Che l’equilibrio potesse regnare sovrano tra le cinque franchigie di una Division molto livellata verso l’alto, era lecito attenderselo. Così come era fin troppo chiaro il fatto che Cleveland e Chicago volessero stabilire da subito delle nette gerarchie, tenendo dietro tutte le altre. Il disegno si sta, almeno fin qui, avverando senza particolari sorprese, Pistons esclusi ovviamente.

David Blatt: deluso dall'atteggiamento dei suoi Cavs (foto Paolella)

David Blatt: deluso dall’atteggiamento dei suoi Cavs (foto Paolella)

CLEVELAND CAVALIERS (8-3): chi si accontenta gode, cantava Ligabue. Non la pensano affatto così due competitivi nati quali David Blatt e LeBron James, apparsi piuttosto contrariati e critici verso l’approccio mostrato dai Cavs nelle ultime due gare disputate, perse rispettivamente contro Milwaukee e Detroit. Da chi dice (Blatt) che Cleveland sembra aver smarrito la cattiveria agonistica che li ha portati alle scorse Finals, a chi realisticamente riparte dalla dura verità (LeBron): “non abbiamo vinto niente lo scorso anno, siamo usciti sconfitti e questo deve essere una motivazione sufficiente a farci essere più arrabbiati degli altri. Giochiamo in maniera troppo soft”. E mentre Golden State veleggia a punteggio pieno nella Western Conference, i Cavs (anch’essi comunque primi a Est) si trovano ad affrontare una serie di limiti preoccupanti. Da un lato la cronica dipendenza dal Prescelto (27,3 a gara), che porta i compagni a sentirsi in qualche modo de-responsabilizzati (a parte un Kevin Love fin qui superbo, da 17,4 punti e 11,8 rimbalzi di media). Dall’altro, la scarsa attitudine ad ammazzare le partite (emblematico il +13 nella seconda metà di gara con i Pistons, poi tramutatosi in una sconfitta all’Overtime), tipica di chi è troppo sicuro di vincere. Se, infatti, in una Eastern così debole il talento da solo può bastare a far sì che si possa guardare tutti dall’alto, nei Play Off, ed eventualmente in finale, ci si aspetta ben altro killer instinct da una Cleveland apparsa adagiata su (presunti) allori.

CHICAGO BULLS (8-3): l’avvicendamento in panchina ha portato senza dubbio una ventata di freschezza in quel di Chicago, dove in questo avvio di regular season si è visto un tasso di spettacolo decisamente superiore rispetto al passato. Quello che deve far sorridere coach Hoiberg, però, è che contestualmente i suoi stanno dimostrando di non aver perso la solidità che ne ha caratterizzato il DNA della storia recente. “5” il numero fortunato per i Bulls: quinta miglior difesa della Lega e ben cinque giocatori in doppia cifra di media punti, a dimostrazione di un assetto consolidato e più che mai in grado di mandare al tappeto qualunque avversario. Soprattutto grazie a un Jimmy Butler in formato Top Player (quasi 20 a partita e 32 nell’ultimo incontro con Phoenix, senza dimenticare la giocata difensiva che ha deciso il match contro i Pacers) e all’uomo mascherato Derrick Rose, ripresosi dopo un inizio in sordina e salito in cattedra nelle due gare più complesse contro Oklahoma (29 per lui in un testa a testa fantastico con Kevin Durant) e Indiana (23 a referto con tanta leadership, ma l’ennesimo infortunio, stavolta alla caviglia, che si spera sia di lieve entità). Probabilmente lontani dall’essere una vera e propria schiacciasassi, questi Bulls appaiono però molto consapevoli del grande potenziale a loro disposizione e le premesse, infortuni permettendo, affinché riescano contendersi il primato con Cleveland fino alla fine, ci sono tutte.

INDIANA PACERS (7-5): ok, Paul George è tornato ad essere il vero Paul George. In molti ne dubitavano ai blocchi di partenza, ma la stella dei Pacers ha risposto presente, non solo smentendo gli scettici, ma vestendo i panni che gli competono, ossia quelli della star assoluta. Un eccellente 42,4% da dietro l’arco per un bottino di 25,3 punti a partita, che diventano 30 tondi tondi se si considerano solo le ultime sette notevoli prestazioni (in cui spiccano i 32 contro i Cavs, i 34 con i Sixers e i 36 con gli Heat). Risalita alla quinta piazza ad Est, Indiana si sta letteralmente aggrappando al suo leader, cavalcandone il forte desiderio di riprendersi il proprio palcoscenico all’interno della NBA. Quello che preoccupa, semmai, è l’apporto finora piuttosto limitato del grande acquisto estivo, Monta Ellis, fermo a un modesto 12,8 di media e apparso ancora spaesato nel contesto Pacers. Per fortuna di coach Vogel, la front line composta da George Hill e C.J. Miles sta confermando una discreta solidità offensiva, coadiuvata da un inatteso protagonista come Rodney Stuckey, e la sensazione è che, in ottica di piazzamento ai Play Offs, Heat e Hawks dovranno probabilmente guardarsi dalla franchigia di Indianapolis.

Coach Stan Van Gundy: oltre le attese il l'avvio di stagione dei suoi Pistons (fonte: Reinhold Matay, AP)

Coach Stan Van Gundy: oltre le attese l’avvio di stagione dei suoi Pistons (fonte: Reinhold Matay, AP)

DETROIT PISTONS (6-5): l’avvio spumeggiante era stato forse fin troppo bello per essere vero. Eppure, per piegare i sorprendenti ragazzi di Van Gundy ci è voluto un proibitivo viaggio sulla costa pacifica che li ha portati ad affrontare in serie Portland, Golden State, Sacramento, Clippers e Lakers, con il risultato di quattro sconfitte su cinque incontri e conseguente drastico bagno di umiltà. Al rientro ad Auburn Hills, tuttavia, Detroit ha piegato niente meno che i Cleveland Cavaliers, in un match passato ad inseguire, ma poi vinto nel finale grazie a un ottimo Reggie Jackson e al solito, irreale Andre Drummond di questo primo mese, vicino all’impresa di raggiungere contemporaneamente cifra 20 sia nella media punti (19,1) che in quella dei rimbalzi a partita (18,9). In attesa del rientro di Jennings, i Pistons giocano con la leggerezza di chi non ha particolari ambizioni, e questo fa sì che il loro modo di stare in campo, unito a una gioventù staripante, li renda una mina vagante pericolosa per chiunque.

MILWAUKEE BUCKS (5-6): che dire, un record negativo da parte dei “cervi” del Wisconsin non ce lo saremmo mai aspettati a questo punto della stagione, per quanto sia da ritenersi del tutto poco indicativo un bilancio dopo soli 20 giorni di regular season. Prima di tutto per il calendario tutt’altro che avverso affrontato sinora, che ha visto i Bucks sfidare un solo top team, Cleveland (contro la quale è arrivata tra l’altro una vittoria dopo due overtime), e perdere contro Washington, Boston e Toronto, ovvero dirette concorrenti per i Play Offs ad Est. Non proprio un bel biglietto da visita per un gruppo sul quale tutti, dirigenza in primis, nutrono delle ambizioni mai nascoste. Eppure, Jason Kidd è necessariamente costretto a rimboccarsi le maniche per invertire la rotta, dal momento che il vero problema ad oggi sembra per lo più di tipo mentale. Il talento del resto non manca e il potenziale è lì bello da vedersi. Il rischio, tuttavia, è esattamente quello: specchiarsi troppo dimenticandosi che perdere terreno può rivelarsi, a lungo termine, un peccato mortale.