Il trifoglio, simbolo dell’Irlanda e dei Boston Celtics

Fare in modo che letteratura e Basket NBA s’incontrino è possibile. Lo abbiamo scoperto ieri sera, al Bistrot del Tempo Ritrovato a Milano, dove il Professor Enrico Reggiani, docente di Letteratura Inglese all’Università Cattolica, e Mauro Bevacqua, direttore di Rivista Ufficiale NBA, hanno dialogato di fronte ad appassionati di Basket e di cultura irlandese.

La cultura irlandese ha fortemente influenzato la città di Boston. I primi immigrati irlandesi però non si fermarono sulle sponde dell’attuale Massachussettes. Gli scotch-irish, venuti dall’Irlanda in un tempo più lontano rispetto all’immigrazione figlia della Grande Carestia, si addentrarono nel continente americano fino alla catena dei monti Appalachi. Principalmente protestanti e di origine molto più nobile rispetto ai working class men della seconda ondata di immigrati, si guardano bene dal mischiarsi con i poveracci che si fermeranno a Boston. La città di Boston sarà costruita dagli immigrati della seconda ondata che, dal settecento, arriveranno in America.

Non parliamo di mattoni. Gli irlandesi arrivati a Boston hanno edificato dalla base la mentalità di una città di fighters che fanno del pride, di chiara origine irlandese, il tratto principale di una città. E voi a questo punto direte: Cosa c’entra tutto questo con una squadra NBA? E’ mai possibile che sia proprio la città a creare la mentalità con cui pensare e costruire una franchigia? Si, è proprio così. I Boston Celtics sono, e sono sempre stati, esattamente lo specchio di una mentalità che viene proprio da quei coloni irlandesi che hanno sempre mantenuto caratteristiche peculiari ben distinte dal resto della popolazione americana, da dovunque essa provenisse. E’ il pride ad aver creato i Boston Celtics.

E’ qui che Mauro Bevacqua ci aiuta a rintracciare questa tesi nella storia del parquet incrociato del Boston Garden prima, e del TD Garden adesso. Se andiamo indietro negli anni, ai tempi di Bob Cousy e Bill Russell, possiamo vedere in questi campioni, e nelle squadre della “dinastia Celtics”, una grandissima voglia di lottare. Una voglia di mostrare sul campo che il valore della lotta e il pride sono ciò che ha permesso di vincere 13 titoli in 11 anni. Dare il 110 % sul campo. Andando avanti nel tempo e arrivando agli anni 80, epoca di Larry Bird, Kevin McHale e Robert Parish, ritroviamo esattamente la stessa mentalità. Larry Bird è probabilmente il fighter più grande della storia dell’NBA. Leader della squadra sul campo, spronava i suoi compagni a dare il massimo in qualsiasi condizione fisica si trovasse (negli ultimi anni della sua carriera, la schiena non gli consentiva neanche di camminare senza provare dolore. Lui scendeva in campo comunque ndr).

La squadra dei Big Three originali aveva una nemesi nota a tutti: i Los Angeles Lakers. I Lakers rappresentavano l’esatto contrario di quello che i Celtics erano agli occhi della gente. Lo Showtime era l’antitesi del pride bostoniano dei fighters. E’ proprio in questo periodo che si inizia a scrivere prosa e poesia sui Boston Celtics. Le imprese di Bird, McHale e Parish diventano motivo per scrivere nuove rime e canzoni sugli eredi di quei fighters che arrivarono dall’Irlanda per scappare dalla fame. Non è importante che nessuno di quei giocatori fosse di Boston o addirittura afroamericano. Nel momento in cui entravano in campo con il trifoglio sul petto diventavano a tutti gli effetti cittadini della Beantown. Esattamente quello che è successo a Kevin Garnett. Pur giocando per 10 anni in un’altra franchigia (Minnesota Timberwolves ndr), Garnett è da subito diventato l’idolo di Boston. Certo, voi direte, ha vinto il titolo l’anno in cui è arrivato. C’è molto di più. L’intensità che Garnett mette sul campo da gioco, così come la determinazione di Paul Pierce e l’attitudine al lavoro di Ray Allen, è esattamente quello che i tifosi dei Celtics si aspettano da un Celtic. Un Celtic deve essere un fighter, come quei coraggiosi che attravarsarono l’oceano per cercare un futuro.


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