Dopo la vittoria sulla Sigma Barcellona nell’ultima giornata di Lega Adecco Gold, valsa il sesto posto al termine della stagione regolare, riproponiamo quest’intervista esclusiva a Marco Ramondino, uno dei nomi “nuovi” del basket italiano, che guiderà la sua GZC Veroli ai playoff contro Verona.

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La grinta di Marco Ramondino

(25/02/2014) Immaginate di essere un bambino piuttosto in carne, troppo in carne. Vostra madre vi iscrive a basket perché le sembra che sia lo sport giusto per farvi inzuppare di sudore e asciugare la pancia, e perché nella vostra classe ci sono già bimbi che lo praticano. Alla fine ci tornerete, nel peso forma, ma perdendo i chili avrete anche preso una malattia che si chiama pallacanestro. Immaginate quindi di essere quel bambino. Intorno a voi, l’ambiente del basket campano, dove la tradizione ha radici profonde di 60 anni ed è nutrita da una certa dose di rabbia e di orgoglio che non si vede altrove. La vostra città è Avellino. Alla faccia di Guccini, sarà anche una “piccola città”, ma per voi è tutt’altro che un “bastardo posto”. A livello sportivo, snobbate un po’ quel calcio che sarebbe stato la gloria di vostro padre, se solo non avesse smesso ad un passo dal professionismo, visto che di soldi non ce n’erano. Avellino per voi è solo basket, è il professionismo delle vecchie B, giocatori di rango, Claudio Bardini in panchina…serie di altri tempi, con un sapore ancora epico. Crescete e quando siete al liceo abbandonate lo sport giocato, consci che non vale la pena trascinarvi su e giù dal campo più del dovuto, perché la vostra passione è un’altra. È così che cominciate ad allenare prima di finire il liceo. Ed è subito ascesa.

Ora avete trent’anni, allenate nella seconda serie maggiore. Immaginate però anche di restare coi piedi per terra, di arrossire se vi fanno dei complimenti, di cambiare argomento se qualcuno insiste nelle lodi. Se avete immaginato tutto questo, aprite gli occhi: è realtà. Infatti vi siete messi nei panni di Marco Ramondino, il più giovane head coach della Dna Gold in Lnp. Ramondino è approdato sulla panchina di Veroli prendendo il posto di Marcelletti, il Professore, di cui era il trentenne assistente nella stagione scorsa. Nel roster di Veroli ci sono giocatori più anziani di lui, ma Ramondino non ci fa caso e se glielo fate notare, fa presto a cambiare argomento. L’età è uno stato mentale, dicono. O più concretamente, quando si giudica in base ai risultati, il resto non conta.

In un’Italia che non ha ancora deciso se considerare i giovani una risorsa, un problema o un branco di bamboccioni, ecco che una storia di talento e umiltà fa notizia. «Mi sembra che in generale si faccia una gran fatica al rinnovamento, in tutti i campi. Si preferisce lo scarico di responsabilità scegliendo l’esperienza. Difficilmente si investe sul nuovo per paura» dice Ramondino analizzando lo scenario odierno. Il coach in realtà ha trovato chi ha voluto investire in lui.

Nessun fiocco di neve cade nel posto sbagliato

Un proverbio indiano dice: “Quando l’alunno è pronto, il maestro appare”. Sono i primi anni del 2000 e Andrea Capobianco firma un contratto come responsabile del settore giovanile di Avellino. Subito il tecnico, oggi sotto contratto della Federazione, comincia un’opera di coinvolgimento degli allenatori più giovani. «Capobianco mi ha insegnato tutto. – racconta il coach – Si è preso cura di me, e di altri, a 360 gradi. È stata una persona fondamentale che ha sacrificato tempo e messo a rischio i suoi stessi risultati per accrescere chi gli stava intorno, senza interesse personale. Formare una persona non vuol dire solo dedicargli del tempo in palestra: Capobianco ha condiviso i suoi saperi senza essere geloso delle proprie conoscenze. Egli stesso, per primo, non mi ha mai trattato come un assistente, ma come un allenatore, responsabilizzandomi, insegnandomi un ruolo. Oggi come oggi non vedo questo tipo di atteggiamento in giro, perché la tendenza è quella di sfruttare le risorse per ottenere risultati immediati, a scapito dell‘investire nella formazione, che dà esiti sul lungo periodo».

Talenti precoci

Nel 2002 Ramondino spegne 20 candeline e come regalo riceve una panchina. Non è una battuta: nel 2002 il giovanissimo Marco diventa assistente di Zare Markovski, coach di Avellino in serie A. «Ma mi accorsi presto che stavo affrontando una realtà più grande di me. Non avevo concluso la mia formazione, dovevo ancora crescere, il percorso doveva essere graduale» ricorda Ramondino, che infatti si reca da coach Zare e spiega i suoi dubbi, ricevendo rassicurazioni e il benestare a cercare altri lidi. Una scelta coraggiosa, lasciare la serie A per tornare alle giovanili, ma supportata dalla consapevolezza dei propri limiti, e dal fatto che a Salerno, dove Marco si trasferisce, c’è ancora Capobianco, punto di riferimento e modello. «Fu un periodo in cui riuscimmo a fare grandi cose, fu incredibile». Tra queste grandi cose: le finali nazionali U18, U20, un caschetto biondo solo tre anni più giovane del coach che si chiama Giuseppe Poeta («lo ammiro molto per la serenità e la maturità con cui prende le critiche: ne riceve tantissime, e puntualmente le smentisce tutte, sul campo»). Nessun rimpianto per l’esperienza lampo in serie A: «Non è perché ti chiamano in serie A, che tu sei da serie A» conclude sbrigativo. E poi mica era un addio, solo un arrivederci.

Dagli Appennini ai Colli

coach Marco Ramondino - Basket Veroli (foto Salvo Bonaceto)

coach Marco Ramondino – Basket Veroli (foto Salvo Bonaceto)

Dopo una parentesi di B2 a Salerno da assistente, e a Battipaglia in serie C, nel 2007 arriva a Jesi, vice di Capobianco e coach dell’U19. La prima esperienza fuori dalla Campania. Jesi, squattrinata e data per spacciata, arriva in finale playoff di LegaDue. La Jesi che con cuore ed orgoglio moltiplica pani e pesci, sfodera gente come Maestranzi e Moss. I risultati marchigiani sono solo un’anteprima di quello che accadrà poco dopo con Teramo, in serie A, nella stagione 2008/2009. Quell’anno, Ramondino assistente, finiscono il campionato al terzo posto, vanno ai playoff contro Milano, superano i preliminari di Eurocup. Tra una cosa e l’altra, il cellulare di Ramondino squilla e dall’altra parte c’è Antonio Bocchino, che lo cerca per il ruolo di assistente della Nazionale U18. «Sarò sempre grato ad Antonio, che è una persona di una correttezza e lealtà uniche. Come Andrea Capobianco, anche Antonio mi ha insegnato molto. Sarebbe troppo facile mettersi dietro un pc a dare ordini: ho trovato invece persone che hanno scelto di metterci la faccia ed esporsi». E così Marco indossa la felpa Azzurra, mentre Markovski qualche mese dopo si ricorda di lui e lo chiama alla Fortitudo, «un coronamento, vivere a Bologna, una città e un ambiente che respira basket 365 giorni all’anno».

Qui e ora

La Storia a questo punto si fa Attualità: nel 2012 Ramondino viene chiamato a Veroli con Marcelletti e poi da primo allenatore. «L’unica condizione per restare a Veroli era che potessi avere il miglior assistente possibile. L’ho avuto, Luca Ciaboco. Infatti non si considera mai a sufficienza il valore dello Staff, bisogna circondarsi dei migliori per essere un primus inter pares, piuttosto di comandare dei subordinati». Ramondino non lo dice, ma il concetto è che non conviene fare il re con un occhio solo in un mondo di ciechi. «Io penso che nella vita bisogna fare delle scelte: o scegli di vivacchiare, oppure accetti di metterti in discussione. Solo nel secondo caso puoi crescere».

Ramondino head coach a trent’anni, una gavetta di provincia nel Meridione degli anni 2000, culminata in un’ascesa che è solo all’inizio: «Per me è motivo di orgoglio essere arrivato qui dove sono ora passando per società minori. E sono stato fortunato perchè sulla mia strada ho trovato persone che hanno investito nella mia formazione». Che sia di buon auspicio in vista di un rinnovamento generazionale, interno alla pallacanestro ma non solo? No, non ditegli questo, a Ramondino. L’età, lo status di un professionista, la sua provenienza non devono incidere sull’unico parametro di giudizio possibile: il merito. «Un sistema meritocratico non si basa su chi ha la qualifica per giocare, se parliamo di giocatori, ma su chi si merita di giocare». Un po’ come l’Italia, il mondo del basket dovrebbe ritrovare il valore della formazione e investire sulla crescita. Il coach di Veroli oggi pensa ai risultati della sua società, ma per il suo futuro il ragazzo di Avellino non rincorre la fama ma ha fame di «bei progetti, ai quali credere e per i quali non esiterei a tornare assistente». Ora è lui che dovrà immaginare…


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