Chiunque abbia seguito un po’ dei primi due mesi di Regular Season sa che fra le certezze di quest’inizio ci sono i Golden State Warriors, la squadra più calda in assoluto, reduce da 16 vittorie consecutive (striscia fermata dai Memphis Grizzlies nella notte di mercoledì), e detentori al momento del miglior record della lega, 21-3. Anche gli appassionati più superficiali saprebbero nominarne i principali protagonisti fra i tanti: Steph Curry, Klay Thompson, Harrison Barnes e il nuovo coach Steve Kerr, tanto desiderato da Phil Jackson a New York. Ma l’occhio più attento e più interessato sa che un enorme parte del successo di Golden State è da attribuire ad un altro meraviglioso giocatore: Draymond Jamal Green.

Un altro dei tanti sottovalutati di questa lega che lavorando duramente e senza uscire fuori dalle righe sta finalmente raccogliendo i frutti del proprio lavoro. Un lavoro duro, iniziato a Saginaw, in Michigan, e all’omonima High School, trampolino di lancio per diventare uno Spartan e giocare per la gloriosa Michigan State University, a partire dalla stagione 2008-09. Come raramente si vede ai giorni d’oggi, Draymond passa tutti e 4 gli anni del college alla sua alma mater (la stessa di un certo Magic Johnson), diventandone uno dei giocatori più rappresentativi di sempre. Una storia, quella da Spartan, iniziata in sordina e conclusasi alla grandissima: dagli 8 punti di media, partendo dalla panchina nell’anno da freshman, fino al momento in cui diventa il miglior rimbalzista di sempre nella storia del college di East Lansing: da capitano della squadra diventa il terzo nella storia (dopo due a caso come Oscar Robertson e Magic) a registrare tre triple doppie nel torneo NCAA. Nominato “giocatore dell’anno” nella Big Ten, le sue potenzialità non passano inosservate, ma a causa di una valutazione difficile da fare in prospettiva NBA (siamo di fronte ad un’ala grande considerata troppo “piccola”) scivola fino alla 35esima scelta di un draft non clamoroso a livello di talento.

Le prime due stagioni lo vedono protagonista in poche occasioni, anche a causa delle limitate chances concessegli da coach Jackson. Passa molto tempo in panchina e, quando chiamato in causa, il coach gli chiede di dare energia e rimbalzi. La stagione da rookie la chiude con soli 13.4 minuti a partita per 2.9 punti, con l’highlight del sottomano vincente nella gara contro i campioni in carica dei Miami Heat. La seconda, invece, gioca tutte le 82 partite, partendo titolare in 12 di queste e chiudendo con 6.2 punti e 5 rimbalzi a gara. E’ nella serie, persa 4-3, contro i Clippers che cominciamo a intravedere un potenziale futuro da protagonista. In gara 6, Green segna 14 punti, cattura 14 rimbalzi, ruba 5 palloni e regala 5 assist in una vittoria e in una prestazione che rendono chiara l’idea di quanto questo giocatore potesse essere fondamentale per i successi della squadra.

Probabilmente è quella gara lo spartiacque della carriera NBA di Draymond Green, che comincia la nuova stagione sapendo che nell’estate del 2015 diventerà un free agent. Oggi il conto in banca dice 915,000 dollari annui (David Lee ne porta a casa circa 15 milioni), e con il nuovo allenatore, Steve Kerr, sappiamo che quella cifra potrebbe salire vertiginosamente alla fine di questa stagione. Il già citato Lee è infortunato per iniziare la stagione, e Green diventa titolare inamovibile, anche grazie al suo migliorato tiro dalla lunga distanza. La sua debolezza principale delle prime due stagioni diventa la sua arma più efficace: oggi si prende più del doppio dei tiri da tre e la sua percentuale è migliorata fino ad arrivare al 36.7% (nel suo anno da rookie era 20.9%). Grazie a questo miglioramento, la squadra è diventata ancora più letale in quasi tutte le situazioni offensive, aggiungendo spazio per se e per i compagni, che come sappiamo raramente perdonano: con lui in campo Golden State tira con il 40.5% da tre punti, con lui fuori con il 28.4%. Dalla fine della scorsa stagione fino ad oggi, Draymond Green ha fatto incetta di estimatori. Le sue caratteristiche uniche sono il suo punto di forza, nonostante la stazza che non si vede spesso in una power forward. Green è alto 204 ed è secondo Basketball Reference un’ala piccola, nonostante per i Warriors abbia quasi sempre giocato alla posizione di 4.

“Dray è fantastico, ci ha dato una nuova dimensione offensiva: poter praticare il “pick & pop” con la tua ala forte è un lusso e ci aiuta ad allargare il campo. Ma non solo, Green è capace di marcare praticamente qualunque tipo di giocatore, chiunque gli si trovi davanti”. Il merito è da ricercarsi nel lavoro duro di questi anni svolto dal ragazzo del Michigan. Prima con Lou Dawkins, coach a Saginaw e dopo, sopratutto, con Tom Izzo, storico e immortale head coach di Michigan State: entrambi lo hanno aiutato a migliorare in ogni aspetto del gioco e farlo diventare ciò che è adesso, il giocatore “collante” (glue guy) dell’intero quintetto.

Lo ha dimostrato finora e lo continuerà a fare, ma non possiamo non citare la sera del 7 Dicembre, dove tutto ciò è stato messo in mostra allo United Center di Chicago. 7 triple per il suo career high da 31 punti in una vittoria contro i Bulls. E’ qui che un po’ tutti cominciano ad accorgersi di questo ragazzo. E’ qui che Klay Thompson con un tweet – che vedete sopra – decide che Draymond Green può far parte degli Splash Brothers. Pochi avevano pensato che questo potesse succedere, ma oggi è il numero 23 l’ago della bilancia della stagione finora favolosa dei Golden State Warriors, versatili, letali, temuti e vincenti come mai ce li saremmo aspettati.