American Basketball Association Logo

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In questi anni Dailybasket si è imposta gradualmente nel mondo dell’informazione sportiva come testata giornalistica di approfondimento a 360° della pallacanestro globale. Fedeli a queste direttive, nelle settimane e mesi che verranno ci occuperemo di una realtà scomparsa da oltre 30 anni dai radar dello sport, la American Basketball Association, nota anche come ABA, un mondo che a molti potrebbe apparire di nicchia, ma che a tutti gli effetti ha influenzato – in maniera più e meno diretta – la storia di quella NBA che oggi è guardata con ammirazione dagli appassionati di tutto il mondo. Un excursus che in vari episodi tratterà in dettaglio il percorso di ognuna delle franchigie che hanno affrontato questa rischiosa avventura, ponendo particolare attenzione a giocatori e curiosità che rendono tuttora vivo e attuale questo mondo.

Oakland Coliseum, 13 ottobre 1967, davanti a 4.828 spettatori incuriositi gli Oakland Oaks si impongono sugli Anaheim Amigos per 134-129. Una data e una partita che significano poco ai più, ma che segnano ufficialmente l’inizio di una nuova avventura, quella della ABA, acronimo di American Basketball Association, nulla a che vedere con la lega semiprofessionistica fondata 30 anni più tardi e ancora esistente nei meandri dello sport americano. Siamo negli anni ’60, la National Basketball Association era composta da sole 10 franchigie ed era molto lenta e titubante riguardo eventuali espansioni, comportando anche costi di gestione di un team molto elevati. Fu così che molti uomini di affari decisero di lanciare il guanto di sfida alla NBA creando una nuova lega e puntando a nuovi mercati fino ad allora poco considerati, come ad esempio le zone del Southeast in cui la passione per la pallacanestro era parte integrante del tessuto quotidiano, vedi le grandi sedi universitarie come UNC, Kentucky, Duke e Virginia. Ovviamente questi investitori guardavano con occhio interessato alle decisioni prese da Walter Kennedy, l’allora commissioner NBA, non escludendo a priori eventuali accordi per un possibile accorpamento, come era successo nel 1966 anche alla American Football League e alla NFL (anche se la fusione vera e propria si consumò nel 1970).

 

Il primo commissioner eletto fu George Mikan (nella foto sopra, al centro), uomo di esperienza sui campi da pallacanestro visti i 5 titoli vinti con i Minneapolis Lakers, scelto per dare maggiore credibilità a questa avventura professionistica, e la lega venne inizialmente divisa in due division con ben 11 squadre partecipanti: nella Eastern Division i Pittsburgh Pipers, i Minnesota Muskies, gli Indiana Pacers, i Kentucky Colonels e i New Jersey Americans, mentre nella Western Division i New Orleans Buccaneers, i Dallas Chaparrals, i Denver Rockets, gli Houston Mavericks, gli Anaheim Amigos e gli Oakland Oaks.
Sin dal primo anno la rivalità tra le due leghe fu molto sentita, la ABA aveva sì tra le sue fila tanti giocatori provenienti da team semiprofessionistici, ma non si fece alcuno scrupolo a scippare a suon di dollari talenti affermati come Rick Barry, miglior marcatore della regular season 1966/67 in maglia Warriors con oltre 35.6 punti a partita, Zelmo Beaty, macchina da 20 punti e 10 rimbalzi agli Hawks e Billy Cunningham, realizzatore sublime sempre in doppia doppia e campione NBA con i 76ers, o a firmare molti giocatori dal passato burrascoso, come ad esempio Connie Hawkins, Doug Moe, Roger Brown, tutti coinvolti in scandali collegiali e inseriti in una lista nera da Walter Kennedy. Ma quello che portò ad una rottura totale con la principale lega professionistica di pallacanestro avvenne nel 1969, quando le varie franchigie in barba alle norme sportive del periodo, iniziarono a firmare anche ragazzi che non avevano ancora terminato il loro percorso collegiale, i cosiddetti “underclassman”. Una svolta epocale iniziata dai Denver Rockets che presero Spencer Haywood, sophomore dell’University of Detroit passato successivamente anche a Venezia ad inizio anni ’80, e nonostante le barricate alzate da NCAA e NBA, la causa in tribunale verrà vinta proprio dai Rockets con Haywood che divenne il primo di una lunga lista di giocatori scelti anni prima della laurea, come i junior Julius Erving e George McGinnis, il sophomore George Gervin, fino al caso di Moses Malone addirittura preso dagli Utah Stars non appena finita la high school.

Il pallone ufficiale della American Basketball Association

Il pallone ufficiale della American Basketball Association

Con queste scelte il talento medio aumentò vertiginosamente e la ABA entrò rapidamente nel cuore degli appassionati anche grazie ad uno spettacolo sempre più appetibile per tutto il pubblico sugli spalti, a partire dai più piccoli, estasiati in primo luogo da una palla dai colori vistosi, rossa, bianca e blu, una idea del commissioner Mikan che voleva imporre un simbolo, un marchio di fabbrica decisamente patriottico che facesse riconoscere la lega ad ogni latitudine del globo. Migliaia di bambini in festa facevano la fila nelle “ABA ball night” per accaparrarsi la palla variopinta e parallelamente per stimolare l’interesse del pubblico più adulto, furono introdotte anche le cheerleader in bikini: tra le più famose le Miami Floridians Ballgirls, conosciute addirittura più dei Floridian stessi, che con succinti abiti rapivano l’attenzione e cercavano in ogni modo di coinvolgere le persone. Nel complesso la ABA era a tutti gli effetti una lega anticonformista, le franchigie erano gestite in un modo alquanto pressapochista, tra pagamenti dilazionati futuri, cessioni di quote societarie ai giocatori in mancanza di liquidità, investimenti senza sicurezza alle spalle, ma anticonformista anche per quello che si vedeva in campo: pettinature stravaganti tra cui dominavano gli Afro, bizzarri soprannomi, pratica utilizzata anche per alcuni coach, su tutti il compianto James “Old Magnolia Mouth” McCarthy, eletto due volte coach dell’anno e Bobby “Slick” Leonard l’allenatore più vincente della storia della ABA.
Oltre a questi aspetti coloriti ciò che colpiva maggiormente era il gioco espresso sul campo, ricordava a tutti gli effetti la pallacanestro di strada dei vari playground americani con risse e trash talking, in cui gli attacchi erano incentrati sullo spettacolo, sui ritmi elevati (nonostante il cronometro per ogni azione fosse posto con limite a 30″), sull’aprire il campo, in cui si faceva pressing difensivo a tutto campo, in contrasto netto con la NBA, ben più focalizzata su ritmi blandi e attacchi più statici. Sulle differenze del gioco influiva una regola, introdotta sin dalla prima stagione da Mikan, ossia la linea del tiro da 3 punti, presa in prestito dalla American Basketball League, attiva dal 1961 al 1963, che comportava aree meno intasate per non incorrere nel solito dominio dei lunghi come capitava in NBA (che introdusse il perimetro esterno solo nel 1979-80). Mikan era convinto che “Il tiro da 3 punti potrà dare la possibilità anche al giocatore più basso e meno fisico di segnare e di aprire le difese per rendere le partite più divertenti per i tifosi”, e fu proprio quello che accadde, con giocatori minuti come Larry Brown e Mack Calvin ben più coinvolti sui due lati del campo. Come sottolineato anche da Hubie Brown, coach dei Kentucky Colonels ed in seguito anche di Atlanta Hawks, New York Knicks e Memphis Grizzlies, “la ABA era davanti sotto tanti punti di vista, non solo per il tiro da 3 punti che allora la NBA definiva come trucco per attirare l’attenzione e invece ora è una delle parti più importanti del gioco professionistico”. Dello stesso parere anche Julius Erving: “Per me la NBA è diventata una versione più grande della ABA. Ora si gioca lo stile di gioco che noi utilizzavamo ai tempi. Vendono le proprie stelle come facevamo noi, con l’unica differenza che loro hanno molte più risorse e possono fare il tutto in scala più grande”.

Il logo dei Virginia Squires dal 1970, in cui compare l'immagine dello stato della Virginia, quando divennero una franchigia regional

Il logo dei Virginia Squires dal 1970, in cui compare l’immagine dello stato della Virginia, quando divennero una franchigia regional

Un altro pregio della ABA era quello di attirare il pubblico non solo della città ma di tutte le zone circostanti anche grazie a franchigie definite “regional” come i Carolina Cougars o i Virginia Squires che giocavano le partite in casa in differenti città della zona (Carolina si divideva tra le arene in Greensboro, Raleigh e Charlotte, mentre Virginia tra Norfolk, Roanoke e Richmond), espedienti adottati anche dai Floridians che occasionalmente lasciavano Miami per partite a Tampa e Jacksonville, oppure dai Kentucky Colonels che spesso giocavano a Cincinnati, non solo a Louisville. Il tutto creato ad arte per attirare sempre più spettatori, per avere seguito e conseguentemente entrate, perché i problemi principali riguardavano ovviamente il lato economico, in quanto non c’erano contratti con le TV nazionali anzi spesso mancavano anche quelli con le locali e alcuni team avevano difficoltà a vendere un buon quantitativo di biglietti, come accadde ad esempio nei primi anni a Houston in cui alle partite interne dei Mavericks si faceva fatica ad arrivare a 200 spettatori.