Persi Rivers, Garnett e il capitano Paul Pierce, che pochi nella NBA lo avrebbero potuto immaginare con una casacca di color diverso dal verde, i tifosi dei Boston Celtics hanno finalmente tirato un sospiro di sollievo, anzi, addirittura hanno esultato alla notizia che Brad Stevens è il nuovo allenatore della squadra più titolata della lega.

Nel periodo classico delle “fonti”, delle news che vengono fatte trapelare, l’annuncio che l’ormai ex head coach di Butler University si sarebbe seduto sulla panchina che fu di Red Auebarch, ha spiazzato tutti, in primis gli addetti ai lavori, ignari delle trattative (perlopiù telefoniche) condotte dal GM Danny Ainge.

Si parlava dello shock di aver perso tre degli assoluti protagonisti delle ultime stagioni, ma l’impronta scelta dal front office è chiara: ringiovanire. Un obiettivo che non poteva essere più cristallino se non con la scelta del coach che diventa il più giovane ad allenare in NBA (36 anni, 37 ad Ottobre). Si ripartirà da Rajon Rondo (che non deve essere stato tanto felice dopo gli addii delle settimane scorse), di cui coach Stevens si definisce “il più grande fan, un giocatore istintivo che non vedo l’ora di conoscere dopo averci parlato al telefono”.

Stevens è un allenatore tradizionale (si direbbe da college basket), che centra le sue squadre sui fondamentali e sul lavoro di squadra, senza stelle. La sua storia a Butler è indicativa di questo, avendo avuto soltanto due giocatori che attualmente militano in NBA, Gordon Hayward e Shelvin Mack. Questo è uno dei motivi per il quale la sua assunzione è stata accolta con favore dalla totalità degli addetti ai lavori, che considerano Stevens perfetto per un lavoro di ricostruzione con una sola stella luminosa, Rondo, e parecchi giovani, fra cui Jeff Green, a Boston.

Una carriera esemplare

(Pablo Alcala/Lexington Herald-Leader/MCT)

(Pablo Alcala/Lexington Herald-Leader/MCT)

Nel 2001 Stevens inizia la sua carriera come assistente allenatore a Butler, l’università dove dal 2000 lavorava come volontario “video coordinator”. Dopo la stagione 2006-2007 prende le redini della squadra, che da allora avrebbe cominciato a diventare una presenza fissa al torneo NCAA. Senza stelle ma con tanta intelligenza cestistica, Brad Stevens guida i suoi “Bulldogs” a ben due finali nazionali consecutive, entrambe perse, una contro Duke sul filo della sirena (2010) e l’altra contro Connecticut (2011).

Il suo ruolino parla chiaro: sono ben 166 le vittorie di Division 1 ottenute nei sei anni di head coaching a Butler, periodo nel quale non ha mai vinto meno di 22 gare a stagione. Inoltre, è lui il più giovane ad aver allenato nelle final four sin dal 1973, l’anno in cui il record fu stabilito dal mitico Bob Knight. Una carriera sopra le righe per essere stato soltanto un modesto giocatore di basket alla DePauw University (e DePauw non è un refuso, ma si tratta dell’università di Greencastle, in Indiana). Un ragazzo che ha studiato duramente ed è alla fine diventato uno dei più apprezzati allenatori del mondo collegiale, tanto da ricevere persino i complimenti del compianto e immenso John Wooden, al quale era stato un po’ incautamente paragonato: “Mi diverto vedendo allenare Stevens e soprattutto mi piace lo stile di gioco di Butler”.

E non è l’unico attestato che ha riempito d’orgoglio casa Stevens, perché sono state tantissime le offerte arrivate per tentare di fargli cambiare aria: Oregon, Clemson, Wake Forest, Illinois, ma soprattutto UCLA, nel marzo 2013, si erano fatte avanti, offrendo nel caso del college di Westwood fra i 2.5 e i 3 milioni di dollari annui. Ma Stevens ha sempre risposto picche, rispettando l’estensione di contratto firmata con il college di Indianapolis nel 2010, che lo legava alla “sua” università fino al 2022.

Il futuro con i Celtics 

(Darren McCollester/Getty Images)

(Darren McCollester/Getty Images)

Sono lontani i tempi in cui, per avere l’opportunità di allenare, Stevens rischiava tutto lasciando un’ottima posizione in un azienda farmaceutica. Oggi, quello stesso ragazzo, si presenta come allenatore in NBA, con una notevole carica di umiltà: “Non avrò sempre ragione, farò tantissimi errori. Penso che il gruppo saprà quanto genuinamente tengo a loro”. Ci sono voluti i Boston Celtics e il nome che portano per farlo traballare (ha dichiarato che decidere di lasciare Butler ha causato il terzo pianto in dieci anni) e decidere di vivere quell’esperienza fra i professionisti, che non ha portato molta fortuna agli allenatori provenienti dalla NCAA (con l’eccezione di Larry Brown).

A Boston, dopo il 2008, il numero 18 ha rappresentato quasi un ossessione. Un numero magico che anche durante la conferenza stampa di presentazione di Stevens viene richiamato, con il tabellone della palestra di allenamento dei Celtics che segna in tutti i suoi campi il numero del prossimo titolo. Anche Danny Ainge, nel comunicato stampa seguente l’annuncio dell’assunzione del “ragazzo” dell’Indiana, non usa mezzi termini: “Io e Brad condividiamo molti valori comuni, lo vedo come un grande leader con una grandissima voglia di lavorare e la dimostrazione è Butler, che ha sempre giocato ed eseguito disciplinatamente su entrambi i lati del campo. Per esser giovane ha già vinto molto e non vedo l’ora di lavorare con lui per il raggiungimento del “banner 18””.

Dalle belle parole di Ainge la palla passa a Stevens, un allenatore più giovane di tanti giocatori ancora militanti nella NBA, come Kevin Garnett (che è 5 mesi più “vecchio”). Cosa sarà in grado di fare “l’anti-Calipari” in NBA non è detto, ma siamo certi che l’attuale situazione in casa Celtics, in modalità “ricostruzione”  con conseguente mancanza di pressione da vittoria immediata, possa soltanto far bene al nativo di Zionsville, Indiana. D’altronde, Red Auebarch iniziò ad allenare i Celtics all’età di 33 anni (no, non è assolutamente un paragone).