Dal nostro inviato Alessandro Durì

CANTON – Il suo cognome, in Italia, è associato principalmente al cantante de “I bambini fanno oh”, ma il Povia del basket, Paolo, le esclamazioni di meraviglia le ha suscitate ad Abidjan, portando la nazionale della Costa d’Avorio a un’insperata partecipazione al Worldbasket 2019. La genesi di questa pazza avventura Povia l’ha già raccontata in varie occasioni. Noi l’abbiamo raggiunto a Canton, prima del “derby” contro la Nigeria, per farci raccontare il suo Mondiale e le sue prospettive umane e professionali.

Coach, come procede quest’esperienza mondiale, dopo le incredibili partite di qualificazione che hanno portato la Costa d’Avorio fino a Pechino?

Un’esperienza un po’ surreale. Ho avuto dei mesi per rendermene conto, ma ancora fatico a capacitarmene. Sono concentrato sul lavoro quotidiano per preparare le partite al meglio, quasi mi dimentico di essere al Mondiale. Quando poi torno all’hotel e vedo le immagini in televisione, mi dico: “Caspita, io sto partecipando alla stessa competizione”. La prima realizzazione è forse arrivata solo alla prima palla a due in Cina.

Un bilancio della prima fase?

Mi piacerebbe continuare il romanzo di questa grande avventura mettendoci in tasca una vittoria al Mondiale. Ci è sfuggita nel primo girone. Ora sotto con la Nigeria, quasi un derby per noi, anche se loro sulla carta sono più forti delle tre squadre che abbiamo incontrato nel girone eliminatorio (e infatti purtroppo è arrivata una sconfitta, pur se onorevole, ndr).

L’emozione più forte durante le prime tre gare?

Ci sono due momenti di grande emozione: l’attesa nel tunnel, dove devi attendere un paio di minuti prima di entrare in campo. Intravedi il palazzo, stracolmo come contro la Cina. E lì il cuore inizia a batterti forte – finalmente ci siamo! E il secondo è quando entri in campo e durante l’inno vedi la cinquantina di tifosi ivoriani (fra i quali mia moglie) vestiti tutti in arancione a sostenere la squadra. Lì ti rendi conto di cosa hai fatto per un Paese.

Paolo Povia (foto FIBA)

Parliamo della Costa d’Avorio. C’è interesse per il basket?

La pallacanestro è uno sport con un buon seguito, non tanto quanto il calcio, ma è comunque seguito da numerosi appassionati. Risultati importanti come la qualificazione ad un Mondiale fanno accendere i riflettori sulla squadra.

Hai detto che fare scouting è la parte più interessante del tuo lavoro. Raccontaci qualche storia di scounting che riguarda la tua squadra.

Già da prima della chiamata della Costa d’Avorio seguivo lo sviluppo del basket in Africa. Nel momento della scelta di allenare la Nazionale, sapevo già che gran parte dei giocatori sarebbero stati pescati fuori dal Paese. Però l’obiettivo è quello di scovare giovani talenti prima ancora che lascino la loro terra, aiutarli ad emergere nel giusto contesto e continuare a seguirli nelle squadre nazionali. Sono riuscito a portare qui al mondiale un ragazzo di 20 anni, Abraham Sie, il nostro terzo playmaker, prodotto dei vivai ivoriani che gioca ancora nel campionato locale. Per lui questa è una grande esperienza e spero di riuscire a farlo esordire da qui alla fine della competizione (ha esordito proprio come la Nigeria, ndr).

Di certo non è stata una scelta lineare quella di prendere in mano il progetto Costa d’Avorio. Quali sono le tue prospettive e i sogni futuri?

Ovviamente questa suona come un’esperienza che racconterai ai tuoi figli e nipoti, però ora mi rendo conto che ho raggiunto i Mondiali a 40 anni, facendo una carriera “alternativa” ma che mi ha portato fino alla Cina nel 2019. Vorrei quindi usare l’esperienza che sto accumulando in contesti meno “tradizionali” per continuare a sviluppare il mio percorso di allenatore. Non è solo un’esperienza “folkloristica”, ma un risultato tangibile frutto dei 15 anni di lavoro e sacrifici che mi hanno portato a raggiungere, anche se in maniera meno convenzionale, l’apice sportivo.

La speranza a questo punto è di capitalizzare questo tipo di esperienza internazionale e continuare su questo filone anche in futuro, in Italia ma anche con altri progetti di squadre nazionali in paesi emergenti. In fin dei conti ho una grande esperienza con i giovani e in contesti meno “convenzionali” e le capacità di adattamento e di gestione degli imprevisti stanno diventando parte del mio bagaglio. Dopo diversi mesi dall’inizio di questa esperienza, mi sento ora vaccinato contro gli imprevisti e ho imparato a gestirli estraendo il massimo da ogni situazione. Ad esempio la gestione di uno staff locale che va seguito passo passo e supportato nella quotidianità in modo da assicurarsi che la preparazione si svolga effettivamente come da programma.

Della Costa D’Avorio come Paese cosa ci può raccontare?

Innanzitutto è una delle migliori cucine d’Africa e i piatti tipici si fanno apprezzare. Non è un Paese a forte trazione turistica, per cui l’accoglienza iniziale può sembrare un po’ fredda ma poi, vinta la barriera culturale e dimostrando interesse per gli usi e costume locali, la gente si apre e ti aiuta a scoprire la loro nazione. “Ça va aller” (andrà tutto bene) e “normalement” sono le espressioni tipiche, che un ivoriano ripete con un misto di ottimismo e fatalismo. Le ho bandite in spogliatoio – per togliere di mezzo gli imprevisti che possono sempre capitare e focalizzarci sugli obiettivi senza lasciare nulla al caso.

L’impatto con la Cina?

Ho visitato il Paese già nel 2008 durante i Giochi Olimpici, per me è la seconda volta. Ai tempi avevo vissuto la gran festa per i giochi senza visitare la vera Cina e anche stavolta non ho avuto troppo tempo per esplorare i dintorni. Spero di avere un po’ di tempo al termine della competizione in modo da farmi un po’ più l’idea di come è cambiato il Paese.

Avevi mai pensato all’Africa come sviluppo per la tua carriera? O è stato casuale?

Seguivo il basket africano fin da prima della chiamata di un mio vecchio giocatore Ismael N’Diaye. Ero interessato al potenziale del loro basket. Era una delle mie ambizioni e così una serie di giuste coincidenze e il giusto timing mi hanno portato ad intraprendere quest’avventura. 

Come hai visto l’Italia dell’omologo Meo Sacchetti?

Ho visto degli spezzoni di partita del primo girone e ho visto i notevoli progressi che il gruppo ha fatto da quando li ho incontrati ad agosto. La squadra sta sopperendo alle proprie lacune strutturali con grinta e coesione.

Prospettive in un futuro prossimo?

Per quanto fare piani a lungo termine non sia mai scontato in questo tipo di contesti, l’idea è quella di provare a classificarci fra le prime tre squadre africane per partecipare al preolimpico nel 2020. Una volta terminato questo ciclo, nel 2021 ci sono i campionati d’Africa.

E quali prospettive, dopo l’esperienza ivoriana, per la carriera di coach Povia? Come direbbero i suoi giocatori, “ça va aller”.