[…] Girando su SkyNBA ho notato con soddisfazione che c’era Indiana-Dallas, soddisfazione non tanto per la partita (Dončić lo guardo nei highlights), ma perché c’era il commento originale in inglese (fra l’altro la produzione era locale, dunque i telecronisti erano tifosi di Indiana, ma ciò nondimeno si sono dimostrati grandi professionisti – ripeto, TV locale – niente da dire, laggiù fanno la telecronaca, il play-by-play, il commento tecnico tutto con i tempi giusti, non si parlano mai addosso, e dunque in questo campo ci danno ancora molti giri di pista, e spero che mi possiate credere, visto che ho fatto questo mestiere per tutta la vita e dunque ho accumulato un tantino di esperienza), e dunque i miei marroni erano protetti da improvvisi attacchi di gonadociclosi, per cui ho guardato quasi tutta la partita. In breve quello che ho visto: le difese, da ambo le parti, non esistono proprio: battuto il proprio uomo, si è soli. Chiunque tagli non viene proprio seguito. E allora, guarda caso, Dallas che ha in questo momento solamente tre veri giocatori con mezza squadra fuori per Covid, parlo ovviamente di Luka, Porzingis e Hardaway, ha vinto con facilità semplicemente facendo quello che ogni allenatore principiante pretenderebbe da questa squadra, e cioè che la stella, l’unico che gli avversari a volte si degnano di chiudere, dire raddoppiare sarebbe usare un termine troppo forte, che è uno straordinario passatore e che legge il gioco come in questo momento al mondo nessuno, serva in continuità il lunghissimo nei suoi tagli sotto canestro, come detto, seguiti da nessuno. E così è finita che Luka ha fatto solo 13 punti, ma ha portato a casa una tripla doppia, mentre Porzingis ne ha fatti 27, dei quali più di 20 sono a tutti gli effetti di Dončić. Cioè come logica elementare vorrebbe che fosse la routine per questa squadra.

Sergio Tavčar

Per fortuna ci sono altri argomenti da trattare e devo dire un grazie enorme a Llandre per aver introdotto il tema degli inni nazionali, che è una cosa che mi affascina fin da quando ero piccolo. Da mia madre ho ereditato in pieno la passione per la musica e per il canto che pratico in modo esaustivo soprattutto di questi tempi, nei quali sono solo a casa e dunque non rompo le scatole a nessuno (un po’ ai vicini, ma mi tollerano). Mi piace cantare da sempre e senza falsa modestia posso affermare di essere intonato e di avere una bella voce che ha fatto sì che sin dal mio primo anno di scuola fino all’ultimo anno di liceo ho fatto parte di tutti i possibili e immaginabili cori scolastici, con il picco raggiunto in quinta liceo, quando feci parte dell’ottetto della scuola (baritono) che si esibì dal coro della Cattedrale di San Giusto per la messa di Pasqua congiunta di tutte le scuole slovene di Trieste. Nelle scuole slovene l’8 di febbraio si celebra il giorno della cultura, in quanto in quella data morì nel 1849 il più grande poeta sloveno, Francé Prešeren (interessante che gli sloveni festeggino, unici al mondo, penso, il giorno della morte e non quello della nascita del loro massimo poeta – suppongo che dica molto sul loro carattere di inguaribili disfattisti) e per l’occasione il coro scolastico (e dunque il sottoscritto lo fece per 13 anni di fila) canta per tradizione la prima, la seconda e la settima strofa della Zdravica, il Brindisi, la poesia eponima della letteratura slovena. Perché questa strana scelta? Perché la poesia è un crescendo di sentimenti che culminano, appunto, nella settima strofa, che parla appunto della fratellanza fra i popoli: “Žive naj vsi narodi, ki hrepene dočakat’ dan, da koder sonce hodi prepir bo iz sveta pregnan, da rojak prost bo vsak, ne vrag, le sosed bo mejak”, il che significa, in libera traduzione, “Che vivano tutti i popoli che anelano a vivere il giorno in cui, dovunque splende il sole, la litigiosità sarà scacciata dal mondo, quando ogni fratello sarà libero, e ai confini non avremo un nemico, ma un vicino di casa”. Dopo il 1848, l’anno del risveglio delle nazioni, in Slovenia le autorità austriache permisero che uscisse un giornale in lingua slovena, finalmente, in quanto fino a quel momento la cosa era stata severamente vietata. Si trattava di una modesta gazzetta, quasi un bollettino, che si chiamava infatti “Kmetijske in rokodelske novice”, notizie contadine e artigiane, e che serviva da organo di informazione, appunto, per contadini e artigiani, cioè per i mestieri che erano concessi agli sloveni. Il primo storico numero del giornale uscì con in prima pagina proprio la Zdravica di Prešeren, e dunque il significato che ha questa poesia per gli sloveni travalica ampiamente i suoi meriti artistici che pure non sono pochi. Divenne subito popolarissima, poco dopo un prete di nome Premrl la musicò e cominciò a essere cantata in tutte le occasioni solenni diventando un vero e proprio inno ufficioso di tutti gli sloveni. Ufficioso, appunto, perché di ufficiale non c’era niente né era permesso che lo fosse. Qualche anno dopo una coppia di fratelli, il poeta Simon Jenko e il musicista Davorin, che viveva e operava a Belgrado, pensò di comporre un inno che incitasse gli sloveni ad alzare la testa e a ribellarsi e scrissero “Naprej zastava slave”, Avanti bandiera della gloria (con l’ovvia assonanza fra slava=gloria e la radice che evocava le origini slave), inno battagliero e dunque scritto in forma di marcia, che però si attaccò poco alla gente che preferiva di gran lunga la Zdravica. Anche perché quest’ ultima, soprattutto con la prima strofa, appariva molto più familiare al vero carattere degli sloveni. Già che ci sono, ve la riporto: “Prijat’lji, obrodile so trte vince nam sladko, ki nam oživlja žile, srce razjasni in oko, ki vtopi vse skrbi, v potrtih prsih up budi”, cioè: “Amici, le viti ci hanno regalato il dolce vino, che ci rinvigorisce le vene, ci rasserena il cuore e l’occhio, che ci fa dimenticare tutte le pene e risveglia la speranza nei cuori affranti” che, come si può facilmente capire, per quanto perfetta per gli sloveni (forse anche per i friulani…), non è una strofa che possa assurgere a inno, se non a quello degli ubriaconi, categoria della quale, fra l’altro, il massimo poeta sloveno faceva ampiamente parte e dunque sapeva di cosa parlava.

Tornando ai fratelli Jenko e a Davorin ho detto che era un musicista molto noto e affermato in Serbia. Tanto noto che fu chiamato a musicare quello che la Corona voleva diventasse l’inno ufficiale della Serbia appena liberatasi definitivamente dal giogo ottomano e infatti la musica dell’inno serbo “Bože Pravde” è opera proprio di Davorin Jenko, uno sloveno dunque.

Dopo il 1945 la Slovenia, ormai Repubblica indipendente riunita assieme alle altre cinque nella Jugoslavia, dovette ufficialmente darsi un inno e le autorità scelsero ovviamente l’inno bellicoso dei fratelli Jenko che però almeno io non ho mai sentito eseguire in nessuna occasione ufficiale. Contrariamente a quanto facevano in Croazia, dove erano da sempre attaccatissimi al loro inno, anch’esso risalente all’Ottocento, “Lijepa naša domovina”, nostra magnifica patria, del quale invito a parlare chi ne sa molto di più, cioè ovviamente Boki. Io so solo che fu sdoganato dalle autorità jugoslave definitivamente appena nel 1979 quando, alla presenza di Tito, ancora per poco vivo, fu eseguito al Poljud di Spalato accanto all’inno ufficiale jugoslavo “Hej Slaveni” durante la cerimonia di inaugurazione dei Giochi Mediterranei. Fu la prima volta che lo sentii, in quanto fino ad allora non sapevo neanche che esistesse.

Tornando alla Slovenia, quando ci fu l’indipendenza si dovette trovare un inno. Fu fatto un referendum popolare e la Zdravica lo stravinse, per cui fu deciso di adottare come testo la settima strofa, quella più elevata, per così dire, col risultato adesso che alla festa della cultura l’8 di febbraio tutto il pubblico ascolta seduto le prime due strofe salvo poi obbligatoriamente alzarsi in piedi quando il coro intona la settima, trattandosi dell’inno nazionale, cosa alquanto bizzarra che di solito sconcerta gli ignari.

Tutta un’altra storia è quella che riguarda l’ex inno jugoslavo, il già menzionato “Hej, Slaveni” (in sloveno “Hej, Slovani”). Per farlo bisogna ritornare al turbolento periodo del risveglio dei popoli a metà Ottocento, e segnatamente prendere in considerazione la presa di consapevolezza dei popoli slavi sparsi nei vari Imperi europei delle loro comuni origini e dei legami di fratellanza che dovevano essere tessuti fra di loro per resistere e non venire sopraffatti dalle due superpotenze germaniche centro-europee. Per quanto riguarda ad esempio le bandiere il faro ovviamente era la Russia e, guarda caso, più o meno tutti presero come propri colori il bianco-blu-rosso a strisce orizzontali introdotto da Pietro il Grande (fra l’altro sul modello della bandiera olandese, dove lui aveva lavorato in incognito), certuni cambiando l’ordine dei colori (molto caratteristicamente per loro i serbi semplicemente li rovesciarono), altri, quelli meno dotati di fantasia come sloveni e slovacchi, lasciandoli tali e quali, cosa che li penalizza ancora oggi, visto che tutti confondono le loro bandiere. In fatto di inni c’era il deserto, o quasi, visto che i polacchi adottarono quale loro inno ufficioso un’allegra marcetta militare dal testo tutt’altro che pregno di importanti significati, ma, visto che la melodia era molto accattivante, la gente cominciò ad identificarsi con quello che è ancora oggi l’inno della Polonia. A questo punto un poeta slovacco pensò di scrivere su questa melodia un testo più impegnato che chiamasse a raccolta tutti i popoli slavi, soprattutto quelli suoi, quelli austro-ungarici, ovviamente con ciò rallentando la musica per renderla più solenne. Nacque così il “Hej, Slaveni” che divenne una specie di “Internazionale” slava senza che però venisse mai adottata ufficialmente da nessuno. Fino a che dopo la seconda guerra, con la nascita della Jugoslavia Federale di Tito, si dovette trovare un inno abbastanza innocuo per i vari popoli jugoslavi che inneggiasse in modo abbastanza anonimo alla fratellanza slava e che dunque non offendesse nessuno e si pensò all’inno del poeta slovacco sulla musica dell’inno polacco quale inno ufficiale jugoslavo, inno che poi durò fino alla dissoluzione della Jugoslavia e che ormai nessuno canta più e la cui memoria sta pian piano scomparendo.

Sugli inni ci sarebbe da parlare all’infinito, soprattutto per uno come me che da bambino tentava di impararli il prima possibile, cosa che poteva fare quando il tale Paese vinceva molte medaglie e dunque Sergio sentiva tante premiazioni. Guarda caso dopo le Olimpiadi di Roma sapevo benissimo sia l’inno sovietico (poi diventato russo su “ukaz” di Putin previa cambio del testo) che quello americano, del tedesco non serviva neanche parlare, visto che era lo stesso del nostro glorioso Impero e che nonna mi cantava sempre con anche gli zii da parte di mamma che mi parlavano di continuo della “Serbidiola” (provate a cantare sulle note dell’inno tedesco l’inizio della versione in italiano dell’inno austriaco: “Serbi Dio l’Austriaco Regno, serbi Dio l’Imperator…” e capirete perché per tutti è la “Serbidiola”), pian piano imparai la Marsigliese (per me numero uno, direbbe Dan Peterson, che vince per dispersione, direbbe Max Ambesi – numero due indiscusso è la struggente e magnifica melodia dell’inno ungherese), poi la Marcia reale spagnola (unico inno al mondo senza parole), poi altri ancora fino al boom del leggendario “Ausserstanden Aus Ruinen”, l’inno della DDR che a ogni manifestazione sportiva si sentiva di continuo fino allo sfinimento. A proposito, lo sapevate che se in DDR cantavate una particolare strofa dell’inno finivate direttamente in galera? La poesia che fa da base per l’inno e che incita i tedeschi a risollevarsi dopo le devastazioni della guerra a un dato momento infatti fa un preciso riferimento alla futura riunificazione, cosa che in DDR non potevano certamente promuovere, per cui la strofa in questione fu cancellata dalla poesia tout court ed era proibitissimo cantarla.

E per finire tempo fa un autore triestino pubblicò una specie di enciclopedia degli inni nazionali mondiali, con storia completa sia delle musiche che dei testi, libro interessantissimo che comprai e divorai, poi ovviamente nel mio caos l’ho perso, per cui non mi ricordo né il nome del libro né quello dell’autore. Sappiate comunque che esiste e per chi queste cose interessano è veramente un piacere leggerlo.