E’ andata come previsto: la Serbia ci manda a casa dopo aver controllato la gara per tre quarti, e va a giocarsi la semifinale contro la Russia venerdì. 67-83 il punteggio finale, forse un po’ troppo severo, ma specchio dei valori visti in campo.

Gigi Datome (foto Pasquale Cotugno)

La principale differenza tra gli Azzurri di Pianigiani e quelli di Messina si può riassumere così: i primi ci facevano imbestialire per la mancanza di carattere, le occasioni mandate al vento e l’ostentata spocchia; i secondi ci hanno fatto sperare, si sono fatti apprezzare per umiltà e coraggio, e, grazie a un girone non proibitivo, hanno raggiunto l’obiettivo: i quarti di finale. La Serbia di Sasha Djordjevic ci ha rispettato e battuto con non poca fatica, nonostante lo differenza di centimetri e di talento. Queste le cifre chiave: 44-19 a rimbalzo; 29-16 tiri dalla lunetta; 49% dal campo contro il 38% degli Azzurri, che da 3 si fermano a 8/29.

IL RACCONTO

La partita per gli Azzurri comincia all’insegna della frustrazione: quella di non riuscire a costruire tiri perché la Serbia chiude ogni spiraglio; quella di non poter limitare Marjanovic che, anche se non va a canestro, trova sempre il compagno libero sullo scarico mentre lo raddoppiamo; e quella per un primo quarto ben giocato, con buone percentuali, ma perso per manifesta inferiorità agonistica. L’urlo di Bellinelli che va a rimbalzo ma viene sovrastato da Macvan è uno degli emblemi della nostra inerzia sotto le plance. Un altro è l’impaurito tentativo di Filloy di trovare un lob che scavalchi il gigante di 221 centimetri. Giochiamo ad armi impari: fare fallo è l’unico modo per fermarli. Gli arbitri fischiano anche quando il fallo è inesistente, per pregiudizio. E la Serbia dalla lunetta è implacabile: 16/16 nei primi 20 minuti.

“Abbiamo bisogno di una maggiore determinazione, di capacità di soffrire”, dice Messina durante il time-out che segue il primo allungo serbo (25-32,Jovic in contropiede). In quel momento la Serbia non ha ancora segnato una tripla, noi siamo già a 5. Quando si sblocca Macvan dall’arco, è notte fonda. Cusin ha già tre falli dopo 12′, Burns lo sostituisce ed è una piacevole sorpresa perché lotta, è veloce, segna anche da 3 punti. Dopo metà gara siamo sotto di 11 (33-44) nonostante un’ottima difesa e 7 triple. Con il collega a Istanbul proviamo a fare il conto: ce ne vorrebbero 5 a quarto per vincere.

Ogni canestro dell’Italia strappa applausi, tanta è la fatica necessaria per arrivarci. Nel terzo quarto, come nei match precedenti, non troviamo più la mira della distanza, Melli si fa battere regolarmente da Macvan e neppure l’assenza di Kuzmic e Marjanovic ci aiuta a risalire. La Serbia allunga a più 15, poi reagiamo con Biligha e Aradori ma arriva anche la beffa: tecnico a Ettore Messina, che neppure protestava, semplicemente si agitava e richiamava i suoi. Ad ogni tripla sul ferro il nostro morale cala sempre di più, ora il ct ha ragione: non ci crediamo abbastanza, neanche proviamo ad avvicinarci. Non scatta una scintilla, neppure la grinta di Filloy.

La Serbia cambia registro in attacco e nell’ultima frazione Bogdan Bogdanovic taglia la nostra difesa come un burro. Ricuciamo fino a -8 con Datome, ancora una volta il migliore dei nostri, ma gli avversari scappano in contropiede ogni volta che proviamo un passaggio nel perimetro. Il passivo è forse persino ingiusto. Ma questi siamo, questi eravamo e non potevamo fare di più. Una cosa è certa: meglio uscire sconfitti con dignità, dopo aver mostrato impegno, che subire le beffe dei precedenti europei senza mostrare umiltà. Per lo meno, questa Nazionale ha messo i valori del lavoro al centro della ricostruzione della nostra pallacanestro.