi, ma era il mio primo vero allenatore e fu uno shock. Fu la prima volta che la mia pallacanestro andò in crisi: mi mostrò che la pallacanestro non significa solo fare canestro. Giocare a basket significa fare tante altre cose, che tu lo sappia o no. Difesa, tattica, modi diversi di segnare, attaccare il ferro, avere sempre controllo del proprio corpo.Dopo due anni a Fresno andai a Bakersfield, in Division I. Era un altro livello di basket, avevano un ottimo programma cestistico, il coaching staff era competente e si curavano maggiormente dello sviluppo dei giocatori. Un’esperienza importante: allora ero un killer, adesso sono molto più trattenuto”.

Il potenziale dentro Ramel è tanto, ma il college non è di ultimo grido ed è necessario maturare. La gavetta arriva e lui la fa tutta, deciso a fare del basket la sua vita, pronto a trarre insegnamenti da ogni occasione. Un breve periodo in leghe minori locali, un anno e mezzo in ABA e alla fine la D-League: “E’ stata un’esperienza super, mi sono trovato a passare da talenti locali a giocatori che facevano avanti e indietro con l’NBA. Era una sfida per me. Ho giocato ad Atlanta, per i Columbus Riverdragons, poi diventati Austin Toros. Ero un rookie dei Toros e ho vissuto un grande anno in Texas, allenato dall’Hall of famer Dennis Johnson.

La prima esperienza da professionista è nella Repubblica Dominicana. Posto giusto da cui partire, tanti minuti a disposizione, non troppo talento e tanta fisicità.
“Esperienza molto dura. Vivere era veramente difficile, è considerato una sorta di terzo mondo ma la gente era molto appassionata di basket. È la lega più fisica in cui abbia mai giocato, ma ho fatto una stagione super. Quando sono entrato, la squadra era all’ultimo posto. L’ultima partita che ho giocato prima di andarmene era la partita per il primo posto.”

Curry al campetto (foto archivio privato R.Curry)

Curry al campetto (foto archivio privato R.Curry)

Come mai poi hai scelto l’Italia?
“Dopo quella stagione (chiusa a 25.9 punti a partita) il mio agente mi ha detto che c’erano alcune squadre interessate, due in Italia e una di queste era Avellino. Non sapevo niente dell’oltreoceano ma mi sono sempre detto: se devo andare oltreoceano, devo andare in Italia. Non era per il basket, ma per due ragioni. La prima: ero sposato e la mia famiglia mi avrebbe potuto seguire in Europa senza problemi. La seconda: il cibo! E cosi ho scelto Avellino. Avevamo capito che non era un top team, ma c’erano tanti buoni giocatori. All’epoca mi parve la migliore decisione.”

Raccontaci qualcosa di Avellino: la prima volta in Italia e, guardando i numeri, senza dubbio la tua migliore stagione a buon livello, che ti ha proclamato stella di quel campionato.
Il primo periodo in Italia fu uno shock: negli alimentari non riuscivo a leggere niente, non riuscivo a trovare i pancake da nessuna parte! Gli altri americani della squadra, tra cui Harold Jamison, andavano a comprare alla base americana della Nato, tutti prodotti americani, e questo ha reso tutto molto migliore. Mia moglie amava la cultura italiana, entrambi eravamo colpiti da come gli italiani amino i bambini e la famiglia. Ho imparato molto dalla gente di Avellino: gli italiani apprezzano la vita, la famiglia, il modo in cui mandano avanti le proprie attività. In America la gente è pigra e non è lo stesso. Tutto era diverso: passeggiare, incontrarsi con le famiglie, mangiare sempre insieme. Sono tutte cose che noi facciamo ora e che l’Italia mi ha insegnato. Sul campo fu un’esperienza molto tosta. Ad inizio stagione e in precampionato giocavamo bene, io giocai molto bene fino all’infortunio. Fui costretto a saltare le prime sette partite della stagione ma riuscii comunque ad inserirmi al meglio. Mi piace giocare a basket e farlo nel modo in cui la squadra per cui gioco vuole che io lo faccia. Matteo Boniciolli mi disse a faccia a faccia: «Voglio che tu sia un killer in questa squadra. Fai quello che sai fare, fai canestro e con me giocherai». È stato come se mi mettesse la palla in mano. E così ho fatto. È questa la differenza rispetto ad altre squadre dove ho giocato. Ci sono allenatori che rispettano quello che faccio, ma mi fanno fare quello che vogliono loro. E poi i tifosi, ad Avellino erano eccezionali. Erano matti, ma erano grandiosi, molto caldi. E come giocatore è il massimo”.

Dopo Avellino però, hai attraversato forse gli anni più bui della tua carriera.
“L’estate successiva ho firmato per due squadre: prima la Montepaschi Siena. Una grande opportunità, ma avrei dovuto essere operato appena tornato a casa e l’operazione mi avrebbe tenuto un mese fermo. Parlai col mio agente ma Siena voleva che io aspettassi a fare l’operazione. Volevano che il loro dottore mi visitasse ma allo stesso tempo avrei dovuto aspettare più di un mese perché loro stavano giocando i play-off e questo scombinò tutto. A quel punto mi volevano Malaga e Tau e firmai a Tau, ma anche qui i dubbi sui miei problemi fisici furono un ostacolo. Una settimana dopo il mio agente mi chiamò e mi disse: «Hai un problema al ginocchio?» «No, non ho nessun problema». Il giorno dopo mi richiamò: «Qualcuno che ti ha visto giocare ad Avellino ha visto che ti sei fatto male, ci sono dei dubbi su di te». E tutti i miei affari furono cancellati. Avevo il contratto firmato, nelle mie mani proprio come a Siena, ma non se ne fece più niente. E questo fu il motivo per cui andai all’Hapoel. A settembre mi operai e quando Gerusalemme mi chiamò ero pronto ad andare. Durante il training camp, il primo giorno, il mio allenatore (Dan Shamir, oggi assistant coach del CSKA) mi disse queste precise parole: «Io so che tipo di giocatore sei, tu segni, sai giocare uno contro uno, ma io non ci credo.”. Diretto in faccia. E non mi ha mai fatto giocare. I tifosi erano furiosi con l’allenatore: perché non fai giocare Curry, chiedevano. Anche all’interno della squadra glielo chiedevano. E la cosa peggiore fu che Barcellona cercò di prendermi, ma non mi lasciarono andare. Dan disse al presidente: «Deve ancora vincere una o due partite per noi». Quella fu la parte brutta della stagione. La parte buona invece fu che ero nella capitale mondiale della fede. Io sono un uomo di fede e questa esperienza non è stata seconda a niente nella mia vita. Un’esperienza che rende la pallacanestro nulla. E imparai tanto. Il basket è qualcosa che passa e passerà, ma Dio è sempre qui anche se il basket è il mio lavoro. Avere la sensazione che qualcuno mi stesse togliendo il successo professionale senza alcun motivo particolare era duro, non lo capivo, ma andai avanti”.

Raccontaci questo tuo rapporto con la fede. Come lo coniughi con la professionalità nella pallacanestro? E perché il tuo gesto ogni volta che scendi in campo?
“È tutto un equilibrio. Ed è stata una sfida allo stesso tempo. La fede mi ha sempre permesso di attraversare i momenti difficili, credendo in qualcosa in più che nel solo basket. Il basket è il mio lavoro, non la mia vita. È ciò che sono che mi definisce, non il mio lavoro. La fede per me è credere in Dio, che ha interesse per me e vuole sempre il meglio per me. È credere in qualcosa che non vedi. Puoi avere alti e bassi nella tua carriera o nella vita, ma l’aspetto migliore della fede è che ti fa sentire bene anche quando vanno male. Io credo in quello che leggo, in quello che studio perché tutto quello che mi è capitato mi è capitato grazie alla fede. Per me è semplice perché ho dei binari che mi dicono di fare questo, quello o quell’altro, io provo a farlo. Se mi si dice di andare a sinistra, io non vado a destra. C’è gente che ha una fede limitata, e quando le cose vanno bene, hanno la miglior fede del mondo, quando le cose vanno male se ne dimenticano. Il mio gesto in campo? Semplicemente, ringrazio Dio. Non posso non farlo. Non mi ricordo quando ho cominciato, so solo che ritrovarmi qui a poter dare da mangiare alla mia famiglia senza aver cominciato a giocare a basket a 5-6 anni, mi permette solo di ringraziare il Signore.

Curry lascia un segno del suo passaggio a Pesaro

Curry lascia un segno del suo passaggio a Pesaro

Poi sei arrivato a Pesaro. Stagione con squadra dalla discrete ambizioni, qualificazione ai playoff. Cosa ti ricordi di quel periodo? Vedi delle differenze tra le tue due esperienze italiane?
“Pesaro è stata per me come una boccata d’aria fresca. È una bellissima città nella quale potrei assolutamente vivere. Ci starei giorno e notte per tanti motivi: lo stile di vita che io e mia moglie amiamo, il mare, che ti fa sentire bene e ti fa stare meglio. Ed è sempre bello tornare in un paese dove hai avuto successo. In campo e fuori ho trovato un gruppo di ragazzi fantastici, Leroy Hurd, che consideravo come mio fratello, Carlton Myers, un grande uomo, e Casey Shaw, un fratello della fede. Adoravo il cibo, e poi lì ho trovato la più grande famiglia sulla terra: la mia famiglia italiana. Ed è stato tutto stupendo. Dal punto di vista cestistico non è stato male, siamo andati ai playoff e siamo stati spazzati via da Siena. Avevamo un’ottima squadra e forse con un paio di cambiamenti in corso sarebbe potuta essere una stagione ancora migliore. Se confronto le due stagioni ti posso dire che in entrambe le squadre il talento non mancava:ad Avellino c’ero io, c’erano Brent Darby, Jason Caple, Harold Jamison, Sylvere Bryan, Andrea Pecile, Nikola Radulovic, Derrick Zimmerman, ma gli infortuni ci hanno tormentato. A Pesaro la stagione è filata più liscia. Una grande differenza però la fanno i tifosi: ad Avellino i tifosi sono praticamente in campo mentre a Pesaro il palazzetto è gigantesco e senti meno il pubblico. Riguardo all’organizzazione, penso che Pesaro abbia un’organizzazione di altissimo livello.”.

Nella tua carriera hai giocato in tantissimi campionati e le esperienze di più alto livello sono in Grecia e in Italia. Che differenze vedi tra le due?
“Senza dubbio il talento diffuso. Quando io giocavo in Italia, l’ultima squadra poteva essere la prima, tutto poteva accadere. Ogni partita in Italia è così, tu giochi sempre contro qualcuno che ha talento. Invece in Grecia ci sono due top-team di alto livello che sono anche al massimo d’Europa, mentre contro tutte le altre squadre puoi tranquillamente dormire. Non c’è competitività, in confronto a quando giochi con l’Olympiacos. Si può trovare un ragazzo talentuoso in una squadra, due in altra, però si va dal tutto al niente. Il basket greco è duro, spigoloso. Il livello delle partite è difficile da spiegare perché in Italia hai allenatori di esperienza, giochi contro tanti talenti e ti devi preparare alla perfezione per ogni gara. Qui è diverso perché qui sai che se giochi contro l’ Olympiacos o il Panathinaikos andrai a perdere”.

In compenso hai giocato l’Eurolega in uno dei club più titolati d’Europa, arrivando a questo livello a 33 anni, da giocatore maturo. Come la vivi?
“L’Eurolega è il top. È la lega in cui puoi mostrare veramente il tuo talento e giocare contro giocatori incredibili. Io amo giocare contro i più forti e raramente mi è capitato di giocare contro squadre dove è così fondamentale attaccare bene, difendere forte su ogni possesso. Per me l’età non è gran problema, mi sento bene e non gioco per l’età che ho. Forse sarebbe stato meglio arrivare in Europa prima ma non ci penso più di tanto. Il Panathinaikos ha una grande storia e hanno vinto tutto. Hanno oltre 100 anni di storia ed è fantastico giocare con ragazzi come Diamantidis, Ukic, Mike Batiste. È bello vedere come si preparano per le partite. Sapete, ci sono diversi livelli di professionalità: ci sono quelli che sono semplicemente professionisti e quelli che sono veri professionisti. Stare al loro fianco significa imparare ogni volta di più come si gioca, quale approccio avere alla partita, ed è bello tanto giocarci insieme quanto giocarci contro. In Eurolega giochi anche contro l’organizzazione, contro i grandi allenatori e contro il loro modo di concepire il basket. Mi diverto tantissimo”.

Curry in uno dei tanti derby contro l'Olympiacos

Curry in uno dei tanti derby contro l’Olympiacos

Com’è vivere la storica rivalità tra Olympiacos e Panathinaikos da protagonisti?
“Incredibile. Atene è divisa in due. Ci sono ristoranti, bar, posti dove tifano Panathinaikos e altri dove tifano Olympiacos. La gente ti ferma per strada, ti saluta e la prima cosa che dice è «Mi raccomando battete l’Olympiacos». Poi il tifo è roba da matti. Il giorno prima della partita del titolo dello scorso anno siamo andati in albergo per concentrarci. Siamo usciti e ci siamo trovati di fronte un mare bianco-verde di 5000 nostri tifosi, che si frapponevano tra noi e il pullman e ci incitavano. E non ci facevano salire. In realtà le cose tra noi giocatori sono più tranquille, c’è intensità ma rispetto. È una cosa fantastica!”.

Nella tua lunga carriera hai ricoperto molti ruoli diversi: partito da realizzatore vero e completo in squadre di medio livello con 30 tiri a sera, sei diventato un killer dalla panchina che con pochi tiri deve segnare tanto e rompere il ritmo. E come hai vissuto il tuo cambio di ruolo?
“È vero, il mio ruolo attuale è proprio questo, anche se non è stato tutto semplice. Quando sono arrivato nel 2013 a fine stagione il mio ruolo era quello di terza guardia dopo Dimitris e Roko. Dovevo dimostrare di saper fare canestro, sapevo cosa fare del pallone e sono diventato un tiratore. Volevano solamente che tirassi ogni volta che toccavo la palla e quello è diventato il mio ruolo. Mi è venuto tutto facile: la prima partita 18 punti, la seconda 19. Non sono mai stato così libero proprio per il modo di giocare le partite. Sapevo in che situazione mi stavo mettendo. E in più sapevo che non avrei giocato 30 minuti ma 10-15, forse 20. Pensavo che sarebbe stato terribile, ma ero preparato. Nell’ultima stagione le cose sono cambiate ancora. Rispetto al mio ruolo iniziale, l’allenatore ora ovviamente vuole di più. «Continua a fare quello che sai fare, sii più aggressivo, prendi più pick and roll, tira ogni volta che tocchi la palla, segna, voglio che tu sia il killer di questa squadra».È sempre una grande sfida, ea me piacciono le sfide. Che mi piaccia o no, se mi dici di farlo è il mio lavoro. Il segreto è adattarsi al sistema”.

Il tuo modo di giocare contraddice un po’ lo stereotipo del giocatore americano, sei un giocatore elegante e non esplosivo, ma estremamente tecnico e utile per creare vantaggi. Cosa ne pensi?
“Sono d’accordo. Più velocemente sai adattarti ad un sistema e più semplice sarà l’inserimento. Ho dovuto imparare a mettere palla per terra ed è una delle cose più difficili per un americano. In NBA prendi palla, fai 4-5 passi e poi… vai a schiacciare. Qui l’ho dovuto imparare prima mentalmente, poi fisicamente e non è facile. Io provo solo a essere Ramel Curry, questa è l’unica cosa che posso fare. In Eurolega è difficile perché hai tanti giocatori forti, ma soprattutto hai regole più ferree. Qui non ci sono i tre secondi difensivi. Puoi stare 6, 11,12 secondi nel pitturato ed è più dura, mentre negli USA devi entrare e uscire ogni volta entro tre secondi. Per questo vedi tanti lay-up, tanti punti. In NBA non puoi toccare nessuno, invece qui è più dura per tutti, qui è molto più fisico perché il campo è più piccolo. Il concetto di squadra è più forte, la pallacanestro stessa è più orientata alla squadra, sia offensivamente, nella ricerca del tiro migliore, che difensivamente, dove si lavora tutti in sincronia. Qui è tutto più simile al college basket ma è molto più dura. Qui quello che segna di più ne segna 17 di media, là 30, 35”.

Siamo ormai nel pieno del mercato estivo: cosa riserva il futuro a Ramel Curry?
Non lo so ancora, ma sono certo che Dio provvederà come ha sempre fatto. E sarò pronto per qualunque paese o squadra. Sono particolarmente felice, perché per la prima volta in cinque anni mi sto godendo la vacanza totalmente in salute. In questo momento stare con la mia famiglia è molto importante per me, è una cosa davvero speciale ed è ciò che io chiamo davvero vacanza: tutto il tempo per me e la mia famiglia e… mangiare senza limiti! E’ questa per me la miglior stagione”.