Una delle più interessanti caratteristiche del nuovo Barclays Center è la facilità nel raggiungerlo. Dal cuore di Manhattan si arriva a ridosso della stupenda arena dei Brooklyn Nets, in nemmeno 30 minuti e con più linee della metropolitana. Collocata all’incrocio fra Flatbush e Atlantic Avenue, appena usciti dalla stazione della metro costruita appositamente, ci si ritrova di fronte ad una meravigliosa struttura, avveniristica a dir poco, che lascia il tifoso, il turista o chiunque si trovasse lì di fronte, estasiato dalla bellezza e dall’imponenza del progetto targato Barclays.

Il Barclays Center dall’uscita della metropolitana

Durante il viaggio verso una delle tante gare interne dei Nets, ci si accorge dell’enorme quantità di tifosi (verrebbe da dire, dell’ultima ora) dei Nets, ma anche di cartelloni pubblicitari, e non solo, inneggianti alla nuova avventura “brooklyniana”. A farla da padrone è per forza di cose Deron Williams, la point guard sulla quale si riversano tutte le speranze di nuovi e vecchi tifosi Nets. Ma pochi si ricordano che se non fosse stato per la trade effettuata da Billy King (GM dei Nets) con Atlanta, l’ex giocatore di Utah e una delle stelle di questa lega, non sarebbe stato convinto a rifirmare per una cifra intorno ai 100 milioni di dollari. Quello scambio, oltre che chiudere ogni porta all’eventuale arrivo di Dwight Howard, ha portato alla corte di Avery Johnson l’uomo dal contratto “scandaloso”, l’uomo che ha fatto grandi gli Atlanta Hawks, Joe Marcus Johnson.

La carriera di Joe Johnson parte da Central High, quartiere della città di Little Rock, dove Dianne Johnson cresce il suo unico figlio Joe grazie al lavoro da infermiera presso l’ospedale psichiatrico dell’Arkansas. Joe torna spesso a casa e ogni volta dice di avere la pelle d’oca, sapendo che gran parte del suo successo viene da quel vicinato, non un ghetto violento, ma, contrariamente a ciò che verrebbe da pensare, pieno di opportunità. Uno dei suoi tatuaggi, derivante dalla cultura Hindi, è traducibile con “incredibilmente fortunato” (“Incredible Blessed”), con particolare riferimento al suo “posto” nel sud degli Stati Uniti, e alla carriera avuta e partita da li. Infatti, dopo i primi passi alla Little Rock Central High School, erano molti a volere il figlio di Dianne come punta di diamante del loro programma universitario: fra i tanti, si erano fatti avanti con decisione le prestigiose università di Duke e Connecticut, ma Joe scelse di rimanere a casa e di diventare un “Razorback”. Ad Arkansas giocò e diventò un idolo, ma lo fece per sole due stagioni prima di essere scelto nel 2001 dai Boston Celtics, che fecero di lui la scelta numero 10 di quel draft.

In principio non siamo di fronte alla migliore storia NBA, considerando che subito dopo pochi mesi i Celtics lo scambiano con i Phoenix Suns, dove muove i primi veri passi da professionista e comincia a far intravedere quel talento cristallino per il quale lo abbiamo conosciuto negli anni in Georgia. Ad Atlanta, Joe Johnson trova la sua dimensione, e un nuovo nickname, “Iso Joe”, coniato per celebrare lo schema in cui eccelle, l’isolamento appunto. Le potenzialità erano già conosciute dopo gli ultimi due anni a Phoenix (16.7 e 17.1 di media), ma dalla stagione 2005/06, il nostro è diventato il leader indiscusso di una squadra perennemente da playoffs, anche se il suo destino era di essere eliminato quasi subito dalla contesa. Così succede dai playoffs 2008 fino a quelli dello scorso anno, con due eliminazioni al primo turno e tre al secondo.

La sua carriera agli Hawks dura sette anni a 21 punti di media, durante i quali si merita (verbo usato per le sue prestazioni, ma che non leggerete da nessuna parte a proposito) uno dei contratti che hanno fatto più discutere negli ultimi dieci anni: accordo oneroso per gli Hawks da 119 milioni di dollari per sei anni. Una cifra assurda, frutto di una pessima abitudine dei proprietari NBA, che ha poi portato al lockout nel 2011. Il tatuaggio è buon profeta, non potendo pensare che non sia stato incredibilmente fortunato vista la firma del 2010 con gli Hawks, ma Danny Ferry, nuovo GM di Atlanta, decide di disfarsi di quel contratto, nonostante Iso Joe sia stato il punto di riferimento della franchigia sin dal 2005.

L’arrivo ai Nets è quasi inaspettato per Joe Johnson: “Deron non aveva ancora rifirmato, e io mi sono trovato in un vicolo cieco. Non sapevo cosa stesse per succedere, ma in ogni caso pensai che fosse una gran mossa per la mia carriera, quando mi hanno detto che avrei giocato per i Nets”. Lo scambio arriva nell’estate 2012, dopo che i Nets le provano tutte per prendere Dwight Howard dagli Orlando Magic. Convincono Deron a rifirmare anche grazie all’arrivo di Joe, che va a puntellare una squadra finalmente competitiva, in un arena e in un posto che con Atlanta (con tutto il rispetto per i tifosi della Philips Arena), hanno poco a che a vedere, ovviamente in meglio a quanto a calore e passione.

Il ragazzo del Sud degli USA, a detta sua, ci ha messo un po’ ad abituarsi ai ritmi di New York, ma grazie al suo gioco che lo contraddistingue dal resto degli elite players della lega, sta trovando pian piano la sua dimensione anche a Brooklyn, in una città dove la pressione è di tutt’altro livello rispetto ad altri posti. Le aspettative sono tante (“Ci chiedono di vincere il titolo, penso che potremmo fare una bella stagione da contender, sperando di avere pochi infortuni”), e Joe lo ha vissuto sulla sua pelle finchè non è arrivata la gara con i Detroit Pistons. La squadra di Avery Johnson è reduce dalla sconfitta con gli ormai arci rivali New York Knicks e da un periodo davvero magro di risultati. Il 14 Dicembre arrivano i Pistons, contro i quali ci si aspetterebbe una facile vittoria, ma come è capitato molto spesso in questa strana stagione, i Nets sono costretti a inseguire e a faticare per avere la meglio di una squadra con il record negativo. Le difficoltà dei Nets sono anche quelle di Joe Johnson (16 punti a partita e 42 % dal campo nel primo mese e mezzo di regular season), ma per una sera e forse per molto tempo a venire, Iso Joe entra nei cuori dei tifosi di casa. Prima i Nets si fanno rimontare 17 punti nel secondo tempo, poi nel primo tempo supplementare il numero 7 in maglia bianca stabilisce la parità a quota 100 con 20 secondi da giocare per forzare un altro overtime. Dopo che, a cinque secondi dalla fine, Kyle Singler aveva rimesso le cose in parità sul 105-105, la palla va a finire nelle mani di Joe Johnson, che ha la meglio nel duello con uno dei migliori difensori della lega, Tayshaun Prince. Il jumper da quasi 7 metri va a finire dentro il canestro proprio mentre la sirena sta per suonare, facendo esplodere il Barclays Center e i giocatori in campo come se fosse una liberazione da qualche spettro del passato che stava cominciando a riapparire. Era dal febbraio 2009 che i Nets non vincevano sulla sirena, e non è un caso che ci volesse uno dei giocatori più clutch della lega per ripetere la storia: “Quando ha lasciato la mia mano, sapevo che la palla sarebbe entrata. Sono contentissimo che siamo riusciti a vincere”.

Il momento del tiro decisivo contro Detroit

Ci sono ancora 89 milioni di dollari restanti nel contratto di Johnson, probabilmente un po’ troppi per un 31enne, che però ha dimostrato con il suo ritmo cadenzato di essere in grado di dare il proprio contributo per anni, provando a regalare a Brooklyn quelle emozioni sportive che da troppo tempo mancano al distretto newyorchese. Il titolo è ancora un miraggio, ma questi Nets sono costruiti per vincere e per dimenticare gli ultimi anni nella “palude” del New Jersey. Il buzzer beater contro Detroit dimostra che Iso Joe è l’uomo giusto, in grado di rimanere calmo (“cool”) e determinato soprattutto sotto pressione: un giocatore imprescindibile per i Nets versione 2012/2013.

Stasera al Madison Square Garden sarà in scena gara 3 della rivalità coniata “Battle of the boroughs” fra Knicks e Nets. Le prime due, giocate a Brooklyn, hanno visto 1 vittoria a testa e l’attesa per la gara di stanotte, forse senza Melo Anthony, è spasmodica in città. Joe Johnson è pronto e si dice molto sicuro della propria squadra, anche dopo la sconfitta casalinga contro Utah: “A fine stagione saremo la migliore squadra di New York, è quello che ho detto. Ma stasera abbiamo bisogno di vincere, senza pensare all’ostilità del pubblico e alla rivalità. Definitely Brooklyn!”.