LeBron James

LeBron James

La NBA non è una lega semplice da interpretare né da conoscere. Se ne sta certamente accorgendo David Blatt, alle prese con la fase di adattamento al campionato di basket più affascinante del mondo, ma nel contesto probabilmente più difficile. A Cleveland, che ha “ritrovato” LeBron James, affiancandolo a Kyrie Irving e a Kevin Love, il coach di formazione europea è partito con una dose di pressione fuori dal comune. Deve vincere o almeno costruire una squadra che possa lottare per farlo.

Le prime prove però lo stanno mettendo in una posizione difficile. E la serie aperta di 4 sconfitte consecutive, che ha portato a 5-7 il bilancio di una squadra scattata dai blocchi di partenza con i favori del pronostico ad est, ne ha messo in pericolo la panchina. Ma, in una franchigia dall’organizzazione ancora poco consolidata e con giocatori dalla mentalità tuttora molto altalenante – eredità degli ultimi anni di confusione –, tutto diventa molto più complesso. Se poi la dirigenza non ha neppure pensato di affiancargli un assistente veterano (una sorta di Tex Winter per Phil Jackson), ma gli ha messo vicino un Tyronn Lue che è stato in estate il suo principale antagonista nella corsa al posto di head-coach e potrebbe tornare ad esserlo (essendo l’assistente più pagato della lega ed avendo la fiducia di LeBron), è inevitabile che la sua voce finisca per essere poco ascoltata.

Così l’intoccabile superstar finisce per fare il bello e il cattivo tempo, rendendosi conto che nessuno di fatto gli sta dicendo quello che deve e – soprattutto – quello che non deve fare. LeBron sa essere un leader ma non ha enorme pazienza di fronte a certi errori, il linguaggio del corpo che ha mostrato – per citare un caso lampante – a Washington è stato censurabile. Deve dare l’esempio, trascinare i compagni sul campo, non condannarli subito, sapendo che la costruzione non sarà immediata ma che c’è margine per fare molto meglio di così. “Non sono allarmato, dobbiamo lavorare, io per primo” ha detto, però potrebbe essere più utile per tutti se permettesse a Blatt di allenare e non ne rendesse talvolta la presenza ancora meno credibile.

Se lo facesse, anche le difese a zona e le idee tattiche del coach, spesso alle prese con partenze lente in Europa ma non per questo meno vincente a fine stagione, potrebbero funzionare di più. “Sono preoccupato per ogni singolo dettaglio – ha detto il tecnico, dopo il k.o. netto contro Toronto – Stiamo giocando un po’ al buio”. E la luce deve accenderla lui, insieme al suo leader in campo, trovando la chiave per dare continuità ad una squadra che ha viaggiato sui 120 di media nell’arco di tre vittorie (ha sempre superato i 110 nelle 4 W consecutive), ma a Washington ha toccato il fondo stagionale con 78 e lunghi minuti di attacco imbarazzante, aggiunto ad una difesa che è dall’inizio tra le peggiori della lega.

La squadra non ha tanti specialisti, ma aveva imparato a giocare meglio di squadra l’anno passato, invece ora è lenta in transizione difensiva e spesso fuori tempo nelle rotazioni. Kevin Love, arrivato da Minnesota, in questo momento si sta dimostrando inadeguato, per le ben note lacune nella propria metà campo a cui si aggiunge una personalità non proprio clamorosa per giocare a questo livello, con un compagno così “ingombrante”. La squadra è “molto fragile”, come ha riconosciuto anche LeBron – al peggior record dopo 12 partite dall’anno da rookie –, e la dirigenza è vigile sul mercato (“Nessuno è intoccabile” ha detto il g.m. David Griffin, riconoscendo i limiti difensivi da cercare di correggere). Sono già circolati moltissimi nomi ma non è detto che dal mercato possa arrivare il miracolo (forse sarebbe meglio cercare intanto al proprio interno maggiore coesione…), cioé l’elemento in grado di garantire maggiori equilibri, anche se Waiters e Thompson sono i primi candidati a “saltare”, insieme al particolare contratto di Haywood.