Igor Kokoškov, coach serbo della Georgia (foto: telegraph.rs).

Igor Kokoškov, coach serbo della Georgia (foto: telegraph.rs).

Igor Kokoskov è un vice allenatore NBA da oltre 10 anni. E’ stato il più giovane allenatore professionista della storia del basket serbo e il primo allenatore non americano ad allenare in Division One nella NCAA e nella NBA. E’ capo allenatore della nazionale georgiana dal 2008 con la quale si sta preparando in vista degli europei di settembre in attesa di andare a Cleveland dove sarà assistente di Mike Brown sulla panchina dei Cavaliers. Abbiamo fatto due chiacchere con lui. Un’occasione per guardare più da vicino la carriera di un personaggio destinato a fare strada in NBA.

Coach, vorrei partire dall’inizio della sua carriera. All’inizio degli anni novanta lei era una giovane promessa del basket jugoslavo, poi il grave incidente che ha messo fine alla sua carriera di giocatore ma che ha dato il via alla sua strada sulle panchine del grande basket. Ci racconti qualcosa di quegli anni.

Quando avevo 19 anni ho avuto un terribile incidente stradale che ha messo fine alla mia carriera di giocatore. La pallacanestro per me era tutto e avevo la fortuna di essere cresciuto nell’ambiente del basket jugoslavo che era, ed è ancora, una delle migliori scuole al mondo di pallacanestro. Mentre facevo riabilitazione dopo l’incidente, ogni giorno mi rendevo conto che non avrei più potuto giocare ad alti livelli ma la mia passione per la pallacanestro mi ha impedito di lasciare l’ambiente cestistico. A quel tempo studiavo scienze motorie all’Università di Belgrado e non appena la riabilitazione me lo ha permesso ho iniziato ad allenare nelle scuole di pallacanestro e a livello giovanile. Mi sono sempre visto come un allenatore. Allenare era la mia passione e il mio obiettivo. Avevo solo 24 anni quando ho iniziato ad allenare i professionisti (il più giovane capo allenatore della storia del basket serbo ndr). Il 1996 è stato un anno fondamentale per la mia carriera. A quel tempo ero allenatore del BC Belgrad e della Nazionale Giovanile Jugoslava, la federazione serba decise di mandarmi negli Stati Uniti come osservatore alla University of Connecticut, dove Coach Calhoun era capo allenatore. Passai un paio di mesi a UConn dove migliorai la mia conoscenza del gioco e iniziai a conoscere il basket americano. Ho trascorso i mesi successivi a DePaul University, NorthWestern University per poi arrivare a Chicago dove fui invitato come osservatore per i Chicago Bulls. Fu un periodo fantastico perché mi permise di avere i miei primi contatti con il basket NBA. Io non avevo mai pensato alla NBA. Ero concentrato sul College Basketball perché lo sentivo più vicino alla mia cultura cestistica europea: il movimento di palla, il regolamento, mi sentivo pronto per l’NCAA. Quello fu il mio primo viaggio nel basket americano. Mi resi conto che gli allenatori americani erano aperti al contatto con gli allenatori europei e all’internazionalizzazione del basket.

Crede che questa caratteristica sia cresciuta negli anni?

Assolutamente si. Basti pensare che fino a vent’anni fa solo le migliori tra le superstar europee potevano pensare di trovare un posto in NBA: Oleksander Volkov, Vlade Divac, Drazen Petrovic, Toni Kukoc, Predrag Stojakovic. Per quei ragazzi, che avevano vinto tutto a livello FIBA, andare in NBA era solo un’altra sfida. Quei ragazzi erano delle superstar. Adesso è cambiato tutto: non hai bisogno di essere nel giro della Nazionale per sperare di andare in NBA, non hai bisogno di vincere l’Eurolega o il campionato nazionale per avere una chance oltreoceano, oggi basta fare bene a livello junior per avere la possibilità di essere chiamati al draft.

Bisogna dire anche che essere un role player con delle skills ben definite è una delle chiavi per diventare un giocatore NBA.

Esattamente! Dico sempre che la NBA è una lega fatta di estremizzazioni. Qualsiasi tipo di estremizzazione tu sia in grado di portare nella lega questa sarà ben accetta: tiro da tre, rimbalzi, stoppate. Si cercano giocatori che sappiano fare molto bene una, massimo due cose. Per fare un esempio potremmo parlare degli specialisti difensivi. Negli ultimi anni i nostri scout hanno trovato alcuni ragazzi africani bravissimi nel lato difensivo. Anche se non hanno particolari capacità offensive, una chiamata al secondo giro è perfetta per un giocatore che sa solo difendere. Nei successivi due anni, noi cerchiamo di sviluppare il loro gioco. Ecco questo è il classico esempio di estremizzazione di cui parlavo.

Coach K.

Coach K.

Torniamo agli inizi della sua carriera. Quando ha capito che poteva esserci un posto per lei nel basket a stelle e strisce?

Dopo il mio primo viaggio negli States per conto della federazione serba, ho mantenuto i contatti e ben presto ho avuto la possibilità di passare due mesi a Duke con Coach K. Krzyzewski è un allenatore fantastico. Dopo solo qualche giorno, mi sentivo parte del coaching staff. Coach K è un grande conoscitore del basket FIBA. Ha allenato la nazionale americana quando Team USA giocava con i giocatori di College ed era abituato a incontrare la squadre europee. Tutte le volte che giocavamo contro di loro, la nostra nazionale vinceva sempre. Coach K sapeva da dove venivo e aveva molto rispetto per me. I due mesi a Duke sono stati molto importanti anche perché era il 1999, l’anno del lockout, quindi moltissimi giocatori NBA venivano al Cameron Indoor Stadium ad allenarsi con i Blue Devils. Durante quell’esperienza ho conosciuto Quinn Snyder che era vice allenatore a Duke. Abbiamo passato molto tempo insieme e siamo diventati grandi amici. Alla fine del 1999 sono tornato in Serbia per allenare la nazionale giovanile. Dopo alcuni giorni Quinn Snyder mi ha chiamato per offrirmi un lavoro: lui era appena diventato capo allenatore a Missouri e mi voleva come suo assistente. Io avevo 26 anni: non ci ho pensato un attimo, ho fatto le valige e sono tornato negli States. Non sapevo neanche di essere diventato il primo non americano a diventare allenatore in Division One. E’ stata una stagione fantastica. Non avevamo molto talento in squadra e avevamo una schedule durissima. Durante quella stagione ho incontrato John Hammond, che era anche lui assistente a Missouri. Hammond era tornato in NCAA dopo tanti anni da assistente in NBA. A fine stagione Alvin Gentry gli offrì il posto di vice allenatore ai Clippers. L.A. voleva ripartire da zero. Una squadra giovanissima, Lamar Odom, Marcus Camby, e nuovi nomi sulla panchina. Mi offrirono il posto di assistente e così diventai il primo allenatore non americano nella storia della NBA.

Dopo la prima esperienza NBA ai Clippers, arrivò la chiamata di Larry Brown ai Detroit Pistons. Ci dica di più.

Larry Brown

Larry Brown

I tre anni ai Clippers furono molto interessanti. Eravamo una squadra giovane e il nostro obiettivo principale era quello di crescere e migliorare. Vivere a Los Angeles è stato divertente e mi sentivo a casa. Alla fine della stagione 2002-2003 è arrivata la chiamata di Larry Brown che mi voleva nel suo staff. Passare dalle spiagge di L.A. alle fabbriche della Motown non è stato facile ma ai Pistons avevano una squadra da titolo. Il cambio di prospettiva da una squadra giovane a una di veterani con una mentalità vincente fu un’esperienza fantastica. Vincere il titolo al primo anno con i Pistons, contro i Lakers di Phil Jackson, è uno dei ricordi che mi accompagnerà per sempre. I cinque anni ai Pistons restano il periodo più bello della mia carriera. Ogni anno il nostro obiettivo era raggiungere i playoffs e cercare di vincere il titolo. Detroit è casa mia.

Chi conosce l’NBA sa che lei è un grande allenatore d’attacco e spesso viene definito un “point guard offensive coach”. Durante la sua carriera lei ha avuto la fortuna di poter allenare grandi point guard: Chauncey Billups ai Pistons, Steve Nash ai Suns e adesso, a Cleveland, Kyrie Irving sta aspettando il suo arrivo. Cosa pensa di questa descrizione del suo gioco?

Sono stato molto fortunato ad allenare quei ragazzi. Chauncey in quel periodo era la più forte point guard della NBA (MVP delle Finals nel 2004 ndr) e Steve Nash oltre a essere un futuro Hall of Famer e probabilmente la più forte point guard che io abbia mai allenato è anche un uomo eccezionale. Durante gli anni, ho capito che non è possibile allenare l’attacco senza partire dalla difesa. Ho dovuto imparare ad allenare la difesa perché per me la metà campo offensiva veniva naturale. Muovere i giocatori sul parquet come un giocatore di scacchi muove le pedine sulla scacchiera è quello per cui sono nato. Per poterlo fare però bisogna allenare anche la difesa. Sebbene negli ultimi anni i coaching staff NBA si siano specializzati. Abbiamo alcuni allenatori che si occupano principalmente dell’attacco e alcuni che hanno l’incarico di pianificare la difesa. Tuttavia, per poter essere un allenatore NBA devi conoscere tutte e due le metà campo.

Viktor Sanikidze in azione con la maglia della Georgia

Viktor Sanikidze in azione con la maglia della Georgia

Passiamo adesso alla sua carriera di allenatore della nazionale Georgiana. Come è iniziato questo rapporto?

Siamo nel 2008. Io ero ancora assistente ai Pistons. Negli anni precedenti ero stato assistente di Zelimir Obradovic sulla panchina della nazionale serba. Obradovic è uno dei migliori allenatori internazionali e aver avuto l’opportunità di lavorare con lui e andare alle Olimpiadi è stato incredibile. La verità è che io mi sono sempre sentito un allenatore europeo che è andato in NBA. Io sono europeo, sono cresciuto qui. Tornando al 2008, uno scout internazionale venne da me e iniziammo a parlare di basket internazionale, dopo un po’ mi disse che la federazione georgiana stava cercando un allenatore per la nazionale maggiore. Io parlai con i dirigenti federali della Georgia e loro mi offrirono il posto. Non sapevo se i Pistons avrebbero accettato così andai subito da Joe Dumars per parlare con lui di questa possibilità. Joe mi disse: “Devi farlo. Devi acquisire più esperienza possibile perché tu un giorno sarai un capo allenatore in questa lega e devi fare esperienza”. Accettai il lavoro e da allora sono allenatore di questa squadra. Cinque anni fa abbiamo iniziato un processo di crescita che è ancora in corso. La Georgia è un piccolo mercato cestistico. Stiamo facendo dei miglioramenti ma ancora ci manca parecchia strada.

Mancano due settimane all’inizio di Eurobasket 2013. Quali sono le aspettative per la Georgia in Slovenia?

Sarà difficile. Abbiamo una buona squadra ma ci mancheranno due giocatori fondamentali: Tornike Shengelia e Zaza Pachulia. Non possiamo partire con le stesse aspettative di squadre come la Spagna, la Francia, la Grecia o l’Italia. Dobbiamo essere umili e utilizzare questa rassegna continentale come un banco di prova nel nostro processo di miglioramento. Daremo più minuti ai giovani che abbiamo convocato per vedere se sono pronti al grande palcoscenico e daremo grandi responsabilità ai nostri veterani, come Sanikidze e Markoishvili. Daremo il massimo.

Ritorno a Cleveland per Mike Brown dopo 3 stagioni. (AP Photo/Tony Dejak)

Ritorno a Cleveland per Mike Brown dopo 3 stagioni. (AP Photo/Tony Dejak)

Torniamo all’NBA. La sua prossima destinazione è Cleveland. Ha già avuto modo di incontrare Mike Brown e di programmare il lavoro per la prossima stagione?

Ci sentiamo spesso al telefono e stiamo preparando nel dettaglio il lavoro per la stagione. Mike non ha sollevato nessun problema sul fatto che sarei stato lontano per due mesi per Eurobasket. Mike è un grande conoscitore del basket europeo ed è uno dei migliori allenatori della nuova generazione NBA. Ci conosciamo da molti anni e non vedo l’ora di lavorare con lui.

Cleveland viene da due stagioni difficili. La franchigia ha fatto un grande lavoro sul mercato quest’estate e la squadra per il prossimo anno è notevole. Che stagione sarà per i Cavs?

Dopo la partenza di LeBron James, Cleveland ha ricostruito da zero e questa lega premia la pazienza di chi vuole ricostruire. Le decisioni degli ultimi anni mostrano chiaramente che l’organizzazione vuole vincere. Kyrie Irving e la voglia di puntare su di lui, Dion Waiters, Andrew Bynum, Jarrett Jack, Anderson Varejao e la scelta di un giocatore come Anthony Bennett ne sono la dimostrazione: sarà una stagione interessante a Cleveland.

Se dovesse scegliere uno starting five dei giocatori che ha allenato durante la sua carriera, su chi punterebbe?

E’ una domanda difficile. Ho allenato la nazionale serba e quattro grandi squadre NBA. Ai Clippers avevamo Odom e Camby, ai Pistons ho allenato un quintetto dove c’erano quattro All Stars, ai Suns ho allenato Steve Nash, Amar’e Stoudemire, Shaquille O’Neal e Grant Hill. E’ impossibile scegliere un quintetto, avrei difficoltà a scegliere i migliori dodici, figurati un quintetto.

Lei è stato assistente di molti grandi allenatori, chi è l’head coach da cui ha imparato di più, a cui si sente più legato?

Senza dubbio Larry Brown. Non solo perché con lui ho vinto il titolo NBA ma perché vederlo allenare era fantastico. Larry sapeva come prendere i giocatori e come insegnargli la pallacanestro che lui vedeva nella sua mente. E’ un genio di questo gioco. Non abbiamo mai avuto un piano di allenamento scritto. Larry aveva tutto nella sua testa. Noi preparavamo i report sulle squadre e sulla nostra squadra poi lui si creava in testa l’immagine della partita come un pittore dipinge su una tela. Stargli dietro non era facile ma da lui ho imparato moltissimo. Vederlo allenare era incredibile. Sono molto legato a Larry Brown e gli devo molto.


Dailybasket.it - Tutti i diritti riservati