Tutta la grinta di Massimo Chessa (2017 © Foto Alessio Brandolini)

La vita in Sardegna è forse la migliore che un uomo possa augurarsi: ventiquattro mila chilometri di foreste, di campagne, di coste immerse in un mare miracoloso dovrebbero coincidere con quello che io consiglierei al buon Dio di regalarci come Paradiso”. Da un bellissimo verso di Fabrizio De André sulla Sardegna nasce l’intervista ad un sardo doc, Massimo Chessa, che di professione fa il giocatore di basket e che ha coronato pure il sogno di una vita, vincendo lo scudetto con Sassari (lui che è nato proprio in quella città).

Partiamo dall’attualità. Dopo l’impresa a Treviglio, una vittoria nel derby sarebbe stata vitale per evitare i play-out per non retrocedere. Invece, la sconfitta fa ancora più male. “Vincendo il derby la strada per noi sarebbe stata ancora completamente aperta e molto sarebbe dipeso solo da noi. Adesso è diventato tutto quasi impossibile e quindi dobbiamo cominciare a pensare ai play-out, concentrandoci su queste ultime due settimane di campionato per cercare di arrivare al meglio quando conta”.

Chessa in penetrazione (2017 © Foto Alessio Brandolini)

Anche Bucchi in conferenza stampa ha parlato di tensione e pressione: avete probabilmente avvertito troppo l’importanza della posta in palio? “In realtà in settimana eravamo molto sereni e avevamo lavorato bene. Non so sinceramente cosa sia successo. Il derby è sempre una partita di nervi, strane perché spesso finiscono con punteggi o troppo alti o troppo bassi. Probabilmente ci siamo innervositi perché non siamo riusciti a fare canestro subito, smesso di passarci la palla e questo ha pagato alla fine. Nelle ultime due vittorie, con Agrigento in casa e a Treviglio la cosa fondamentale, oltre alla difesa, era stata anche la buona circolazione di palla in attacco che ci aveva dato un buon ritmo, coinvolgendo tutti diversamente”.

Tutta la stagione della Virtus ha messo in mostra, però, un problema di fondo: il rendimento in trasferta. Vi è mancata continuità, vero?Anche quello ha pesato. L’anno scorso avevamo fatto benissimo, quest’anno è stato un disastro praticamente. Le vittorie in trasferta ci sono mancate e non siamo riusciti mai a trovare ritmo e anche morale”.

La sfortuna è stata un leitmotiv di tutta la stagione, purtroppo: “Ci sono stagioni dove tutto va bene e altre in cui tutto va male. Quest’anno è, purtroppo, il secondo caso. Io mi sono fatto male subito, poi di nuovo l’operazione al dito: gli infortuni ci hanno falcidiato fino a due settimane fa in pratica, penalizzandoci tanto. Abbiamo cambiato tre allenatori ed è stata una stagione molto travagliata in tutti i sensi. Adesso, però, conta solo salvarsi e dobbiamo dimenticarci di tutto il resto”.

Chessa nella stagione dello scudetto a Sassari (foto di Salvatore Madau@2015)

Per affrontare meglio le difficoltà attuali, spesso è bene anche ricordare quello che è successo in passato. Per Massimo l’emozione più grande è stata quella di vincere lo scudetto con la squadra della città in cui è nato, Sassari. “Un’emozione incredibile, anche perché è stata una cavalcata iniziata l’anno precedente con la vittoria della Coppa Italia che nessuno si sarebbe mai aspettato. Poi l’anno dopo è iniziato subito vincendo la Supercoppa a settembre e lì c’è stata la svolta, soprattutto a livello di aspettativa e consapevolezza. Poi abbiamo vinto anche la Coppa Italia e siamo arrivati a giocarci i play-off convinti. C’era l’ostacolo Milano che negli anni precedenti ci aveva sempre sbattuto fuori: anche con un po’ di fortuna siamo riusciti a spuntarla e poi la nostra cavalcata è stata trionfale”.

Un risultato incredibile anche per tutta la terra sarda, a oltre trent’anni dalla mitica prima apparizione in Serie A della Brill Cagliari (1969-1970). “Negli ultimi anni la Dinamo ha creato un ambiente unico dove poter giocare, coinvolgendo completamente anche la Regione. Una festa incredibile per tutta la Sardegna, non solo per noi sassaresi”.

Dopo aver vinto tutto hai deciso di andare a Trapani. L’intenzione era quello di trovare un buon progetto oppure avresti preferito rimanere in Serie A?Avevo voglia principalmente di giocare, dato che venivo da un anno e mezzo in cui avevo poco spazio. La mia priorità era quella di riassaporare il campo, di rilanciarmi e avere più minuti. Optai per Trapani perché pensavo fosse la soluzione migliore. Nei primi mesi ho avuto diversi problemi, soprattutto perché giocavo male, mi mancava l’abitudine a giocare tanti minuti, ma poi è andata molto bene, riuscendo a conquistare anche i play-off”.

Massimo Chessa durante il derby dell’andata (2017 © Foto Alessio Brandolini)

Una delle altre esperienze segnanti nella carriera di Massimo è stata quella di Biella. Una crescita fisica e un grande impatto nella serie A l’hanno contraddistinta.Sicuramente, lì ero davvero molto giovane. Arrivavo dai primi anni di Sassari, perso la finale per la serie A in casa con Cremona e decisi di andare via dalla mia città. Mi sono ritrovato in una categoria superiore, con un fisico che andava ovviamente adeguato al nuovo livello: ho dovuto lavorare tre volte più degli altri, soprattutto nel primo anno. Una società in cui eri seguito ogni giorno sotto ogni punto di vista. Anni fondamentali per la mia carriera”.

Non è l’unico sassarese doc che tiene alto l’orgoglio cittadino, però: Massimo è legato da una bella amicizia con Marco Spissu. Chi è più forte da tre punti?Marco è troppo forte (ride, ndr). Ha avuto una crescita pazzesca che nemmeno io mi sarei aspettato. Ha guidato da play titolare la Virtus Bologna, ha giocato le partite che contavano trascinando la squadra. Quest’anno ha giocato bene, nonostante il finale di stagione un po’ meno brillante da parte di tutta la squadra”.

Dalla pallacanestro allo studio. Cresce il numero dei giocatori che prova ad affiancare alla carriera cestistica un percorso universitario, ma l’accesso non è molto facilitato per chi gioca a livello professionistico: “Anch’io chi ho provato a intraprendere un percorso universitario a Sassari, ma poi non sono mai riuscito a seguire e ho abbandonato l’idea dopo poco tempo. Per un giocatore professionista è complicato riuscire a studiare, perché tra allenamenti, partite, trasferte e quant’altro, il tempo per fare bene qualcos’altro è sempre poco. Esperienze che ti portano a vivere in tante città senza avere una stabilità fissa. Molti ci sono comunque riusciti, quindi volere e potere. A distanza di dieci anni da quell’esperienza, probabilmente è vero avrei potuto impegnarmi un po’ di più e portare a casa una laurea, perché poi quando smetti ti può sicuramente tornare utile”.

Chessa è una delle armi più importanti per la Virtus (2018 © Foto Alessio Brandolini)

Parlando di università e giovani, è semplice toccare il delicato “tasto” dei settori giovanili. L’Italia non naviga in ottime acque sotto questo aspetto (per usare un eufemismo) tra infrastrutture che mancano, allenatori e istruttori che vengono pagati una miseria e tanto altro. Da giocatore e quindi da protagonista interno a questo sport, dove bisogna mettere mano secondo te per migliorare un po’ le cose?Sicuramente si deve partire dagli impianti. Senza quelli manca un punto di riferimento per tutti, dal minibasket in avanti. La disponibilità delle palestre in tante città italiane è veramente minima: come a Roma, dove gli impianti sono veramente pochi. Poi bisogna investire seriamente sui settori giovanili: alla fine gli sforzi pagano sempre. Pensando, ad esempio, alla squadra che aveva Biella in LegaDue, visto che dal suo settore giovanile sono usciti tanti giocatori (Raspino, De Vico, Lombardi, etc) che giocano nelle serie più importanti. Sono investimenti, però, che bisogna fare: chiaro, non si può pensare di ottenere tutto e subito. Cosa che, purtroppo, non avviene in Italia, dove si preferisce vincere uno scudetto giovanile piuttosto che lavorare seriamente con i giovani, vincere un po’ di meno, ma creare giocatori da mandare in prima squadra. Mancano le idee anche a livello di campionati. Se un anno la Nazionale va male, allora si pensa che cambiare ogni volta le regole possa essere la soluzione: manca programmazione pluriennale, concreta e seria, anche a livelli dirigenziali”.

Inevitabile finire per discutere anche della famosa diatriba stranieri/italiani.Chi dice che 20-30 anni fa gli italiani forti c’erano e giocavano, in realtà omette di evidenziare come le regole erano diverse. Prima c’erano 2 americani forti per ogni squadra, gli italiani avevano modo di giocare e sbagliare, ma soprattutto di stare in campo. Le regole degli ultimi anni (7 stranieri più un passaportato) hanno portato ad avere praticamente quattro italiani per squadra: due entrano nelle rotazioni e due, di solito, sono giovani che vengono mandati a referto solo per rispettare i regolamenti. Sono favorevole ai cambiamenti: spero nel 6+6, che poi possa trasformarsi in un 7+5. Non è questione di essere pro stranieri o pro italiani e nemmeno di far giocare chi è più forte: siamo nel campionato italiano e quindi non possiamo quantomeno non pensare di modificare il regolamento in modo tale che possa permettere una crescita dei giocatori italiani”.

Uno sport come il basket ti condiziona inevitabilmente la vita, tra trasferte, passaggi da una squadra all’altra, sacrifici e momenti lontani dalla famiglia. Se avessi la possibilità di scegliere, rifaresti tutto?Sì, assolutamente. È la mia passione. Chiaro che sarebbe perfetto poterlo fare sempre nella città dove vivi e hai gli affetti. Nel mio caso è successo e sono grato a chi mi ha voluto e fatto giocare a Sassari. Adesso ho una famiglia bellissima in ogni caso, con una compagna che mi ha dato un figlio dieci mesi fa. Sotto questo aspetto non mi manca davvero nulla”.


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