Cos’è Busts&Steals? Semplificando, all’interno del mondo del Draft NBA, un bust è un giocatore che, a dispetto delle alte aspettative su di lui nel momento in cui viene scelto, fallisce poi (più o meno) clamorosamente sul campo, scomparendo in tempi (più o meno) brevi dal panorama NBA. Uno steal invece è, per certi versi, l’esatto contrario: un giocatore su cui, al momento del draft, nessuno avrebbe puntato un centesimo e che poi, spesso sfruttando occasioni e situazioni propizie per mettere in mostra il suo talento, stupisce tutti costruendosi un ruolo (talvolta di primo piano) nella Lega. Insomma, il draft non è una scienza esatta, è risaputo, ma proprio qui sta il suo fascino.

Ripercorreremo quindi la storia di otto draft recenti alla ricerca di busts e steals: che fine hanno fatto le prime scelte sparite quasi subito dai parquet NBA? E chi sono quei giocatori che invece, scelti al secondo giro ed entrati nella Lega in punta di piedi, ne sono poi diventati protagonisti? È questo lo scopo di questa rubrica, che,dopo il Draft 1998, il Draft 1999, il Draft 2000, il Draft 2001, il Draft 2002, il Draft 2003 e il Draft 2004, giunge alla sua ultima puntata con il Draft 2005. Buon divertimento e… a prestissimo con una grande novità!

Draft 2005

draft05

Se si volesse scegliere, tra i vari draft, uno che dimostri davvero che “non è una scienza esatta”, il principale candidato sarebbe probabilmente il Draft 2005. Tra le prime 10 scelte, solo due giocatori sono diventati campioni riconosciuti (il n. 3 Deron Williams e il n. 4 Chris Paul), mentre i restanti otto si dividono, complice anche qualche infortunio, tra fallimenti totali, buoni giocatori scelti però troppo in alto e  semplici role player. Nelle scelte tra la 10 e la 20 va forse ancora peggio: nessuno, oltre al n. 17 Danny Granger e al n. 18 Gerald Green (che pure qualche periodo “buio” l’ha vissuto), è riuscito a costruirsi una carriera NBA degna di questo nome. Paradossalmente, le cose cambiano andando avanti: tra la 20 e la 30 sono infatti stati scelti Nate Robinson (n. 21), Jarrett Jack (n. 22), Francisco García (n. 23), Jason Maxiell (n. 26), Linas Kleiza (n. 27), Ian Mahinmi (n. 28) e David Lee (n. 30), tutti giocatori che hanno o hanno avuto una più o meno solida carriera nella Lega, coerente con la loro posizione di scelta (a parte David Lee, diventato All-Star).
Ma c’è di più: tanti, tantissimi giocatori scelti al secondo giro hanno avuto carriere di gran lunga migliori di prospetti molto più quotati. Su tutti Monta Ellis (n. 40), paragonabile come carriera alla quinta scelta Raymond Felton, e Marcin Gortat (n. 57), giocatore diverso ma considerabile più o meno del valore addirittura della prima scelta Andrew Bogut, e comunque scelta clamorosa se si pensa che Fran Vázquez (n. 11) non ha mai messo piede negli USA. Insomma, questo Draft 2005 ha dato molte soddisfazioni, se non ai GM della NBA almeno all’autore di questa rubrica…

1º giro

Flop totali: sono scomparsi dalla NBA

Ike Diogu con la maglia nella Nigeria (Foto: InterAksyon)

Ike Diogu con la maglia nella Nigeria (Foto: InterAksyon)

9. Ike Diogu (PF/C, 206 cm, Golden State Warriors)
Considerato come una sorta di Ben Wallace dal maggiore talento offensivo, viene scelto dai Warriors dopo tre buoni anni ad Arizona State, in cui si mette in mostra come un’ala forte dal fisico solido, anche se non molto alto per il ruolo, e dal talento naturale per i rimbalzi. Anche nei non irresistibili Warriors, però, fatica a trovare minuti e continuità, chiudendo l’anno con soli 7 punti e 3,3 rimbalzi di media. Paradossalmente, rimarranno le sue migliori statistiche in carriera. L’anno dopo, a metà stagione, viene spedito a Indiana, che un anno e mezzo dopo a loro volta lo cede a Portland. Dopodiché, tra il 2009 e il 2012 veste anche le maglie di Kings, Clippers e Spurs (e non veste quelle di Hornets e Pistons, nel senso che viene tagliato senza mai scendere in campo), saltando addirittura l’intera stagione 2009/10 perché nessuna squadra gli dà un contratto. In 6 stagioni le sue medie parlano di 6 punti e 3,1 rimbalzi in 12,4 minuti: poco, pochissimo per una nona scelta assoluta. Così, Diogu decide di “monetizzare” altrove, e nello specifico in Cina e a Puerto Rico, i cui campionati si giocano in periodi diversi e gli permettono, perciò, di firmare due contratti stagionali all’anno. Nel frattempo, in estate prova sempre a rientrare nella NBA, ma Suns e Knicks lo tagliano prima dell’inizio del campionato, mentre nel 2013/14 è tra i migliori in NBDL con i Bakersfield Jam. Attualmente è ancora in Cina con la maglia dei Guangdong Southern Tigers, con cui si diverte ad accumulare numeri che probabilmente molti, nel 2005, speravano potesse collezionare nella NBA. Nativo di Buffalo ma originario della Nigeria, con la maglia della Nazionale ha vinto il FIBA African Championship nel 2015 e partecipato alle Olimpiadi di Londra 2012.

11. Fran Vázquez (PF/C, 208 cm, Orlando Magic)
Vicenda controversa, quella legata a questo lungo spagnolo che, cresciuto tra Unicaja Málaga, Bilbao Basket e Gran Canaria, convince i Magic a sceglierlo all’undicesima posizione (alcuni pensavano a lui addirittura nella top 10), grazie a un mix di talento naturale per rimbalzi e stoppate, aggressività, mani educate e fondamentali introvabili nei coetanei pariruolo americani. Il problema, non da poco in effetti, è che Vázquez, nonostante avesse fatto credere il contrario, decide di non andare in NBA: «Capisco la delusione dei tifosi di Orlando, ma ho deciso di restare in Spagna per migliorare. Voglio andare nella NBA, ma solo quando sarò pronto» dichiarerà un paio di mesi dopo il draft. A questa motivazione piena di buoni propositi si aggiungono i non pochi euro che gli offre Girona, che, forte della nuova sponsorizzazione con l’immobiliare Akasvayu, lo rende il giocatore più pagato di tutta la ACB. Un anno dopo passa al Barcelona, con cui rimarrà per sei stagioni, conseguendo record personali (record di stoppate – 12 – in una partita, sesto giocatore nella storia della ACB a realizzare una tripla doppia, incluso nel miglior quintetto nel 2009) e vittorie di squadra (tre campionati, una Eurolega, tre Copas del Rey, di cui una da MVP, tre supercoppe). Nel 2012 torna a Málaga, dove rimane fino al 2016, quando firma un biennale con l’Iberostar Tenerife. A Orlando di lui rimane solo la consapevolezza di aver buttato via una buona scelta nel draft.

12. Yaroslav Korolev (F, 208 cm, Los Angeles Clippers)
Se i Magic hanno sprecato una scelta con Vázquez, di sicuro i Clippers non hanno fatto molto meglio subito dopo, pescando questa ala russa proveniente dal CSKA affascinati dalla sua altezza combinata a rapidità, ball-handling e un talento offensivo fuori dal normale. Tuttavia, nei primi e unici due anni in NBA, Korolev gioca solo 34 partite, per 168 minuti e 39 punti totali: il classico esempio di giocatore non pronto per la NBA e “bruciato” dopo aver passato due anni a bordo campo. Nel 2007 riparte da Mosca, sponda Dynamo, ma due anni dopo riprova a entrare nella NBA passando dalla porta di servizio, ovvero dalla NBDL, senza grandi esiti. Così, dal 2010 torna stabilmente in Europa, giocando in squadre mediocri tra Spagna (Granada, San Sebastián), Russia (Spartak San Pietroburgo) e Grecia (Panionios, Rethymno). Nel 2016 scende addirittura nella seconda serie spagnola, firmando con Navarra, nonostante, almeno dal punto di vista anagrafico (è classe ’87), non sia ancora nella fase declinante della sua carriera. Altrettanto significativo è il fatto che non abbia mai vestito la maglia della Nazionale russa.

Sean May non proprio in forma a Parigi (Foto: Wikimedia Commons)

Sean May non proprio in forma a Parigi (Foto: Wikimedia Commons)

13. Sean May (PF, 206 cm, Charlotte Bobcats)
Tanta sfortuna per il figlio di Scott May, ala piccola vista in Italia (Brescia, Torino, Roma e Livorno) negli anni ’80: Sean è un’ala forte che, nonostante qualche centimetro di svantaggio rispetto a molti pariruolo e la tendenza a metter su peso, ha forza fisica, intelligenza cestistica e movimenti in post basso per poter dire comunque la sua nella NBA. O almeno così credono i Bobcats, che lo scelgono dopo tre anni a North Carolina (con titolo NCAA vinto nel 2005 come miglior giocatore delle finali) pensando a lui come a un nuovo Elton Brand. La prima stagione inizia tutto sommato discretamente (8,2 punti e 4,7 rimbalzi in 17,3 minuti di media), ma dura solo 23 partite a causa di un infortunio. L’anno dopo statisticamente va ancora meglio (11,9 punti, 6,7 rimbalzi, 1,9 assist), ma nuovi problemi fisici gli permettono di scendere in campo solo 35 volte. In estate decide di sottoporsi a un intervento chirurgico al ginocchio, ma i postumi dell’operazione lo tengono lontano dal parquet per tutta la stagione e, quando torna in campo nell’ottobre del 2008, è ormai un altro giocatore, ai margini delle rotazioni di Charlotte, che infatti non rinnova il suo contratto. Nel 2009 passa così ai Kings, ma la musica non cambia e May è costretto ad accettare il fatto di essere ormai un ex giocatore NBA (4 stagioni a 6,9 punti e 4 rimbalzi in 15,7 minuti di media, ma in sole 119 partite in totale). Vola quindi oltreoceano, giocando qualche partita tra Turchia (Fenerbahçe), Croazia (KK Zagabria), Italia (Montegranaro) e, ormai ben oltre i 120 kg, Francia (Paris-Levallois, Rouen e Orléans), fino al 2015.

14. Rashad McCants (SG, 193 cm, Minnesota Timberwolves)
Compagno di college di May (oltre che di Felton e di Marvin Williams, scelti prima di lui), la loro carriere in NBA sono state tristemente simili. Tiratore micidiale ma dotato anche di un discreto atletismo, la prima stagione in maglia T-Wolves va piuttosto bene, con quasi 8 punti di media uscendo dalla panchina, seppur con un modesto 37% da tre, ma al secondo anno diversi problemi fisici gli fanno saltare oltre 40 partite. La sua miglior stagione è quella 2007/08: membro fisso e importante della rotazione, ripaga con quasi 15 punti di media e il 40% da tre. L’anno dopo, però, lo spazio a sua disposizione misteriosamente diminuisce e addirittura a febbraio viene ceduto ai Kings, con cui termina la stagione senza poi essere confermato. Da sempre considerato un carattere difficile, non trova più posto nella NBA: firma prima con i Rockets, che però lo tagliano adducendo come motivazione un infortunio ai muscoli addominali, e poi, un anno dopo, con i Mavs, con cui però non va oltre il training camp. Nessuno lo dice apertamente, ma i problemi di McCants non sono fisici, bensì caratteriali, come farà capire lui stesso, anni dopo, in un’intervista a “Ball is Life”: «Nessuno conosce la mia reale capacità di giocare a basket. Anche nei migliori anni della mia carriera, sia al college che nella NBA, ho sempre giocato in sistemi di gioco troppo rigidi, in cui un giocatore del mio livello deve cercare di limitare il suo talento per il bene della squadra e della tradizione del college o della società […] Nella mia carriera ho potuto usare solo il 45-50% di quello che so fare […] Le squadre con cui ho fatto dei workout mi hanno detto: ‘Rashad, le squadre in cui hai giocato non ci hanno parlato molto bene di te’ […] Il coach dei Mavs, Rick Carlisle, ha voluto che parlassi con i medici della squadra per valutare se soffrissi di instabilità mentale». Così, dopo essere rimasto fermo un anno, McCants riparte dalla NBDL con i Texas Legends e, una volta compreso che le porte della NBA per lui sono chiuse per sempre (in totale 4 stagioni a 10 punti, 2 rimbalzi e 1,3 assist in 20,2 minuti di media con poco meno del 37% da tre), inizia a portare a spasso il suo talento per Puerto Rico, Filippine, Cina, Brasile, Libano, Venezuela e Repubblica Dominicana. Al momento è senza squadra.

15. Antoine Wright (SG/SF, 201 cm, New Jersey Nets)
La carriera di questa ala proveniente da Texas A&M sarebbe stata perlomeno dignitosa se solo fosse stata scelta tra primo e secondo giro. Invece, come quindicesima scelta, è stato un flop senza possibilità di appello: scelto dai Nets, vi rimane per due stagioni e mezzo, con un rendimento in crescendo ma ampiamente insufficiente (7 punti a partita nell’ultima mezza stagione). Anche a Dallas trova poco spazio e dopo un anno e mezzo prova a rilanciare la sua carriera a Toronto, ma anche lì non va oltre i 6,5 punti a partita. Il problema di fondo è che si tratta di un tiratore che però, nella NBA, fatica parecchio a fare canestro, forse anche per il fatto che non può disporre di tutti i palloni che riceveva al college. La sua esperienza nella Lega si chiude con 7 partite ai Kings nel 2010, dopo cinque stagioni e poco più a 5,4 punti e 2,3 rimbalzi in 19,2 minuti di media, con il 41% dal campo e il 30% da tre. La sua seconda metà di carriera la passa tra Cina, Spagna, Venezuela, Israele e Filippine, esperienze intervallate, di tanto in tanto, con qualche apparizione in D-League.

Joey Graham in acrobazia con la maglia di Toronto (Foto: China Economy Net)

Joey Graham in acrobazia con la maglia di Toronto (Foto: China Economy Net)

16. Joey Graham (SF, 201 cm, Toronto Raptors)
Pur diverso come caratteristiche tecniche da Wright, scelto appena prima di lui, Joey Graham ha avuto una carriera per certi versi simile: solo 6 stagioni nella NBA (le prime 4 a Toronto, poi Denver e Cleveland) a 5,9 punti e 2,8 rimbalzi in 16,2 minuti di media. Non un disastro totale, ma troppo poco per una scelta di metà primo giro. Rapido, esplosivo e forte fisicamente, ma dotato anche di un discreto tiro dalla media, non è riuscito a superare i suoi difetti (ball-handling e gioco oltre l’arco in particolare) per ritagliarsi un suo spazio nella NBA, cosa che avrebbe potuto fare se anche solo avesse avuto un minimo di voglia di utilizzare un fisico come il suo nella metà campo difensiva. Dopo il 2010 ha giocato brevemente nella D-League e più a lungo a Puerto Rico, ma è dal 2013 che non si hanno sue notizie.

20. Julius Hodge (G, 201 cm, Denver Nuggets)
Atipico playmaker d’ordine al college, ma non nella NBA, dove non avrebbe potuto avere la meglio con pariruolo più bassi e molto più rapidi, i Nuggets lo scelgono più in alto del previsto, vedendo in lui un giocatore intelligente, con un discreto tiro dalla media (ma non da oltre l’arco) e che dà sempre il 100%. Che, però, non è abbastanza, anzi: il primo anno vede il campo per 33 minuti in totale, oltre che la morte in faccia quando, in aprile, da una vettura che si affianca alla sua vengono sparati diversi colpi di arma da fuoco (arriverà poi in ospedale in tempo per non morire dissanguato); il secondo viene ceduto a metà stagione a Milwaukee, ma anche lì vede il campo con il cannocchiale e viene tagliato dopo un mese. La sua carriera NBA (con diverse parentesi in NBDL) si chiude così dopo sole 23 partite in 2 stagioni, chiuse a 1,2 punti e 0,8 assist in 4,3 minuti di media. Varca quindi l’oceano per sbarcare in Italia, prima a Varese e poi a Scafati; dopodiché, tre anni in Australia e poi l’inizio di una vera carriera da giramondo, che parte, non a caso, con i Trotamundos de Carabobo (Venezuela), per poi continuare in Cina, Iran, Bielorussia, Vietnam, Puerto Rico, Francia (al Paris-Levallois insieme a Sean May), Canada, Libano e Gran Bretagna. Non solo, quindi, una delusione in NBA, ma una carriera piuttosto modesta (e con frequenti difficoltà a essere pagato) anche in giro per il mondo e con la maglia della Nazionale di Antigua e Barbuda. Ritiratosi nel 2014, attualmente è Director of Player Development alla State University of New York di Buffalo.

Wayne Simien ai tempi del college (Foto: The Big 12 Basketball Blog)

Wayne Simien ai tempi del college (Foto: The Big 12 Basketball Blog)

29. Wayne Simien (PF, 206 cm, Miami Heat)
Dopo una carriera stellare a Kansas, questa ala forte dall’ottimo gioco vicino a canestro e dall’intelligenza cestistica sopra la media scivola fino alla penultima scelta del primo giro, più che altro per un atletismo non devastante. Ma in pochi mettono in dubbio che sappia giocare e che sia destinato a una lunga carriera nella NBA. Invece, la sua carriera non è stata né nella NBA, né lunga: scelto da Miami, vi gioca per due stagioni in cui rimane ai margini delle rotazioni (3,3 punti e 1,9 rimbalzi in 9,9 minuti di media), com’è comprensibile in una squadra di primo piano, vincendo da quasi spettatore il titolo nel 2006. Ceduto ai T-Wolves, viene tagliato prima dell’inizio della stagione. Dopo un anno di inattività, nel 2008 firma in Spagna, a Cáceres, ma a stagione conclusa decide di ritirarsi dalla pallacanestro professionistica per dedicarsi alla carriera ecclesiastica.

Mezze delusioni: hanno reso molto meno del previsto

1. Andrew Bogut (C, 213 cm, Milwaukee Bucks)
È difficile definire la carriera di questo centrone australiano che ha dominato a livello di college con Utah, venendo nominato giocatore dell’anno nel 2005 (oltre 20 punti e 12 rimbalzi di media). Da una parte, soprattutto guardando le cifre (in 11 stagioni ha finora tenuto medie di 10,3 punti, 8,9 rimbalzi, 2,3 assist e 1,6 stoppate), non si può certo dire che abbia mantenuto le aspettative “standard” per una prima scelta assoluta; dall’altra, però, non si può nemmeno parlare di totale delusione. Dotato di buoni movimenti spalle a canestro e di mani educate, oltre che di una visione di gioco che, già buona, nel tempo è migliorata ulteriormente, Bogut non è comunque mai riuscito a diventare una star, un punto di riferimento, un go-to guy, anche a causa di diversi problemi fisici che, seppur non siano la causa del suo rendimento sotto le aspettative, di sicuro non l’hanno aiutato. Scelto da Milwaukee, vi è rimasto per sette stagioni (chiudendone tre in doppia doppia di media), per poi essere ceduto a Golden State (con cui ha vinto il titolo nel 2015), dove ha trovato la sua dimensione come gregario di lusso, che porta sul parquet esperienza, rimbalzi, difesa e capacità di scaricare palla ai temibili tiratori dei Warriors, mentre in attacco le sue cifre sono calate sensibilmente. Nell’estate 2016 i Warriors lo cedono ai Mavericks per creare lo spazio salariale utile per firmare Kevin Durant.

2. Marvin Williams (F, 206 cm, Atlanta Hawks)
Prima del draft 2005 c’erano pochi dubbi sul fatto che le prime due scelte sarebbero state Andrew Bogut e Marvin Williams. Paradossalmente, entrambi nella NBA hanno deluso, e se l’australiano, come si è visto, col tempo è riuscito a trovare una sua dimensione, l’ala uscita da North Carolina (campione NCAA nel 2005) è rimasto la classica “eterna promessa” (lo si comparava addirittura a Tracy McGrady): non un giocatore del tutto fallimentare, ma un buon elemento che non ha mai saputo diventare ottimo. Scelto da Atlanta (dove ancora si mangiano le mani, pensando che avrebbero potuto scegliere Chris Paul o Deron Williams), gli Hawks lo “aspettano” addirittura per sette stagioni, nelle quali il meglio che riesce a produrre sono i 14,8 punti e 5,7 rimbalzi del suo terzo anno. Ceduto ai Jazz nel 2012, scende addirittura sotto la doppia cifra, mentre a Charlotte, dove arriva nel 2014, dopo una prima stagione mediocre migliora nella seguente, tornando a segnare quasi 12 punti a gara, più 6 rimbalzi. Tutto, però, molto lontano dall’essere un campione: finora, in 11 stagioni nella Lega, le sue cifre parlano di 10,5 punti, 5,2 rimbalzi e 1,3 assist di media.

5. Raymond Felton (G, 185 cm, Charlotte Bobcats)
Altro buon giocatore che però non è riuscito a “onorare” davvero il pick numero 5 con cui i Bobcats l’hanno scelto, subito dopo i suoi compagni di reparto Deron Williams e Chris Paul. Non molto alto ma solido fisicamente (il che faceva pensare a buone potenzialità come difensore, mai sviluppate), è sempre stato una point guard portata più ad attaccare il canestro che a mettere in ritmo i compagni, e così è stato per tutta la sua carriera da professionista, che finora conta 11 anni tra Charlotte (cinque stagioni, le migliori da un punto di vista statistico), Denver (21 partite), Portland (una stagione), New York (due stagioni e mezza) e Dallas (due stagioni) a 12,4 punti, 3,2 rimbalzi, 6 assist e 1,3 recuperi in 32,7 minuti di media. Nell’estate del 2016 ha firmato da free agent per i Clippers.

6. Martell Webster (SG/SF, 201 cm, Portland Trail Blazers)
Dichiaratosi per il draft senza passare dal college, ma fisicamente solido a differenza di molti suoi coetanei, Webster era considerato soprattutto un tiratore dalla lunga distanza, ma nella NBA questa sua qualità è emersa solo sporadicamente. Con il tempo, se non è migliorato nella continuità, è invece diventato uno swingman in grado di fare un po’ di tutto in campo, anche se spesso operando scelte rivedibili (rimarrà famosa la sua schiacciata in contropiede, sul -3, a 4.5 secondi dalla fine di un supplementare, vedi video qui sotto). Scelto dai Blazers, rimane a Portland per cinque stagioni, anche se salta la quarta per un grave infortunio al piede sinistro. Passato ai Timberwolves, vi gioca in pratica due mezze stagioni, sempre fermato da problemi fisici, stavolta alla schiena. Tagliato nel 2012, finisce ai Wizards, dove gioca la sua miglior stagione in carriera (poco più di 11 punti a partita con il 42% da tre), ma già l’anno dopo perde il posto da titolare e nella terza stagione nella capitale scende addirittura a 11 minuti a partita, sempre complici gli infortuni, che spingono Washington a tagliarlo nel novembre 2015. Da allora Webster è senza squadra; in 10 stagioni NBA ha tenuto medie di 8,7 punti e 3,1 rimbalzi con il 38% da tre in 24 minuti a partita: non un fallimento totale, ma decisamente troppo poco per una sesta scelta assoluta.

7. Charlie Villanueva (PF, 211 cm, Toronto Raptors)
Come abbiamo detto in apertura, è un draft difficile da giudicare, con un ampio gruppo di buoni/ottimi giocatori che per un motivo o per l’altro hanno avuto una carriera al di sotto delle aspettative oppure sono rimasti ad alto livello solo per poche stagioni. Villanueva fa parte di entrambi i gruppi, anche se forse più del secondo: scelto dai Raptors dopo due anni a Connecticut, gioca un’ottima stagione da rookie (13 punti e 6 rimbalzi a gara) sfruttando versatilità, atletismo e un discreto tiro da fuori, ma a fine anno viene mandato ai Bucks. A Milwaukee rimane per tre anni, con una stagione da oltre 16 punti e quasi 7 rimbalzi, senza però esplodere come molti speravano dopo l’ottima annata da rookie. Dopo la firma di un contratto da 40 milioni in 5 anni con i Pistons, paradossalmente, oltre a non esplodere, la carriera di Villanueva inizia la sua parabola discendente (a soli 25 anni): due stagioni intorno agli 11 punti a partita in uscita dalla panchina e poi altre tre con minutaggio e statistiche praticamente dimezzate. Esaurito il contrattone con i Pistons, si accorda con i Mavs, ma rimane ai margini delle rotazioni per due stagioni. In 11 anni in NBA ha accumulato 10,4 punti e 4,6 rimbalzi in 20,4 minuti di media; attualmente è senza squadra.

8. Channing Frye (PF/C, 211 cm, New York Knicks)
Continuiamo con Channing Frye, ennesimo giocatore dalla solida carriera NBA che sarebbe stato considerato un’ottima scelta se fosse stato chiamato una decina di posizioni più in basso. Invece, questa ala forte dalla netta dimensione perimetrale, ma anche buon rimbalzista e discreto stoppatore ad Arizona, viene scelto dai Knicks al n. 8 e ripaga con un’ottima stagione da rookie (oltre 12 punti e quasi 6 rimbalzi uscendo dalla panchina), salvo poi regredire una volta conquistato lo starting five la stagione dopo. Ceduto a Portland, viene utilizzato poco il primo anno e pochissimo il secondo, anche a causa di un problema alla caviglia. In estate lavora parecchio sul tiro da fuori, tanto che, nella prima stagione con i Suns, infila addirittura 172 triple con il 44% (contro le 20 totali, con il 29%, delle sue prime quattro stagioni), venendo anche chiamato per la gara del tiro da tre all’All-Star Game, primo centro dai tempi di Sam Perkins. A fine stagione rinnova con Phoenix con un quinquennale da 30 milioni e, contrariamente a ciò che succede di solito in questi casi, Frye disputa la miglior stagione in carriera, seppur a soli 12,7 punti, 6,7 rimbalzi e 1 stoppata di media con il 39% da tre. Dopo un’altra stagione in lieve calo, nell’estate 2012 scopre di avere un problema cardiaco, che lo costringe a saltare l’intera annata 2012/13. Un anno dopo ha il benestare dei medici per tornare in campo, e gioca la solita, solida stagione sempre con i Suns, per poi passare da free agent ai Magic (32 milioni in 4 anni), che dopo un anno e mezzo lo cedono ai Cavs. A Orlando fa registrare i minimi in carriera in punti e rimbalzi dai tempi di Portland, mentre a Cleveland, che lo voleva per la sua capacità di allargare il campo con il tiro da fuori, gioca discretamente in stagione, ma nei playoff, dopo un ottimo inizio, sparisce in pratica dalle rotazioni, giocando ben poco durante la finale poi vinta dai Cavs in rimonta dal 3-1 contro i Warriors. Al momento, in 10 stagioni nella NBA, Frye ha medie di 9,2 punti, 4,8 rimbalzi e 1 assist in 23,8 minuti, con il 38,6% da tre punti.

Andrew Bynum a Philadelphia in una foto che si commenta da sola (Foto: aol.com)

Andrew Bynum a Philadelphia in una foto che si commenta da sola (Foto: aol.com)

10. Andrew Bynum (C, 213 cm, Los Angeles Lakers)
Storia strana, quella di Andrew Bynum, in cui la sfortuna ha giocato una buona parte: uscito direttamente dalla high school, i Lakers lo scelgono a sorpresa con il pick n. 10, nonostante i molti dubbi su di lui. In primis, è il più giovane giocatore mai scelto al draft (non ha ancora compiuto diciotto anni), e di conseguenza viene ritenuto tutt’altro che pronto per la NBA; da un punto di vista fisico e tecnico, invece, dà l’impressione di essere lento e goffo, seppur dotato di un buon tocco e di una discreta corporatura, specie se relazionata all’età. Insomma, gli scout lo dipingono come un potenziale buon centro di riserva, ma i Lakers ci provano comunque. E non si può dire che vada male: dopo una stagione in cui rimane comprensibilmente a guardare, già al secondo anno dimostra che in campo ci può stare, eccome (7,8 punti e 5,9 rimbalzi di media). Al terzo anno le sue cifre quasi raddoppiano (13,1 punti e 10,2 rimbalzi con il 63% dal campo), ma arriva la prima tegola: un infortunio al ginocchio gli fa perdere oltre metà stagione. L’anno dopo sembra essere in salute e i Lakers lo rifirmano con un quadriennale da 58 milioni, ma a gennaio un nuovo infortunio al ginocchio lo tiene fuori 32 gare; rientra per i playoffs e vince il titolo, ma il suo contributo è il minimo sindacale. Un anno dopo, durante i playoffs del 2010, arriva il terzo infortunio al ginocchio in tre anni di fila; ciò nonostante, Bynum rimanda l’intervento chirurgico alla fine della stagione e, stringendo i denti, contribuisce al back to back dei Lakers. L’anno dopo gioca a minutaggio limitato per preservarsi dai problemi fisici ricorrenti, e la cosa sembra funzionare (a parte un leggero problemino ad aprile, ovviamente sempre al ginocchio), perché nel 2011/12 gioca una stagione stellare, da 18,7 punti, 11,8 rimbalzi e 1,9 stoppate a partita, partecipando anche all’All-Star Game. In estate viene ceduto ai Sixers, e la cessione equivale all’inizio del suo calvario (non che prima fosse stata una passeggiata): nuovi fastidi al ginocchio iniziano a farsi sentire già al training camp, e Bynum peggiora le cose facendosi male giocando a bowling. Philadelphia lo tiene a riposo precauzionale, ma col passare dei mesi il ginocchio, invece che migliorare, peggiora; finché, a marzo, si decide di andare nuovamente sotto i ferri. Del chirurgo, non del canestro. In estate il suo contratto scade, e Bynum firma per i Cavs, lasciando i Sixers dopo aver incassato 16 milioni di dollari senza mai essere sceso in campo con la loro maglia. A Cleveland riesce perlomeno a tornare in campo, ma è l’ombra del giocatore visto anche solo due anni prima; inoltre, alcuni comportamenti deleteri per la squadra spingono la franchigia dell’Ohio a cederlo già a metà stagione. Arriva a Chicago, ma i Bulls lo tagliano il giorno stesso per motivi salariali. Un mese dopo, firma per i Pacers, ma il suo ginocchio destro non gli permette di scendere in campo più di due volte. Finisce così, a soli 27 anni, la sfortunata carriera, costellata di “se” e di “ma”, di questo gigante dalle ginocchia di cristallo: 8 stagioni a 11,5 punti, 7,7 rimbalzi, 1,2 assist e 1,6 stoppate in 25,6 minuti di media. Attualmente Bynum è ufficialmente ritirato e, anche se in un’intervista nel marzo 2016 aveva dichiarato che “tutto è possibile”, un suo ritorno in campo appare decisamente improbabile.

19. Hakim Warrick (PF, 206 cm, Memphis Grizzlies)
Considerando carriera e posizione di scelta, questa atletica e longilinea ala di sicuro non è un fallimento totale, e, sulla carta, nemmeno una grande delusione. L’ex Syracuse ha infatti giocato per 8 stagioni nella NBA con medie di 9,4 punti e 4 rimbalzi in 20,2 minuti; il problema è che, prospettato da molti come scelta tra le prima dieci, è poi scivolato fino alla n. 19, ma nonostante tutto le aspettative dei Grizzlies su di lui erano piuttosto alte. A metà tra un’ala grande sottodimensionata e un’ala piccola di cui ha la struttura fisica ma non il trattamento di palla e il tiro da fuori, Warrick chiude comunque tre anni in fila in doppia cifra di media partendo dalla panchina, ma è una continua attesa dell’esplosione che non arriva mai. Anzi, arriva poi un rapido declino, quando lascia Memphis: in quattro stagioni girerà sei franchigie (Milwaukee, Chicago, Phoenix, New Orleans, Charlotte e Orlando, che però lo taglia senza farlo scendere in campo) e finirà sempre sotto la doppia cifra di media. Chiuse le porte della NBA, ha giocato una stagione in Cina, mezza in Turchia, una in Australia e mezza in Grecia, all’Olympiacos, nel 2016.

24. Luther Head (G, 191 cm, Houston Rockets)
Carriera enigmatica per questa combo guard uscita da Illinois: scelto da Houston, gioca una sorprendentemente ottima prima stagione (quasi 9 punti di media) e va ancora meglio al secondo anno, quando sfrutta i problemi fisici di Tracy McGrady sfiorando gli 11 punti con il 44% da tre e aggiungendo 3,2 rimbalzi e 2,4 assist. Il terzo anno ha però un calo notevole e a metà del quarto viene addirittura tagliato dai Rockets. Firma a Miami, ma la frattura a una mano chiude anzitempo la sua stagione. L’anno dopo è a Indiana, dove si conferma elemento affidabile in uscita dalla panchina, e lo stesso la stagione successiva a Sacramento, dove però viene tagliato in marzo. Misteriosamente, la sua carriera NBA si chiude qui: nessun’altra squadra gli dà un’opportunità nonostante 6 stagioni a 8,2 punti, 2,4 rimbalzi, 2,1 assist e il 39% da tre in 22,4 minuti. Prova quindi in Cina, ma si fa male prima ancora di scendere in campo; tornato in patria, gioca per un po’ nella D-League per poi chiudere la carriera tra Spagna, Messico e Repubblica Dominicana.

2º Giro

Stelle a sorpresa: chi li ha scelti al secondo giro ha avuto davvero un colpo di genio (o di fortuna…)

Arsen Ilyasov o Ersan Ilyasova? (Foto: draftexpress.com)

Arsen Ilyasov o Ersan Ilyasova? (Foto: draftexpress.com)

36. Ersan Ilyasova (PF, 208 cm, Milwaukee Bucks)
La storia della vita di questo giocatore meriterebbe un intero libro, che inaugurerebbe forse un nuovo genere, la “sport spy story”. Tutto inizia nell’estate del 2002, quando tale Arsen Ilyasov, il miglior cestista in erba dell’Uzbekistan (classe 1984), ottiene un visto di 15 giorni per varcare il confine turco. Dopodiché, svanisce nel nulla. Un mese e mezzo dopo, in una sperduta cittadina turca tra Ankara e Istanbul, tale Şemsettin Bulut si reca all’ufficio anagrafe per registrare (molto) tardivamente la nascita di suo figlio Ersan Ilyasova, nato nel 1987, che ottiene così documenti turchi e nel giro di poco viene tesserato dall’Ülker, che da tempo stava seguendo il promettente Ilyasov. In breve tempo il ragazzo inizia a farsi notare sul parquet, e naturalmente non passa inosservato nemmeno agli occhi della Federazione uzbeka, che riconosce in lui Arsen Ilyasov e che denuncia il tutto alla FIBA. Che, però, è titubante su come gestire questa spinosa situazione: da una parte si tratterebbe di una falsificazione di documenti che, oltre cambiare la cittadinanza del giocatore, ne ha modificato anche la data di nascita, cosa che andrebbe a influire anche sulle manifestazioni giovanili che Ilyasova sta disputando e disputerà con la maglia della Turchia (come il Mondiale Under 20, di cui sarà MVP dopo aver vinto l’argento). Dall’altra, la Turchia è un Paese in forte ascesa nel mondo cestistico, a livello sia di Nazionali, sia di club, sia di sponsor. Così, la Federazione Internazionale opta sì per far partire un’indagine sull’accaduto, ma affidandola alla stessa Federazione turca. Magicamente, ogni documento riguardante Arsen Ilyasov scomparirà nel nulla e la FIBA non potrà far altro che riconoscere Ersan Ilyasova come giocatore turco. Tre anni dopo la tardiva registrazione all’anagrafe, Ilyasova entra nel draft NBA, venendo scelto dai Bucks all’inizio del secondo giro. Durante la prima stagione viene assegnato in D-League ai Tulsa 66ers e non mette piede in campo nella NBA, ma nella seconda va tutto sommato benino (6 punti e 3 rimbalzi). Tuttavia, il giocatore sceglie di tornare in Europa e gioca due stagioni con il Barcelona, vincendo un campionato. Varcato nuovamente l’oceano, sempre con destinazione Milwaukee, vi rimane per sei stagioni (salvo una breve parentesi all’Anadolu Efes durante il lockout del 2011) diventando un giocatore di primo piano, dal rendimento costante e affidabile. Nell’estate del 2015 viene ceduto ai Pistons, che a loro volta, a metà stagione, lo spediscono ai Magic, i quali, di nuovo, nell’estate 2016 lo mandano a Oklahoma City. In 8 stagioni nella NBA finora ha accumulato 10,6 punti, 6 rimbalzi e 1,1 assist di media in 24,1 minuti: non poco per una seconda scelta. Rimane da chiarire per quanti anni ancora riuscirà a esprimersi ad alto livello. O in altre parole: Ilyasova ha 29 o 32 anni?

40. Monta Ellis (G, 191 cm, Golden State Warriors)
Sempre la solita storia: troppo piccolo per giocare guardia, troppo poco playmaker per giocare playmaker. Per di più, se arrivi direttamente dalla high school e pesi meno di 80 kg, i dubbi non possono che aumentare, ed è un attimo finire a secondo giro inoltrato. I Warriors, però, con i piccoletti sembrano sempre scegliere giusto, perché Ellis ci mette poco più di una stagione a far capire di che pasta è fatto. Già al suo secondo anno, infatti, mette oltre 16 punti di media, scollinando oltre il ventello la stagione successiva e non scendendo mai sotto i 18 per tutte le stagioni seguenti (tranne l’ultima). Insomma, una vera e propria macchina da canestri, in grado però anche di coinvolgere i compagni, che ha vinto l’NBA Most Improved Player nel 2007 e non è mai stato convocato a un All-Star Game solo perché la concorrenza nel ruolo è sempre stata proibitiva. In 11 stagioni NBA tra Warriors (sei anni e mezzo), Bucks (un anno e mezzo), Mavs (due anni) e Pacers (dove gioca tuttora, dal 2015/16), ha tenuto medie di 18,7 punti, 3,5 rimbalzi, 4,8 assist e 1,8 recuperi in 35,6 minuti. Una vera e propria star. Un vero e proprio steal of the draft.

45. Louis Williams (G, 185 cm, Philadelphia 76ers)
La storia di quest’altra combo guard dichiaratasi per il draft senza passare per il college è per molti versi simile a quella di Ellis, anche se Lou Williams si è fermato un gradino più sotto del suo collega. Non particolarmente considerato prima e durante il draft, viene scelto dai Sixers, dove passa due lunghi anni in panchina (e in parte anche in D-League) prima che gli venga dato un po’ di spazio. Spazio che lui, non si può negare, sfrutta come meglio non si potrebbe: 11,5 punti e 3,2 assist uscendo dalla panchina alla sua terza stagione tra i professionisti. Da quel momento Williams, giocando sempre come specialista in uscita dalla panchina, non è mai sceso sotto la doppia cifra nei punti segnati, anche quando, dopo sette anni a Philadelphia, è passato ad Atlanta (per due stagioni), Toronto (dove ha vinto il premio di Sixth Man of the Year) e Los Angeles, sponda Lakers, con cui gioca tuttora. In 11 stagioni NBA ha segnato 12,3 punti di media, più 2 rimbalzi, 2,9 assist e 0,9 recuperi, il tutto in soli 23,5 minuti. Tutto questo ha contribuito a renderlo famoso negli USA (tanto da essere sfuggito a una rapina, nel 2011, perché il suo aggressore l’aveva riconosciuto), ma mai quanto il fatto che, nel 2014, avesse due fidanzate “ufficiali” contemporaneamente.

Andray Blatche carico per la sua "nuova" Nazionale (Foto: SLAMonline Philippines)

Andray Blatche carico per la sua “nuova” Nazionale (Foto: SLAMonline Philippines)

49. Andray Blatche (PF/C, 211 cm, Washington Wizards)
Che Andray Blatche avesse talento nessuno lo aveva mai messo in dubbio, ma il fatto che provenisse dal liceo senza aver fatto il college e che avesse praticamente tutto da imparare a livello di basket professionistico lo fa scivolare nella seconda metà del secondo giro, dove senza dubbio un rischio su un enigma dal grande potenziale si può anche prendere. Cifre alla mano, non si può dire che i Wizards abbiano perso la loro scommessa (in 9 anni nella NBA ha tenuto medie di 10,1 punti, 5,4 rimbalzi e 1,4 assist in 22,1 minuti), ma forse, per quello che il giocatore ha fatto vedere soprattutto a partire dal terzo/quarto anno, nella capitale speravano che si tramutasse in un campione. Invece, è rimasto un ottimo giocatore molto difficile da gestire, tanto che dopo sette anni i Wizards, nel 2012, decidono di “amnistiarlo”; decisione a cui lui risponde dichiarando: «Quando le cose non andavano bene, i Wizards usavano sempre me come scusa». Si dice che la verità stia nel mezzo, ma ciò che è innegabile è che Blatche era passato dai 16,8 punti e 8,2 rimbalzi del 2010/11 agli 8,5 punti e 5,8 rimbalzi del 2011/12. Firma quindi per i Nets, in cui rimane per due discrete stagioni prima di volare in Cina, dove gioca da due stagioni. Naturalizzato filippino nel giugno 2014, con la maglia della Nazionale ha vinto l’argento ai FIBA Asia Championships 2015.

57. Marcin Gortat (C, 211 cm, Orlando Magic)
Se i Pistons hanno pescato benissimo alla n. 56 con Amir Johnson, ancora meglio hanno fatto i Suns con Marcin Gortat, anche se i frutti della loro scelta si sono visti solo dopo qualche anno. Il centro polacco, infatti, aspetta due anni prima di volare negli USA e sceglie di rimanere in Germania con il RheinEnergie Köln, con cui vince il campionato nel 2006. Nel 2007 approda nella NBA con la maglia dei Magic, che avevano acquisito i suoi diritti subito dopo il draft. A Orlando resta però più o meno a guardare per tre stagioni e mezza (3,7 punti e 4,3 rimbalzi in 13,3 minuti); ceduto proprio a Phoenix nel dicembre 2010, cambia tutto: doppia cifra di media, quintetto base la stagione successiva e miglior stagione in carriera (15,4 punti e 10 rimbalzi di media) nel 2011/12. Da allora Gortat si è mantenuto su questi livelli, anche a Washington, dove è stato ceduto nel 2013 e con cui nel 2014 ha firmato un rinnovo da 60 milioni in 5 anni, venendo riconosciuto, di fatto, come uno dei migliori centri della NBA. Finora, in 9 stagioni ha segnato 10,3 punti con 7,9 rimbalzi, 1 assist e 1,2 stoppate in 25,7 minuti di media (ma sfiora la doppia doppia di media se non si considerano gli anni a Orlando). Se si pensa che diversi addetti ai lavori prima del draft pensavano che non sarebbe nemmeno stato scelto…

Onesti mestieranti: scelti al secondo giro, si sono costruiti una (più o meno) solida carriera NBA.

33. Brandon Bass (PF, 203 cm, New Orleans Hornets)
Uscito da LSU dopo soli due anni, Bass finisce all’inizio del secondo giro soprattutto per dubbi legati alla sua esperienza, alla sua altezza e a una struttura fisica che molti considerano non ancora pronta alla NBA. In effetti, i primi due anni a New Orleans sono fallimentari, “macchiatie” anche da due assegnazioni nella NBDL alla franchigia affiliata Tulsa 66ers. Con la firma per i Mavericks nel 2007 qualcosa cambia: sia i minuti a disposizione (ora quasi 20), sia il fatturato sul campo (oltre 8 punti e 4 rimbalzi a gara). Dopo due anni a Dallas ne gioca altri due a Orlando (il secondo per la prima volta in doppia cifra di media), poi quattro a Boston (il suo periodo migliore, quasi sempre titolare) per poi finire ai Lakers nel 2015. Finora, in 11 stagioni NBA, ha segnato 8,9 punti con 4,7 rimbalzi in 22,4 minuti a partita. Nell’estate del 2016 è rimasto a Los Angeles, firmando però con i Clippers.

C.J. Miles in maglia Jazz (Foto: Canis Hoopus)

C.J. Miles in maglia Jazz (Foto: Canis Hoopus)

34. C.J. Miles (SG/SF, 198 cm, Utah Jazz)
Giocatore versatile ma molto giovane al momento del draft, per il quale si è dichiarato saltando il college, ai Jazz passa diverse stagioni in panchina e con parentesi nella D-League, apprendendo a poco a poco, agli ordini del mitico coach Jerry Sloan, il necessario per sfruttare il suo talento. Al quarto anno inizia a essere un elemento fisso delle rotazioni di Utah, che lascerà poi dopo sette stagioni, ormai trasformato in un affidabile swingman. Passa così a Cleveland, dove continua ad agire da sesto uomo e con cui fissa anche il record di franchigia per triple messe a segno in un partita, addirittura 10 contro i Sixers nel gennaio 2014. A fine stagione firma un quadriennale da 18 milioni con i Pacers, squadra in cui milita tuttora. In 11 stagioni NBA le sue medie parlano di 9,7 punti, 2,4 rimbalzi e 1,2 assist in 20,6 minuti, ma se non si considerano le prime tre ci troviamo di fronte un giocatore abbondantemente oltre la doppia cifra di media senza (quasi) mai essere stato membro fisso dello starting five.

37. Ronny Turiaf (PF/C, 208 cm, Los Angeles Lakers)
Scelto dai Lakers dopo quattro anni a Gonzaga, questo lungo dal talento modesto ma agonista puro è riuscito a rimanere dieci anni nella NBA grazie soprattutto all’intensità che porta sul parquet. Per di più, la sua carriera avrebbe potuto finire prima ancora di cominciare, perché, durante le visite mediche subito dopo il draft, i medici gialloviola riscontrano un problema cardiaco che necessita un intervento chirurgico con tempi di recupero stimati tra i 6 e i 12 mesi. Il francese originario della Martinica però brucia le tappe, rientra “in prova” nella CBA e poi già a gennaio con la squadra di Los Angeles, dove rimarrà anche nelle due stagioni successive (career high nel 2007/08, con 6,6 punti, 3,9 rimbalzi, 1,6 assist e 1,4 stoppate di media). Negli anni seguenti vestirà le maglie di Warriors, Knicks, Wizards, Heat (con cui ha vinto il titolo nel 2012, seppur con un ruolo assai ridotto), Clippers e Timberwolves (con una parentesi al Villeurbanne durante il lockout 2011), ma trovando gradualmente sempre meno spazio. Tagliato nel dicembre 2014 da Minnesota a causa di un intervento chirurgico all’anca destra, successivamente non ha più trovato squadra. In 10 stagioni nella NBA ha tenuto medie di 4,7 punti, 3,7 rimbalzi, 1,3 assist e 1,3 stoppate in 17 minuti: un ottimo contributo come role player in grado di rendersi utile in molteplici aspetti del gioco.

Ryan Gomes all'ultima fermata della sua carriera, in NBDL (Foto: Orange County Register)

Ryan Gomes all’ultima fermata della sua carriera, in NBDL (Foto: Orange County Register)

50. Ryan Gomes (F, 201 cm, Boston Celtics)
Ruolo a metà tra le due posizioni di ala ma fisico già pronto per la NBA e buona comprensione del gioco, Gomes arriva a Boston senza grandi aspettative, ma vari eventi fortuiti (scambi di mercato e infortuni di compagni di squadra) verso la metà della stagione gli regalano minuti altrimenti impensabili. L’ex Providence sfrutta al meglio l’occasione, tanto che a fine anno viene addirittura incluso nell’NBA All-Rookie Second Team, mentre l’anno dopo gli si aprono le porte del quintetto base, giocando oltre 30 minuti di media e contribuendo con 12,1 punti, 5,6 rimbalzi e 1,6 assist. Non riesce però a tenere a freno la lingua, accusando in pratica la franchigia di voler perdere apposta per ottenere scelte migliori al draft. Così, per puro caso ovviamente, in estate viene incluso nella trade che porta Kevin Garnett a Boston e che manda lui a Minnesota, dove continua a ben figurare, toccando il suo career high in punti segnati (13,3). Dopo tre stagioni viene mandato a Portland, che però lo taglia per motivi salariali. Firma quindi per i Clippers, dove lo spazio a disposizione è inferiore rispetto al passato e il suo tiro, costruito con tenacia a Minneapolis (78/230 nei primi tre anni di carriera, 106/285 nel solo quarto anno), va e viene; il giocatore perde gradualmente fiducia, anche perché non sembra che coach Del Negro lo consideri particolarmente. Dopo una stagione comunque discreta e un’altra disastrosa viene “amnistiato” e, invece che cercare un’altra squadra nella NBA, opta per cambiare completamente aria, firmando in Germania per gli Artland Dragons. L’anno dopo torna in madrepatria, firmando per i Thunder, con i quali però giocherà solo 5 partite; in gennaio viene ceduto proprio ai Celtics, che però lo tagliano subito, mettendo fine alla sua carriera nella Lega (8 stagioni a 10,1 punti, 4,6 rimbalzi e 1,5 assist in 27,6 minuti). Dopo una brevissima parentesi di una sola partita in Spagna, al Laboral Kutxa, Gomes torna negli USA con i Los Angeles D-Fenders e viene nominato Impact Player of the Year della NBDL. Pochi mesi dopo aver dimostrato di poter ancora dire la sua in campo, chiude con il basket giocato, diventando assistente allenatore ai Long Island Nets, nuova franchigia della NBDL.

56. Amir Johnson (PF, 206 cm, Detroit Pistons)
Ala forte dall’atletismo devastante ma molto leggera, tanto che a inizio carriera i Pistons provano invano a trasformarlo in un’ala piccola, arriva nella NBA direttamente dalla high school e ci mette due stagioni per iniziare a giocare davvero (solo 11 gare nei suoi primi due anni, con frequenti assegnazioni in NBDL), e altre due prima di iniziare a diventare produttivo. Solo a Toronto infatti, dopo quattro anni a dir poco mediocri a Detroit, inizia a mettere in luce le sue qualità; rimane in Canada per sei stagioni (passerà poi a Boston, nel 2015, con un biennale da 24 milioni di dollari), durante le quali prima guadagna il quintetto base e poi chiude due stagioni in doppia cifra di media, dando anche un buon contributo a rimbalzo e nelle stoppate (non molte, comunque, per un saltatore come lui). A nemmeno 30 anni sta per iniziare la sua dodicesima stagione NBA; finora ha tenuto medie di 7,6 punti, 5,8 rimbalzi, 1,1 assist e 1,1 stoppate in 22,6 minuti, statistiche “viziate” però dallo scarso impiego dei primi anni a Detroit. Insomma, non è un fenomeno, ma è un giocatore molto affidabile che, tra le scelte in fondo al secondo giro, è comunque merce rara.

Curiosità

Sono solo 7 i giocatori scelti al draft del 2004 ad aver vinto almeno un titolo NBA (anche se ben pochi da protagonisti): Andrew Bogut, Channing Frye, Andrew Bynum, Ian Mahinmi, Wayne Simien, David Lee, Ronny Turiaf.
Tra i tanti giocatori scelti al secondo giro, diversi hanno avuto una breve (talvolta brevissima) carriera NBA, ma con un discreto impatto (addirittura maggiore di alcuni colleghi scelti al primo giro): Salim Stoudamire, cugino del più famoso Damon, in tre stagioni ad Atlanta ha fatto registrare 8 punti di media per poi sparire tra D-League e Venezuela; Travis Diener ai Pacers ha giocato anche una stagione da quasi 7 punti e 4 assist a partita qualche anno prima di venire in Italia a deliziare i tifosi di Sassari; Von Wafer ha cambiato sette squadre in sette stagioni, sfiorando la doppia cifra a Houston (9,7 punti di media); Mickaël Gelabale, dopo aver giocato a Seattle dal 2006 al 2008 e aver successivamente girato diverse squadre di buon livello in Europa, è tornato a sorpresa in NBA nel 2013 con i Timberwolves (5 punti e 2,8 rimbalzi di media); Lawrence Roberts a Memphis, dopo un anno da rookie passato a scaldare la panchina, ha giocato una promettente seconda stagione da 5,2 punti e 4,8 rimbalzi, salvo poi iniziare una carriera in Europa.