Alex Garcia marcato da Samad Nikkhah (foto Ashkan Mehriar 2014)

Alex Garcia marcato da Samad Nikkhah (foto Ashkan Mehriar 2014)

Granada tierra soñada por mí”, cantava Pedro Vargas. Così dicevano anche Egitto e Iran, cenerentole del gruppo A, le quali, dopo tre giornate, si sono confermate tali senza dare molti segnali in senso opposto. Tra le due, la squadra più tenace, completa e organizzata è senza dubbio quella asiatica, che ha però pagato caro l’inizio da incubo contro Spagna, Brasile e Serbia mettendo “in saccoccia” quasi 60 punti di scarto nelle due gare. Ma non c’è solo questo: il leader designato Hamed Haddadi si è dato da fare nel pitturato ed è stato indomabile nel primo tempo contro la Serbia (22 punti con 8/8 da due), ma è risultato a tratti deleterio come dimostrano le 13 palle perse nelle prime due uscite; anche il secondo violino della squadra di Memi Becirovic, l’ala Samad Nikkhah, ha fallito nel tentativo di ergersi a salvatore della patria scordandosi, a tratti, che il talento di Magic Johnson non alberga nei suoi geni.

L’Egitto, invece, non ha di questi problemi, non avendo – neanche teoricamente – alcun giocatore in grado di reggere il confronto, per un’intera partita, contro avversari di caratura internazionale come quelli affrontati in questo avvio di manifestazione. Il fine primario e ultimo di ogni azione egiziana, per non saper né leggere né scrivere, è il tiro da tre, ma tale intento coccia sistematicamente con lo scarso livello fisico e con mani non esattamente “bollenti”. Peccato, perché l’organizzazione tattica  e l’abnegazione degli uomini di Abu Kheir non sono così disprezzabili.

foto Dailybasket.it

L’interno semivuoto del palasport di Granada prima di Francia-Serbia (foto Dailybasket.it)

Anche l’Egitto, a dire il vero, è già passato per le forche caudine della Spagna padrona di casa, che nel bel Palacio Municipal de Deportes, rimesso a nuovo per l’occasione, ha acceso la passione del pubblico locale (a dire il vero un po’ freddino e numericamente modesto nelle altre partite, pur se a compensare ci pensano suoni e rumori sempre al limite della rottura dei timpani dei malcapitati presenti) con tre agevoli vittorie, riuscendo a non andare mai in difficoltà e a ruotare tutti i giocatori (anche quelli in perenne crisi di fiducia come Victor Claver, trattato dal pubblico alla stregua di un ragazzino da sostenere mentre cerca gloria nel garbage time) risparmiando in parte i pezzi da novanta per le partite che richiederanno un maggiore sforzo fisico, tecnico e mentale.

Devin Ratray o Vladimir Stimac?

Devin Ratray o Vladimir Stimac?

Un discorso a parte lo merita la Serbia, che tanto in campo quanto fuori ha fornito vari spunti degni di nota: il primo è di natura tattica, con l’esclusione di Nenad Krsticper scelta tecnica” (Sasha Djoardjevic dixit) e il costante rimescolamento delle carte da parte dell’ex tecnico dell’Olimpia Milano. Dal doppio play al doppio centro (si sono visti insieme anche Stimac e Raduljica), passando per la responsabilizzazione di Nemanja Bjelica e la deresponsabilizzazione di Milos Teodosic, almeno da oneri di regia, rispetto all’era Ivkovic. Non sono mancate anche le note di colore, con l’esposizione in bella vista dello striscione di un’agenzia di viaggi di Kragujevac (c’è chi organizza pellegrinaggi a Medjugorje e chi trasferte ai Mondiali di basket…) e la somiglianza, notata da qualcuno al palasport, tra Vladimir Stimac e Devin Ratray, conosciuto in Italia quasi esclusivamente come “Buzz”, perfido cugino di Kevin McCallister in “Mamma ho perso l’aereo”. Nello spogliatoio serbo, tuttavia, non sembra regnare la serenità, e l’impressione è che il KO-beffa contro la Francia, che ha avuto evidenti ripercussioni nel difficoltoso primo tempo della sfida contro l’Iran, possa aver definitivamente rotto qualcosa che per coach Djordjevic non sarà facile ricomporre.

Certo, ad eccezione di Francia-Serbia (decisa dal discusso tiro libero di Joffrey Lauvergne concesso a fil di sirena da Guerrino Cerebuch, che potrebbe andare incontro ad una sospensione per questo motivo), la pathos è rimasta finora ben lontana da Granada, mentre in altri gironi si assisteva a finali mozzafiato, tempi supplementari e, in alcuni casi, persino botte da orbi (Carlitos Arroyo in ospedale per accertamenti a un piede e Dario Saric privato di sei denti da una “carezza” di Andrés Nocioni). E anche nella sfida tra “galletti” e balcanici, se fosse stato per il leader designato Nicolas Batum, l’equilibrio sarebbe rimasto anch’esso confinato in un angolo del parquet mentre gli altri decidevano la contesa. Com’è ormai per lui quasi consuetudine, infatti, nel finale il giocatore dei Trail Blazers è rimasto ben “nascosto” lasciando che fossero i compagni, da Lauvergne a Boris Diaw (nonostante i soliti chiletti di troppo sottolineati anche da Mario Boni in telecronaca su Sportitalia) arrivando fino a Charles Kahudi, a rendersi protagonisti delle giocate più pesanti.

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Un Raduljica tra il perplesso e l’annoiato in mixed-zone (foto Dailybasket.it)

Gran parte delle speranze erano riposte nel Brasile, una delle poche squadre abbastanza profonde e fisiche da pensare di poter impensierire Spagna e USA, impressioni confermate dalle prime due partite ma fragorosamente smentite nella terza, in cui i verdeoro sono stati surclassati dalle Furie Rosse anche e soprattutto sotto l’aspetto dell’intensità. La buona intesa tra i play e i lunghi (in particolare la “connessione” Huertas-Nene) e le occasionali ma efficaci sortite di Barbosa, Garcia, Marquinhos e soci sono le note positive a cui rimangono appese le speranze brasiliane. E, più in generale, le speranze degli appassionati neutrali di assistere ad un Mondiale non del tutto scontato.