Cos’è Busts&Steals? Semplificando, all’interno del mondo del Draft NBA, un bust è un giocatore che, a dispetto delle alte aspettative su di lui nel momento in cui viene scelto, fallisce poi (più o meno) clamorosamente sul campo, scomparendo in tempi (più o meno) brevi dal panorama NBA. Uno steal invece è, per certi versi, l’esatto contrario: un giocatore su cui, al momento del draft, nessuno avrebbe puntato un centesimo e che poi, spesso sfruttando occasioni e situazioni propizie per mettere in mostra il suo talento, stupisce tutti costruendosi un ruolo (talvolta di primo piano) nella Lega. Insomma, il draft non è una scienza esatta, è risaputo, ma proprio qui sta il suo fascino.

Ripercorreremo quindi la storia di quindici draft recenti alla ricerca di busts e steals: che fine hanno fatto le prime scelte sparite quasi subito dai parquet NBA? E chi sono quei giocatori che invece, scelti al secondo giro ed entrati nella Lega in punta di piedi, ne sono poi diventati protagonisti? È questo lo scopo di questa rubrica, che, dopo il Draft 1998, il Draft 1999 e il Draft 2000, prosegue oggi con il 2001. Buon divertimento!

Draft 2001

draft01

Dal draft del 2001 sono usciti diversi buoni giocatori, anche se il livello di talento medio delle scelte non è stato altissimo, col senno di poi. Inoltre, le scelte migliori sono sparse per tutto il draft, dalle scelte alte Pau Gasol (n. 3), Jason Richardson (n. 5), Shane Battier (n. 6) e Joe Johnson (n. 10), ai vari Richard Jefferson (n. 13), Zach Randolph (n. 19), Gerald Wallace (n. 25), fino ad arrivare a Tony Parker (n. 28), Gilbert Arenas (n. 30) e Mehmet Okur (n. 37).

1º giro

Flop totali: sono scomparsi dalla NBA

1. Kwame Brown (PF-C, 211 cm, Washington Wizards)
Kwame Brown, scelto con la prima chiamata nel 2001 direttamente dalla high school, verrà ricordato soprattutto per aver rubato il posto a Michael Olowokandi  (scelto nel 1998) come peggior prima scelta assoluta della storia del draft. Il suo anno da rookie è a dir poco difficile (4,5 punti e 3,5 rimbalzi), ma per un diciannovenne appena sbarcato in NBA ci può anche stare. Le sue cifre migliorano gradualmente al secondo e al terzo anno, quando, se da una parte è già chiaro che non si tratta del fenomeno che speravano a Washington, dall’altra ancora si ha un cauto ottimismo. Lui in primis, dato che rifiuta il prolungamento con i Wizards per sondare il mercato dei free agent in estate. Così, dopo una mediocre quarta stagione a Washington (anche a causa di infortuni), passa ai Lakers con un sign-and-trade; le cifre non cambiano granché nel complesso, ma l’infortunio a Chris Mihm gli spalanca le porte del quintetto, in cui riesce a mostrare gran parte del suo potenziale, anche durante i Playoffs. Così, la stagione successiva, Phil Jackson lo conferma nello starting five, ma un nuovo infortunio lo tiene fuori per parecchie partite; al suo posto parte il giovane Andrew Bynum, che cresce esponenzialmente partita dopo partita, finendo, alla lunga, per soffiargli il posto. Nel febbraio 2008 viene così ceduto ai Grizzlies, dove gioca poco e male fino alla fine della stagione. Dopodiché, passerà per Detroit, Charlotte, Golden State e Philadelphia, giocando in maniera accettabile (ma nulla più) solo ai Bobcats. Nei suoi dodici anni di carriera NBA ha collezionato la miseria di 6,6 punti, 5,5 rimbalzi e 0,6 stoppate in 22,1 minuti di media, chiudendo in doppia cifra solo la sua terza stagione a Washington: un flop totale per una prima scelta assoluta.

7. Eddie Griffin (PF-C, 208 cm, Houston Rockets)
Non è per cinismo che mettiamo Eddie Griffin tra le delusioni: la tragedia che l’ha portato via a soli 25 anni, infatti, ha messo fine alla sua vita, non alla sua carriera, che era già verosimilmente finita qualche mese prima. Scelto dai Nets ma immediatamente girato ai Rockets, ha un approccio tutto sommato discreto con la NBA, chiudendo il primo anno a quota 8,8 punti, 4,1 rimbalzi e 1,8 stoppate e facendo vedere il potenziale che già aveva mostrato nelle due ottime stagioni di college a Seton Hall. Chiude anche il secondo anno con cifre simili, seppur in leggero ribasso, dopodiché, nel 2003, iniziano a emergere i suoi problemi con l’alcool. A dicembre i Rockets lo tagliano dopo che salta alcuni allenamenti e un volo con la squadra; a gennaio firma con i Nets (la squadra che l’aveva scelto al draft), ma entra in un centro di recupero per alcolisti e non gioca nemmeno una partita. In estate sono i Timberwolves a dargli fiducia, ripagata da una stagione per certi versi discreta, in linea con le prime due. Arriva così il prolungamento del contratto per tre anni, ma le sue cifre, nelle due stagioni successive, calano sensibilmente, e non ci vuole molto per capire che Eddie è ricaduto nel suo vecchio problema. Nel 2006 va a sbattere con il suo SUV contro una macchina parcheggiata; pochi istanti prima la telecamera di un supermercato l’aveva ripreso mentre faceva rifornimento di alcolici. Alla fine lo tagliano anche i T-Wolves, nel marzo 2007; non avrà una terza possibilità, perché pochi mesi dopo, in agosto, morirà in seguito a un nuovo, tremendo incidente, dopo aver ignorato (o nemmeno visto) un passaggio a livello, andando a finire contro un treno in corsa; l’autopsia rivelerà poi che l’ex giocatore aveva un tasso di alcool nel sangue pari a oltre tre volte il consentito.

Il fisico di certo non mancava a DeSagana Diop (Foto: sbnation.com)

Il fisico di certo non mancava a DeSagana Diop (Foto: sbnation.com)

8. DeSagana Diop (C, 213 cm, Cleveland Cavaliers)
Con questo centro senegalese torniamo decisamente alla parte più goliardica delle delusioni del draft. L’unica tragedia in questo caso, infatti, è stata la sua scelta da parte dei Cavs: come definire altrimenti una carriera di dodici anni in NBA chiusa a 2 punti, 3,7 rimbalzi e 1 stoppata di media? Sarebbero numeri a malapena accettabili per una tarda seconda scelta, figuriamoci per un n. 8! Come molti suoi colleghi africani, Diop ha iniziato a giocare a basket solo a quindici anni, spinto dall’altezza e dalla mole, che gli hanno permesso di volare negli USA e di fare la high school alla Oak Hill Academy. Dichiaratosi per il draft senza passare dal college (scelta discutibile nella maggior parte dei casi, figuriamoci nel suo), si ritaglia negli anni, tra Cavs, Mavs, Nets e Bobcats, un suo spazio come specialista difensivo, sfruttando le doti di rimbalzista e stoppatore. Nel 2008 riesce addirittura a strappare un contratto da 32 milioni in sei anni con i Mavs, una follia per un giocatore che non ha mai giocato più di 18,6 minuti di media, e non è mai andato oltre i 2,9 punti segnati. Ritiratosi nel 2013, dal 2014 è assistente allenatore ai Texas Legends, nella NBDL.

9. Rodney White (F, 206 cm, Detroit Pistons)
Scelta per certi versi misteriosa, quella di White da parte dei Pistons, se non fosse perché pare che il coach di Detroit Rick Carlisle non fosse proprio un suo fan. La conseguenza sono le sole 16 partite disputate nel suo anno da rookie, con minutaggio e medie molto basse, e la conseguente svendita a Denver l’anno successivo. Ai Nuggets le cose vanno un po’ meglio (7,7 punti di media nei due anni e mezzo passati lì), ma il suo rendimento rimane ben al di sotto delle aspettative, soprattutto nella metà campo difensiva. Chiuso da un certo Carmelo Anthony, a metà stagione 2004/05 viene dato per perso e ceduto ai Warriors, dove termina la sua carriera NBA (7,1 punti, 2,2 rimbalzi, 1,1 assist di media). L’anno successivo sbarca in Spagna, prima a Manresa e poi brevemente a Bilbao, per poi passare per Italia (una buona stagione in LegaDue a Pesaro), Cina (quattro stagioni allo Zhejiang Guangsha e una agli Shandong Lions), Puerto Rico, Corea del Sud, Venezuela e Filippine, dove chiude la sua mediocre carriera professionistica nel 2013.

11. Kedrick Brown (F, 201 cm, Boston Celtics)
Troppo basso per fare l’ala forte, troppo poco tecnico e senza il tiro da fuori necessario per fare l’ala piccola, di giocatori come lui, super atleti senza una precisa collocazione in campo, nel draft ne sono passati tanti, anche se non tutti (anzi, quasi nessuno) scelti così in alto. Proveniente direttamente dall’high school, Brown viene scelto un po’ a sorpresa al n. 11 dai Celtics, con la cui maglia disputa due stagioni a dir poco anonime. Il terzo anno inizia un po’ meglio (ma con un po’ meglio intendiamo 5,2 punti di media in quasi 20 minuti), e i biancoverdi decidono di “monetizzare” mandandolo a Cleveland, dove si mantiene bene o male sullo stesso livello. In estate viene ceduto ai Sixers, con la cui maglia però scende in campo solo otto volte a causa di un problema alla schiena. Termina qui la sua esperienza NBA: 3,6 punti e 2,4 rimbalzi di media in quattro stagioni. Dopo oltre due anni di stop torna in campo nel 2007 con la maglia degli Anaheim Arsenal, in D-League, dove disputa due ottime stagioni, per poi passare due anni in squadre di medio-basso livello in Turchia prima del definitivo ritiro nel 2012.

15. Steven Hunter (C, 213 cm, Orlando Magic)
Scelto a metà del primo giro, Hunter ha giocato per otto anni nella NBA, ma di certo ben al di sotto delle aspettative. Alto e atletico, buon stoppatore ma con evidenti carenze nella metà campo offensiva, mancando sia di stazza per giocare spalle a canestro che di mano abbastanza educata per tirare fuori dal pitturato, i Magic lo scelgono e lo “aspettano” per tre anni, dopodiché passa un anno a Phoenix e due a Philadelphia. Qui gioca le sue migliori stagioni, chiudendo il secondo anno con quasi 23 minuti di media, 6,4 punti e 4,8 rimbalzi: cifre comunque deludenti per una scelta così alta. Nel 2007 viene mandato a Denver, ma gioca solo 19 partite (6 minuti di media) per un problema al ginocchio destro, che lo costringerà a saltare anche l’intera stagione successiva. Nell’estate 2009 viene ceduto ai Grizzlies, ma solo a fini salariali: a Memphis gioca comunque qualche minuto in 21 gare, le ultime in NBA, chiudendo una carriera da 4,5 punti, 3,2 rimbalzi e 1,1 stoppate in 15 minuti di media. Nel 2011, dopo un altro anno di riabilitazione al ginocchio, torna su un parquet in Italia, a Sassari, ma la sua esperienza dura appena sei partite prima della sua “fuga” senza preavviso dalla città sarda. Ormai ufficialmente ritirato, è ambassador per i Phoenix Suns in Arizona.

Kirk Haston nella sua posizione abituale: in panchina (Foto: thesportster.com)

Kirk Haston nella sua posizione abituale: in panchina (Foto: thesportster.com)

16. Kirk Haston (PF, 206 cm, Charlotte Hornets)
Ala forte bianca con un discreto tiro da fuori (ma non da tre), dopo un’ottima carriera al college a Indiana University le previsioni prima del draft lo davano comunque tra la fine del primo giro e l’inizio del secondo. Gli Hornets, invece, lo scelgono già al n. 16, forse per accaparrarsi un lungo tiratore che, con l’introduzione della difesa a zona nella NBA, avrebbe potuto essere prezioso. Invece, Haston gioca solo 27 partite nella Lega, 15 il primo anno e 12 il secondo, chiudendo la sua brevissima carriera tra i pro con 1,2 punti, 1 rimbalzo e il 23% al tiro in 5 minuti di media. Nel 2004 gioca (bene) in NBDL con i Florida Flame, ma un infortunio al ginocchio destro gli fa chiudere anzitempo la stagione. Nell’estate del 2005 firma per l’Upea Capo d’Orlando, ma un nuovo infortunio allo stesso ginocchio porta al taglio prima ancora dell’inizio del campionato. Qui si chiude la carriera di un giocatore sì sfortunato, ma che non solo a causa della sfortuna è stato un flop totale. È rimasto comunque nel mondo del basket, dato che dal 2010 è allenatore della squadra maschile della Perry County High School, dove lui stesso è cresciuto.

17. Michael Bradley (PF, 208 cm, Toronto Raptors)
Ala forte bianca con un discreto tiro da fuori (ma non da tre)… No, non abbiamo fatto copia/incolla della descrizione di Haston, ma in effetti i due giocatori avevano caratteristiche per certi versi simili, così come simile è stato l’impatto che hanno avuto nella NBA: quasi nullo. Dopo un primo anno da rookie a Toronto da 26 partite (118 minuti e 30 punti in totale), Bradley fa vedere qualche miglioramento la stagione successiva, in cui, sempre in Canada, gioca 67 partite sfiorando i 20 minuti di media, con 5 punti e 6,1 rimbalzi di fatturato. Un problema alla spalla ne limita l’utilizzo l’anno dopo e, così, la sua crescita si ferma: in due stagioni, trascorse tra Raptors, Hawks, Magic, Kings e Sixers, gioca solo 34 partite segnando 48 punti in totale, mentre nella stagione 2005/06, a Philadelphia, ne gioca 46 ma con un minutaggio veramente ridotto. Finisce quindi la sua esperienza in NBA (2,8 punti e 3,4 rimbalzi in carriera) e inizia quella oltreoceano, tra Spagna, Germania, Lituania, ancora Spagna e Danimarca. Dopo il ritiro, nel 2010, ha intrapreso la carriera di allenatore con la Summit Country Day School, dove è rimasto per cinque anni; attualmente è assistente alla Eastern Kentucky University, oltre a essere proprietario della Moksha Yoga Northern Kentucky, un gruppo di praticanti yoga ormai diffuso in tutto il mondo particolarmente focalizzato su etica e rispetto dell’ambiente.

Joe Forte ai tempi di Boston (Foto: pinterest.com)

Joe Forte ai tempi di Boston (Foto: pinterest.com)

21. Joe Forte (G, 192 cm, Boston Celtics)
Dopo due ottime stagioni a North Carolina, la sua carriera NBA dura solo un paio d’anni, in cui assaggia appena il campo prima a Boston e poi a Seattle, faticando a trasformarsi da shooting guard, il suo ruolo naturale, in point guard, ruolo più adatto al suo fisico. Le sue cifre nella Lega parlano di 1,2 punti, 0,7 rimbalzi e 0,7 assist in 25 partite totali. Se si pensa che Tony Parker e Gilbert Arenas sono stati scelti dopo di lui… Tagliato dai Sonics, nel 2003 trova spazio solo nella NBDL con gli Asheville Altitude, dopodiché emigra oltreoceano. Dopo un anno in Grecia, sbarca in Italia, a Siena, dove vince lo scudetto nel 2007 da protagonista. Inizia quindi la stagione successiva in Russia a Kazan, ma torna in Italia per i playoff con la maglia della Fortitudo, che lo conferma per l’anno dopo salvo poi tagliarlo per qualche problema fuori dal campo. Passa quindi a Udine, in Legadue, che però abbandona prima del termine della stagione. Nel gennaio 2010 si accasa a Pavia, risultando decisivo nella salvezza conquistata all’ultima partita. Dopo un ultimo anno in Italia, a Pistoia, nel 2012 va in Iran; a parte una breve comparsata al Maccabi Tel Aviv nel 2015, al momento non si hanno più sue notizie.

22. Jeryl Sasser (G, 198 cm, Orlando Magic)
Fratello minore di Jason Sasser, che ha avuto un’altrettanto impalpabile carriera NBA ma che ha vinto il bronzo al Mondiale 1998 con la maglia della Nazionale USA, Jeryl è un buon atleta con buon controllo di palla e visione di gioco, ma carente al tiro. I Magic provano a puntare su di lui, ma dopo due stagioni (2,5 punti, 2,3 rimbalzi in 82 partite a 13 minuti di media) è chiaro che la NBA non è il suo mondo. Emigra così in Francia, al Pau Orthez, per poi giocare qualche mese in Giappone e per un paio di partite in Israele nel 2005. Dal 2007 al 2009 gioca per l’Al Arabi, in Kuwait, vincendo il campionato nel 2008, dopodiché decide di ritirarsi, a soli trent’anni.

23. Brandon Armstrong (G, 193 cm, New Jersey Nets)
Questa guardia uscita da Pepperdine chiude il terzetto di guardie fallimentari scelte verso la fine del primo giro: scelto dai Rockets ma subito mandato ai Nets, passa nel New Jersey le sue uniche tre stagioni NBA, per un totale di sole 108 gare a 2,2 punti e 0,6 rimbalzi di media in 6,5 minuti. Nel 2005 è per qualche mese in Italia, a Roseto, prima di tornare negli USA per giocare una stagione in D-League tra Dakota Wizards, Bakersfield Jam e Anaheim Arsenal. Torna quindi in Europa, prima in Polonia e poi in Ucraina, per poi chiudere la sua mediocre carriera nel 2009 in Venezuela. Per chi se lo stesse chiedendo: no, è solo un omonimo del Brandon Armstrong che è diventato famoso per le sue comiche video-imitazioni di stelle NBA.

Mezze delusioni: hanno reso molto meno del previsto

2. Tyson Chandler (C, 216 cm, Chicago Bulls)
Se la prima scelta Kwame Brown è stato un vero e proprio bust, Tyson Chandler, scelto subito dopo, è andato sicuramente meglio, costruendosi una carriera lunga e solida come specialista difensivo, ma di sicuro non al livello richiesto a una seconda scelta assoluta. Alto, atletico e molto rapido, ottimo rimbalzista ma stoppatore nella media, il suo problema è sempre stato nella metà campo offensiva, dove realizza con ottime percentuali una quantità davvero irrisoria di conclusioni, per lo più su scarichi e rimbalzi offensivi. Scelto dai Clippers e subito mandato ai Bulls in cambio di Elton Brand, passa a Chicago cinque stagioni con molti alti e bassi; l’ultima stagione notevolmente sotto il par spinge la dirigenza a mandarlo a New Orleans in estate. Qui gioca le sue migliori stagioni, almeno a livello numerico, facendo registrare il massimo in carriera in rimbalzi (12,4) e stoppate (1,8) nel 2006/07 e in punti (11,8) nel 2007/08. Negli anni successivi gira tra Charlotte, Dallas (con vittoria del titolo NBA da centro titolare), New York (per tre anni, con una chiamata all’All-Star Game), ancora Dallas e Phoenix, dove attualmente sta giocando 22,6 minuti con 5,4 punti e 7,7 rimbalzi di media. Nel suo palmarès conta anche un’Olimpiade (2012) e un Mondiale (2010) vinti con la maglia della Nazionale USA. Insomma, tutt’altro che un bidone, ma uno specialista, facciamo pure un ottimo specialista, a cui mal si accorda una seconda scelta assoluta.

Eddy Curry non proprio in forma smagliante con la divisa de Knicks (Foto: lastangryfan.com)

Eddy Curry non proprio in forma smagliante con la divisa de Knicks (Foto: lastangryfan.com)

4. Eddy Curry (C, 213 cm, Chicago Bulls)
Grande, grosso e con ottimi movimenti in post basso, Curry era anche poco reattivo, difensore inesistente, rimbalzista pigro: insomma, l’esatto contrario di Chandler, e in effetti l’idea dei Bulls era quella di avere due giocatori perfettamente complementari ad alternarsi nella posizione dei centro. La cosa in effetti funziona, o perlomeno va avanti per qualche stagione, con risultati di squadra non proprio degni di nota, se non nel 2005, quando raggiungono i Playoffs. In quell’anno Curry salta tredici partite a causa di un problema cardiaco, ma in estate rifiuta di sottoporsi a ulteriori controlli; viene così spedito ai Knicks, dove trascorre le successive cinque stagioni. Se con Scott Skiles e Larry Brown il rapporto non è dei migliori, soprattutto a causa della sua carente attitudine difensiva, con l’arrivo in panchina di Isiah Thomas, le cose cambiano: nel 2006/07 Curry disputa la sua miglior stagione, con 19,5 punti e 7 rimbalzi di media (entrambi record carriera). Non dura però molto: l’anno dopo si presenta al training camp in cattiva forma fisica, e l’anno dopo fa peggio ancora: Mike D’Antoni, nuovo coach dei Knicks, decide di escluderlo completamente dalle rotazioni. Così, anche a causa di un infortunio al ginocchio, in due stagioni gioca appena dieci partite (3,1 punti e 1,7 rimbalzi). Ceduto ai T-Wolves, viene subito tagliato; otto mesi dopo, nel dicembre 2011, firma per gli Heat, con i quali vince il titolo NBA, ma non proprio da protagonista: in stagione gioca solo 14 mediocri partite, e nei Playoffs non mette nemmeno piede in campo. In estate firma per gli Spurs, ma viene tagliato prima dell’inizio della stagione; va così a Dallas ma gioca solo due gare, le ultime di una carriera NBA durata undici stagioni, di cui sei buone, una così così (la prima, da rookie) e quattro disastrose. In totale, le sue medie carriera parlano di 12,9 punti con il 54,5% dal campo, 5,2 rimbalzi e 0,7 stoppate. Nel 2012 decide di tentare la sorte in Cina, con i Zhejiang Golden Bulls, giocando un’ottima stagione prima di ritirarsi.

12. Vladimir Radmanovic (F, 208 cm, Seattle Supersonics)
Tiratore letale, alto e grosso ma anche lento e non particolarmente dinamico, attaccante monotematico e difensore mediocre a essere buoni, Radmanovic è sempre stato un giocatore controverso, con molti alti e bassi sia nel suo gioco che all’interno di una stagione. I Sonics lo scelgono con la dodicesima chiamata perché, comunque, un tiratore del genere di 208 cm non si può lasciar scappare. Dopo una stagione “interlocutoria” (ma viene comunque incluso nel secondo quintetto dei migliori rookie), chiude le successive tre annate a Seattle sempre in doppia cifra nei punti segnati. È così che si guadagna un’offerta da 42 milioni in sei anni, che però rifiuta per poter sondare il mercato da free agent. I Sonics lo cedono così a metà stagione ai Clippers, ma in estate il serbo firma per l’altra squadra di Los Angeles, i Lakers, che gli promettono un posto in quintetto e circa 31 milioni in cinque anni. In realtà, nei due anni e mezzo in maglia gialloviola, parte in quintetto meno della metà delle volte, e anche il suo contributo è quello di un comprimario: Radmanovic tira sì con il 40% da tre, ma con una produzione offensiva ben al di sotto della doppia cifra di media. Nel febbraio del 2009 viene così ceduto ai Bobcats, dove rimane due mezze stagioni, per poi passare a Golden State, Atlanta e Chicago, con cifre costantemente in calo. A Chicago gioca appena 25 partite a meno di 6 minuti di media; nell’ottobre del 2013 opta quindi per il ritiro, chiudendo una carriera di dodici anni in NBA con medie di 8 punti, 3,8 rimbalzi, 1,4 assist e il 38% da tre: cifre non esaltanti per una dodicesima scelta a cui, forse, è sempre mancata un po’ di sana cattiveria agonistica.

18. Jason Collins (C, 213 cm, New Jersey Nets)
Diciamolo subito, la carriera NBA di Jason Collins è stata più che marginale, soprattutto se si considera che è stato scelto al n. 18: insomma, si sperava che fosse, se non un prospetto di primo piano, almeno un solido giocatore di complemento. Collins, invece, ha fatto molto, molto meno, ma gli va riconosciuto il merito di essere riuscito a ritagliarsi un suo ruolo nella Lega per ben tredici stagioni (3,6 punti, 3,7 rimbalzi in 20,4 minuti di media), sfruttando al meglio l’unica arma a sua disposizione: il fisico, usato per difendere duro e fare falli. Centro di 213 cm per quasi 120 kg, efficace (talvolta) in attacco solo dopo rimbalzo offensivo, dopo sei stagioni ai Nets (la migliore delle quali, la quarta, a 6,4 punti e 6,1 rimbalzi di media) ha girovagato tra Memphis, Minnesota, Atlanta, Boston, Washington e Brooklyn, senza mai andare oltre i 15 minuti di impiego a partita. Il momento di maggior fama nella sua carriera è stato nell’aprile del 2013, quando ha dichiarato la sua omosessualità sulla rivista “Sports Illustrated”, primo atleta professionista americano a farlo pubblicamente. Scatenando, ovviamente e tristemente, una serie di polemiche, tra le quali, all’inizio della stagione 2013/14, quella che voleva che Collins faticasse a trovare un contratto a causa, appunto, di tali dichiarazioni. A nostro parere, nessuno voleva il buon Jason perché, oltre che scarso, aveva ormai 35 anni: non a caso, una volta firmato con Brooklyn, il suo contributo nelle ultime 22 partite della sua carriera è stato di 1,1 punti e 0,9 rimbalzi a gara.

Raül López durante il suo periodo ai Jazz (Foto: elpais.com)

Raül López durante il suo periodo ai Jazz (Foto: elpais.com)

24. Raül López (PG, 182 cm, Utah Jazz)
A differenza delle tre guardie scelte appena prima di lui, López ha dimostrato di poterci stare, in NBA, ma dopo due stagioni discrete e nulla più ha preferito tornare a recitare un ruolo da protagonista in Europa. Cresciuto nello Joventut, gioca una stagione al Real Madrid prima di venire scelto dai Jazz al draft. Rimane in Spagna un’altra stagione, e a settembre del 2002 firma con la squadra dello Utah, saltando però l’intera stagione per un’operazione al legamento crociato del ginocchio destro. Pienamente recuperato, nell’annata 2003/04 gioca tutte le 82 partite, con 7 punti e 3,7 assist di media come play di riserva. Un nuovo infortunio, stavolta al ginocchio sinistro, ne limita l’utilizzo nella stagione successiva, e alla fine dell’anno i Jazz lo cedono ai Grizzlies in quella che, al momento, è la trade più grande della storia della NBA (tredici giocatori e cinque squadre coinvolte). I Grizzlies lo tagliano e López, invece che cercare un’altra squadra in NBA, decide di accettare la lauta offerta di Girona, che lo riporta così in patria. L’anno dopo torna al Real Madrid, dove rimane per tre stagioni, vincendo il campionato e la ULEB Cup; con la Nazionale spagnola vince l’argento alle Olimpiadi di Pechino nel 2009 e l’Europeo nel 2009, per poi seguire coach Sergio Scariolo nella sua squadra di club, il Khimki, in Russia, dove rimane per due stagioni vincendo la VTB League nel 2011. Nell’estate dello stesso anno torna in patria, firmando a Bilbao, dove tuttora è il playmaker titolare.

2º Giro

Stelle a sorpresa: chi li ha scelti al secondo giro ha avuto davvero un colpo di genio (o di fortuna…)

30. Gilbert Arenas (G, 191 cm, Golden State Warriors)
Gilbert Arenas è uno degli steal of the draft più clamorosi di sempre. Uscito in anticipo dal college dopo due anni ad Arizona, gli addetti ai lavori in realtà non lo considerano granché: la solita guardia nel corpo di un playmaker. Così, Gilbert scivola alla chiamata n. 30 e finisce ai Warriors, già ben coperti in quel ruolo. Dopo una prima parte di stagione quasi senza vedere il campo (2,5 punti in 4 minuti a partita), da metà febbraio inizia ad avere minuti da playmaker: non è il suo ruolo, ma Arenas vuole giocare e dimostrare quanto vale, e fa di necessità virtù, chiudendo la stagione con 10,9 punti e 3,7 assist di media. Già non sarebbe male per una seconda scelta, ma è l’anno successivo che Arenas esplode, vincendo anche il titolo di Most Improved Player grazie a 18,3 punti, 4,7 rimbalzi e 6,3 assist in 35 minuti di media, giocando tutte le 82 partite come playmaker titolare. A fine stagione Washington gli offre un contratto da 60 milioni in sei anni, e Gilbert non può dire di no. Rimane ai Wizards per sette stagioni e mezzo, durante le quali diventa una stella di prima grandezza nella Lega, con tre convocazioni all’All-Star Game (una in quintetto), una stagione da 29,3 punti di media (quattro abbondantemente oltre i 20), un’inclusione nel secondo miglior quintetto della stagione e due nel terzo. Verso la fine della stagione 2006/07, però, il suo ginocchio fa crac, e nei successivi tre anni Arenas giocherà in totale appena 47 partite. Ciò nonostante, i Wizards lo rinnovano con un contratto da 111 milioni in sei anni; tuttavia, qualcosa in Gilbert si è rotto, e non è solo il ginocchio: il 1º gennaio 2010, infatti, Arenas e il suo compagno di squadra Javaris Crittenton, in seguito a un diverbio relativo a debiti di gioco, sfoderano le rispettive pistole negli spogliatoi, puntandosela uno alla faccia dell’altro. L’episodio finisce senza drammi, ma ovviamente la società e la NBA non possono restare a guardare: il commissioner David Stern lo sospende per tutta la stagione, mentre i Wizards, l’anno dopo, dopo 24 partite lo cedono ai Magic, in cui però parte dalla panchina alle spalle di Jameer Nelson. È fuor di dubbio che ormai i migliori anni della sua carriera siano ben lontani: un anno dopo, nel dicembre 2011, i Magic lo tagliano utilizzando la amnesty clause; in marzo firma come free agent per i Grizzlies, ma anche lì il suo ruolo è quello di backup di Mike Conley e i minuti a disposizione appena 12 a partita. La sua carriera in NBA è al capolinea e, dopo un anno in Cina, con gli Shanghai Sharks, Agent 0 decide di ritirarsi definitivamente. Le sue medie carriera nella NBA parlano di 20,7 punti, 3,9 rimbalzi, 5,3 assist e 1,6 recuperi in undici stagioni; si poteva scegliere decisamente di peggio al secondo giro del draft…

Mehmet Okur, ottima scelta al secondo giro (Foto: yukle.tc)

Mehmet Okur, ottima scelta al secondo giro (Foto: yukle.tc)

37. Mehmet Okur (PF-C, 211 cm, Detroit Pistons)
Al momento del draft, Okur era considerato come uno dei tanti big men stranieri che spesso destano interesse negli scout americani (di solito gli africani per il fisico e l’atletismo, gli europei per la tecnica e il tiro da fuori). Scelto dai Pistons a secondo giro inoltrato, Okur rimane un anno in Turchia, dove vince da protagonista il campionato con l’Efes Pilsen, prima di sbarcare in NBA. Il primo anno a Detroit è di assestamento, anche se già fa intravedere di poter fare bene, mentre al secondo anno è uno degli attori principali della squadra che vince il titolo NBA (anche se nei Playoffs il suo minutaggio praticamente si dimezza). Detroit non ha abbastanza spazio salariale per trattenerlo, così il centro turco firma per gli Utah Jazz a 50 milioni in sei anni, diventandone uno degli uomini chiave (nella seconda stagione sfiora la doppia doppia di media con 18 punti e 9,1 rimbalzi), guadagnandosi anche la chiamata all’All-Star Game nel 2007. Nel 2009 prolunga il suo contratto con i Jazz, ma un anno dopo si rompe il tendine d’Achille durante la prima gara di Playoffs, infortunio che gli impedisce anche di partecipare ai Mondiali nella sua Turchia in estate. L’anno dopo gioca solo tredici partite, mentre nel 2011, dopo una breve parentesi al Türk Telekom Ankara durante il lockout, viene ceduto ai Nets in cambio di una futura seconda scelta. Dopo solo 17 mediocri partite viene nuovamente ceduto, stavolta ai Blazers, che lo tagliano qualche giorno dopo senza farlo nemmeno scendere in campo; pochi mesi dopo, Okur annuncerà il suo ritiro, a soli 33 anni, a causa dei ricorrenti problemi fisici. Nella sua carriera NBA, durata dieci stagioni, ha tenuto medie di 13,5 punti, 7 rimbalzi e 1,7 assist in 29,1 minuti: cifre ottime per una scelta così bassa.

Onesti mestieranti: scelti al secondo giro, si sono costruiti una (più o meno) solida carriera NBA.

29. Trenton Hassell (SF, 196 cm, Chicago Bulls)
Talento offensivo limitato e fisico inadatto per giocare nel suo ruolo in NBA (al college giocava spesso addirittura da ala forte), la prima scelta del secondo giro è riuscito a costruirsi una solida carriera NBA come specialista difensivo con intelligenza, cuore e consapevolezza dei suoi mezzi. Scelto da Chicago, gioca un’ottima stagione da rookie ma dimezza le sue cifre al secondo anno e si “guadagna” il taglio prima dell’inizio della terza stagione. Firma così per i T-Wolves, dei quali diventa un membro più o meno fisso dello starting five per quattro stagioni, specializzandosi come difensore efficace su guardie e ali avversarie (nella terza stagione segna anche 9,2 punti di media, il massimo in carriera). Ceduto ai Mavs nel 2007 e poi ai Nets l’anno dopo, la sua carriera inizia la fase di declino, anche se, dopo due stagioni difficili, nelle ultime due in New Jersey torna a giocare intorno ai 20 minuti a partita. Poi, a sorpresa, non trova più spazio nella Lega, chiudendo di fatto la sua carriera dopo nove stagioni a 5,8 punti, 2,8 rimbalzi e 1,8 assist in 25,3 minuti di media. Non male per un giocatore scelto al secondo giro, anche se ai Bulls continueranno a mangiarsi le mani pensando che tale Gilbert Arenas è stato scelto al pick successivo. Hassell tornerà brevemente in campo nel 2011, con la maglia dei Clarksville Cavaliers nella ABA; molto brevemente, a dire la verità, visto che la squadra chiuderà i battenti dopo una sola partita giocata.

Trova le differenze

Trova le differenze

34. Brian Scalabrine (PF, 206 cm, New Jersey Nets)
Includere Brian Scalabrine tra gli “onesti mestieranti” non è solo riduttivo, è quasi irrispettoso: clamorosamente sprovvisto di ogni parvenza di qualità atletica, ma dotato di un Q.I. cestistico di primo livello, di un ottimo tiro da fuori e di buone mani per passare la palla, Scalabrine non si è solo costruito una più che solida carriera da role player, ma si è anche trasformato in una sorta di idolo delle folle, tanto da venire soprannominato White Mamba, riprendendo il soprannome nientemeno che di Kobe Bryant (Black Mamba). Scelto dai Nets, ne veste la maglia per quattro stagioni, ma solo nell’ultima trova davvero spazio (21,6 minuti, in cui contribuisce con 6,3 punti, 4,5 rimbalzi e 1,6 assist), tanto che in estate i Celtics si convincono a firmarlo addirittura con un quinquennale da 15 milioni. Nelle cinque stagioni a Boston non va mai oltre i 19 minuti di media della seconda stagione, ma si conferma come elemento affidabile nelle rare volte in cui viene chiamato in causa (di certo, però, questo non basta a “giustificare” il contrattone offertogli dai Celtics). Nel 2010 firma da free agent per i Bulls, ma gioca poche partite e pochissimi minuti; l’anno dopo, durante il lockout, veste per qualche mese la maglia della Benetton Treviso, dopodiché, quando la stagione NBA ha inizio, firma di nuovo per i Bulls, disputando l’ultima stagione della sua carriera. Una carriera che, in maniera per certi versi sbalorditiva, è durata undici stagioni, a 3,1 punti, 2 rimbalzi e 0,8 assist di media, oltre a un titolo NBA vinto con la maglia dei Celtics nel 2008. Dopo il ritiro ha fatto per un anno l’opinionista per le gare dei Celtics su una rete TV privata, poi è passato ai Warriors come assistente allenatore, ma dopo dei dissapori con coach Mark Jackson è tornato a lavorare in TV a Boston, annunciando il suo ritorno a casa parodiando la famosa lettera su “Sports Illustrated” di LeBron James sul suo ritorno a Cleveland. L’annuncio del White Mamba finiva con: “I’m ready to accept the Scallenge. Boston, I’m coming home”. L’abbiamo già detto: idolo assoluto.

39. Earl Watson (PG, 185 cm, Seattle Supersonics)
Scelto senza grandi aspettative dai Sonics dopo una buona carriera a UCLA, a Seattle trova poco spazio e dal secondo anno finisce a Memphis, dove in tre stagioni guadagna gradualmente sempre più spazio come point guard di riserva, sfruttando buone doti di playmaking e un ottimo tiro dalla media. Dopo una parentesi a Denver, torna a Seattle, stavolta con molto più spazio a disposizione, tanto che nella stagione 2007/08 è il playmaker titolare, e chiude con 10,7 punti e 6,8 assist di media. L’anno dopo segue la franchigia a Oklahoma City, ma non è più in quintetto e, nonostante i suoi minuti non diminuiscano più di tanto, la sua produzione offensiva ne risente considerevolmente. Tagliato a fine stagione, si accasa ai Pacers, dove gioca una buona stagione partendo spesso in quintetto. L’anno dopo firma per i Jazz, dove rimane per tre anni trasformandosi sempre di più in un role player per mettere ordine in uscita dalla panchina; nel 2013 firma per i Blazers, ma al termine della sua peggior stagione in carriera decide di ritirarsi, diventando assistente allenatore prima agli Austin Toros nella NBDL e poi, dal 2015, ai Phoenix Suns. Nei suoi tredici anni di carriera ha tenuto medie di 6,4 punti, 2,3 rimbalzi, 4,4 assist e 1 recupero in 22,2 minuti.

41. Bobby Simmons (SF, 201 cm, Washington Wizards)
Scelto dai Sonics ma subito mandato ai Wizards, nelle due stagioni a Washington trova poco spazio, finendo per qualche gara anche ai Mobile Revelers, nella NBDL. Alla fine del primo anno viene ceduto ai Pistons, che però lo tagliano subito; due settimane dopo, Simmons firma di nuovo per i Wizards, ma lo spazio a sua disposizione rimane più o meno lo stesso che nell’anno da rookie. Le cose cambiano nel 2003 con il passaggio ai Clippers: al primo anno raddoppia minuti giocati e punti segnati, e al secondo esplode definitivamente, chiudendo con 16,4 punti, 5,9 rimbalzi e 2,7 assist come ala piccola titolare, cifre che gli valgono il titolo di Most Improved Player. In estate firma da free agent per i Bucks, ma le sue cifre, pur restando sopra la doppia cifra, calano lievemente. Un infortunio alla caviglia lo costringe a saltare l’intera stagione 2006/07, e al suo ritorno in campo non riesce più a esprimersi agli stessi livelli di un paio di anni prima. Gioca un’ultima stagione ai Bucks e due ai Nets, con cifre mediocri, e nel 2010 compare solo per un paio di partite in maglia Spurs prima di venire tagliato. Torna in campo nel 2011, in D-League, con i Reno Bighorns, e l’anno dopo firma nuovamente con i Clippers, ma ormai il suo declino è alla fase conclusiva. Chiuderà la carriera, dopo dieci stagioni in NBA, con 9 punti, 3,8 rimbalzi e 1,5 assist, sfiorando il 40% da tre, in 24,7 minuti di media.

I gemelli Collins in campo e... dopo il coming out di Jason (Foto: rollingout.com e nydailynews.com)

I gemelli Collins in campo e… dopo il coming out di Jason (Foto: rollingout.com e nydailynews.com)

52. Jarron Collins (C, 211 cm, Utah Jazz)
Fratello gemello di Jason, scelto al n. 18 in questo stesso draft, Jarron finisce molto più in basso perché, nonostante un fisico sostanzialmente identico, ha meno talento. In realtà, poi, la loro carriera sarà tutto sommato molto simile: scelto dai Jazz, ci rimane per ben otto stagioni, iniziando come centro di riserva, con un discreto minutaggio (sui 20 minuti a partita per i primi cinque anni). Si accontenta di fare il lavoro sporco e difendere duro senza mai chiedere palla in attacco, ma quando ai Jazz arriva Paul Millsap il lungo “sacrificato” per fargli spazio in rotazione è proprio lui, che, da role player, diventa un mero corpaccione con sei falli da spendere e da mettere in campo quando c’è bisogno di dare legnate. Nel 2009 diventa free agent e, dopo aver fatto la pre-season con i Blazers, viene tagliato e firma quindi con i Suns, dove però il suo ruolo rimane pressoché lo stesso. L’anno dopo firma un paio di contratti decadali ai Clippers e un altro paio ai Blazers, e al termine della stagione si ritira, con medie simili a quelle del fratello: 3,9 punti e 2,9 rimbalzi in 15,8 minuti di media. Inizia quindi a lavorare come scout per i Clippers; poi, dal 2014 entra a far parte del coaching staff dei Warriors e nel 2015 viene promosso assistente.

Curiosità

Sono sette i giocatori scelti al draft del 2001 ad aver vinto almeno un titolo NBA: Tyson Chandler, Pau Gasol, Eddy Curry, Shane Battier, Tony Parker, Brian Scalabrine e Mehmet Okur.