beltramaVago e inutile tentativo di riordinare le idee, a sole ventiquattr’ore dalla fine di una serie che non ci dimenticheremo. Una serie durante la quale abbiamo guardato, scritto, sofferto, criticato. A volte pure tifato, e neppure con discrezione. A mente fredda, ecco alcuni pensieri sparsi, nel tentativo di catturare su carta le impressioni dal vivo, prima che si ricoprano di ruggine.

1)      TIFO – Tifare, appunto. Secondo la mai superata scuola di pensiero di Roberto Gotta, non abbiamo mai ritenuto nessuno speciale per il solo fatto di essere italiano. Come se un passaporto, di qualunque colore, fosse davvero un motivo di merito, e non una scartoffia diplomatica riempita di marche da bollo (in Italia, e basta). Eppure abbiamo anche una memoria, degli istinti, dei condizionamenti. E se ci siamo ritrovati a seguire 40 e più partite dal vivo, sempre nello stesso posticino in tribuna stampa, era perchè là, tre anelli sotto di noi, stava pure il nostro valore notizia vivente: Marco Belinelli. Ovvero, il motivo, primo e forse ultimo, per cui ci trovavamo lì per tutte quelle ore. Abbiamo visto la sua espressione quando in preseason giocava poco. Abbiamo sentito il suo dolore – sportivo, eh – quando è rimasto tutta una partita a sedere, il 26 novembre contro i Milwaukee Bucks. E ci siamo goduti, empaticamente, il suo “ci voleva!” quando, due giorni dopo, contro Dallas, è ritornato nella rotazione, segnando 13 punti e spingendo i Bulls alla vittoria. Un rollercoaster lo chiamano qui, le montagne russe. Giù e sù el giro di poche ore, con la voglia di dimostrare qualcosa a fare da collante tra i motivi belli e quelli brutti. Un piccolo rollercoaster  sono stati anche questi suoi playoff. Malino, benino, malino, non pervenuto, fino all’esplosione finale. 46 punti nelle ultime due partite, di cui 24 nella settima. In cui si è visto cosa davvero lo renda speciale, almeno per noi abituati a parlare bene di pane e cipolle: la capacità di non perdere fiducia nei propri mezzi. Anche quando la tentazione di farsi da parte  e lasciare che facciano gli altri sarebbe forte, e pure giustificata. Per questo, più che per lo sterile record del primo italiano a blah blah blah, buono più per titoli generalisti che per pensieri di sostanza, ci ha fatto piacere assistere a questo epilogo.

2)      BRAVO – Essere obiettivi, del resto, non è essere ipercritici a priori. Se qualcuno gioca bene, e Marco l’ha fatto, è sacrosanto sottolinearlo. Già, perchè al di là dei numeri, gara 6 e gara 7 hanno davvero mostrato il risultato di una crescita tecnica partita da lontano, e giunta a risultati importanti. Belinelli ha segnato un canestro importante nel quarto periodo con una plastica penetrazione con mano sinistra. Non un caso: anche i primi due di gara 6 erano stati così. Come innumerevoli altri in stagione. Ha smazzato assist pregevoli gestendo il pick and roll. Ha tirato fuori un grande back door. Ha chiuso un contropiede assorbendo il contatto. E via andare, la lista può continuare. In sostanza, se ai tempi di Bologna (ma anche alla vigilia del training camp di quest’anno…) l’adagio popolare era “ah, ma non puoi costruire una carriera a tirare cadendo all’indietro a 8 metri dal canestro”, quest’idea è stata in larga parte spazzata via. Intendiamoci: l’istinto naturale sarà sempre e comunque quello di tirare, in qualunque punto del campo. Ma a quello Beli ha saputo costruire attorno un gioco offensivo diversificato e credibile, che lo rende pericoloso su più fronti, e che ora fa sembrare stretta l’etichetta di “specialista”.  Annunciazione annunciazione, tutto è stato sviluppato nella NBA, la lega dove non insegnerebbero nulla, tutti si imbolsiscono, e tutti disimparano le partenze incrociate. O forse dipende dalle situazioni, dagli allenatori, dai contesti, e soprattutto dai giocatori?

act_marco_belinelli3)      COACHING – Di Tom Thibodeau si può dire tutto. Che sia un invasato, un integralista, un fanatico. Insomma, la versione cestistica del nerd, alienato e sociopatico. Certo, non si può dire che non sappia fare il suo lavoro. Gara 7 è stata un capolavoro tattico e motivazionale. D’accordo, come qualcuno ha notato, i Nets erano talmente piatti che “giocavano altri 48’ e i Bulls la rivincevano”. Eppure i Bulls hanno fatto vedere di avere qualcosa di speciale, dentro di loro, e sulla loro panchina. Da un lato, è relativamente facile giocare bene quando si hanno molte assenze e quelli che stanno in campo non hanno nulla da perdere. Dall’altro, è difficilissimo giocare così bene da vincere lo stesso, per giunta in scioltezza. La vittoria di Thibodeau è la vittoria del rifiuto categorico di cedere agli alibi. “We have everything to win” è stata la sua frase di battaglia, in ogni situazione, con qualunque assenza. E alla fine così è stato. Così come alla fine, se i Bulls non hanno mai perso più di tre partite di fila in regular season (e raramente più di due), un motivo deve esserci.

4)      MINUTAGGI – Detto questo, e proprio perchè ci piace essere  obiettivi, va anche sottolineato come la rotazione delle risorse a disposizione sia a volte un problema per l’ex assistente di Doc Rivers. Che tradizionalmente ha sempre fatto meglio quando ha avuto uomini contati, piuttosto che la truppa al completo. Un esempio? Il folle minutaggio a Kirk Hinrich in gara 4, che di fatto stava per costare la serie. Un giocatore che ha avuto 10 infortuni diversi in regular season non può stare in campo così a lungo, per giunta prendendosi cura di Deron Williams. In quella partita Thibs si rifiutò, quasi categoricamente, di usare la panchina. Dimenticanza o testardaggine, avrebbe potuto costare carissima. Se non fosse che il coach è stato così bravo da rimediare al suo stesso errore, tirando fuori il meglio da tutti in gara 7.

5)      DEJA VU – Gara 4 è stata la perla della serie, almeno a livello emotivo. La prima cosa che ci veniva in mente, mentre i minuti sul tabellone, invece che diminuire, continuavano a crescere: questa roba l’abbiamo già vista. Quando? Chiaramente nel maggio 2009, quando eravamo imberbi studenti di scambio all’Università di Chicago, e altrettanto imberbi collaboratori/corrispondenti di American Superbasket. Allo United Center c’era Bulls vs Celtics, prima serie di playoff della nostra vita. Si arrivò a gara6 con 4 supplementari complessivi nelle precedenti cinque partite, Boston avanti 3-2. Gara 6 doveva essere quella della resa oer i Tori, e così sembrò fino a 3’ dalla fine. Poi, salì in cattedra lo zio Brad Miller: 5 punti in fila per rimandare tutto al supplementare. Si continuò a rimandare, di supplementare in supplementare, fino a che Joakim Noah decise che era tempo di andare a casa: rubata su Pierce e troneggiante schiacciata con fallo dalla parte opposta, a suggellare una delle partite più intense degli ultimi anni. Quel gesto segnò la definitiva conciliazione tra il francese e il pubblico dello United Center, che fino a pochi mesi prima lo fischiava sonoramente. Ora le cose sono leggermente cambiate.

@andreabeltrama  Twitter

http://ilsalmoneeilgrattacielo.wordpress.com/ Blog