Lance Stephenson (fonte: @BeachCarolina)

Lance Stephenson (fonte: @BeachCarolina)

La Abraham Lincoln High School di Coney Island ha visto passare dalle sue parti gente che definire di talento è davvero riduttivo, fra tutti Stephon Marbury e Sebastian Telfair. Ma fra tutti coloro che sono passati da lì e da tutte le high school di New York, solo uno può essere il miglior realizzatore della storia, colui che ha persino avuto un reality show dedicato alle sue gesta (a nemmeno 18 anni!).

Lance Stephenson é una promessa da sempre. Dai campi di New York fino alla NBA, le attese, e pretese, sono state sempre enormi. Ad elencare i successi e gli insuccessi prima della carriera NBA, si rischia di occupare molte pagine, ma basta citare alcuni momenti chiave della carriera del “ragazzaccio” di Brooklyn per farsi un’idea piuttosto chiara. 2946 punti fra il 2006 e il 2009 (migliore, appunto, di sempre per le scuole di New York), qualche palpeggiamento di troppo (un capo di accusa per molestie) ed un soprannome che dice tutto: “Born Ready”. Un nickname nato sui campi del Rucker Park, il playground più famoso di New York, dove sono passati letteralmente tutti i più grandi fenomeni di questo gioco.

Lance viene da lì, dalla New York che sa farsi rispettare e dalla non sempre facile Brooklyn. È da lì che arrivano i problemi e le pressioni di una vita vissuta sempre sul filo del rasoio, sul campo e fuori. Pressioni che non sorprendentemente hanno contribuito alle varie delusioni vissute dal ragazzo newyorchese. Se sei considerato come migliore prospetto della nazione insieme a Kevin Love, Tyreke Evans e Brandon Jennings, pensi di poter scegliere tu l’università da frequentare prima del grande passo fra i professionisti. Invece i college più importanti lo hanno scartato, vuoi per problemi di carattere, per problemi di tipo legale, vuoi per la famosa e fastidiosa visita alla Under Armour, produttore di abbigliamento da gioco, che gli è costata la mancata chiamata di Maryland e degli altri top college.

In realtà aveva scelto Kansas, e Bill Self aveva scelto lui, ma semplicemente, alla Stephenson, aspettò troppo per dire sì, e Xavier Henry gli soffiò il posto. Diventò allora un Bearcat, a Cincinnati, una scuola soltanto poco più che decente, dove Lance si comporta come meglio non potrebbe, dal punto di vista scolastico e tecnico, ma questo probabilmente non bastò per confermare, al draft NBA del 2010, quello che aveva promesso nei suoi anni da adolescente.

Lui che a soli 14 anni già impressionava tutti e che negli anni seguenti, portando a 4 titoli consecutivi la sua high school, fece in modo che tutti gli addetti ai lavori si fregassero le mani per un talento del genere. Un talento anche a parole, capace di rilasciare dichiarazioni al limite dell’assurdo, dimostrazione del fatto che tutte le pressioni e tutti gli elogi avevano fatto effetto nella maniera peggiore.

A Manhattan, il giorno del draft 2010, arrivarono 60 persone per lui. Lance era convinto di meritare una scelta alta. Gli Indiana Pacers lo scelsero alla posizione numero 40. Festeggiò lo stesso, ma certamente si trattava di una scelta bassissima, ma più di ogni altra cosa questo dimostrò quanto avessero paura le franchigie NBA a causa delle difficoltà del compito di tenerlo a bada. Solo Larry Bird pensò di poterlo gestire al meglio e nonostante tante lavate di testa, tantissimi disguidi, dopo due stagioni passate nelle retrovie, grazie anche a coach Vogel, Lance Stephenson é finalmente esploso, in tutta la sua irriverenza.

L’ennesimo problema con le donne – aggressione alla fidanzata nell’anno da rookie – aveva dato l’impressione che ogni speranza di recuperarlo sarebbe stata vana. Ma dopo le due prime stagioni, e complice l’infortunio a Danny Granger, nella stagione 2012-2013 “Born Ready” é tornato ad essere apprezzato, specialmente dai fans. Con i suoi atteggiamenti coinvolgenti, al limite della follia, ma il più delle volte efficaci per il successo della squadra, porta gli Indiana Pacers, insieme a West, George e Hibbert, ad un passo dalla finale NBA. Stephenson é protagonista in assoluto, con difesa asfissiante, provocazioni (famosa quella nei confronti di LeBron) e canestri bellissimi, nella risalita dei Pacers ai piani alti della Eastern Conference, vinta nella stagione 2013-2014.

Ma dopo la delusione degli ultimi playoffs, arriva uno di quei momenti importantissimi nella carriera di un giocatore NBA, per il conto in banca e per la definitiva maturità, quello di diventare “unrestricted free agent”, con la speranza di rimanere nell’Indiana ma con la “sbruffonaggine” di pensare di meritare tantissimi milioni di dollari.

Non è un talento da lasciare andare via, lo vogliamo, ma c’è un prezzo che non possiamo superare”. Parole di Larry Bird, chiare come sempre e che precedono un’offerta sostanziosa da 44 milioni garantiti in 5 anni, media di 8,8 milioni l’anno, un enormità per un ragazzo di Brooklyn cresciuto con niente.

Offerta rifiutata da Lance. Pensava di valere molto di più, ma l’andamento altalenante della sua testa fa paura e non riceve offerte superiori. Accetta una proposta economica annuale simile, ma con due anni di contratto in meno dagli Charlotte Hornets. Per 9 milioni in 3 anni si va a giocare per Michael Jordan in una squadra giovane, in crescita e con un marchio rinnovato, in grado di attrarre nuovi tifosi. Gli Hornets sono tecnicamente una delle migliori soluzioni per Lance Stephenson, che nelle piccole realtà sa di poter vivere con molte meno pressioni.

L’inizio di stagione però non è dei migliori. Una tripla doppia contro gli Hawks nella partita in cui segna il buzzer beater allo scadere del secondo overtime e nient’altro. Le attese per gli Hornets sono alte, ma il lato offensivo non funziona meglio rispetto all’anno scorso, nonostante l’arrivo di una guardia come Stephenson. Nelle prime due settimane di stagione Charlotte si trova con un record di 3-4 con la sua nuova stella fermo a 8.8 punti ma ben 10.9 rimbalzi e 5 assist a partita. Più rimbalzi che punti, una statistica che la dice lunga sull’energia che mai manca nel gioco del ragazzo di Brooklyn. Un tipo di giocatore unico anche per questo, anche nelle difficoltà: un giocatore che a volte manca di professionalità e non prende le migliori decisioni possibili, ma capace di esprimere un entusiasmo sempre coinvolgente e che per questo non può essere criticato. I momenti della sua carriera negativi sono alle spalle, si spera, e siamo sicuri che il North Carolina sia il posto giusto, insieme a guide affidabili come coach Clifford e il proprietario Jordan, in grado di riportarlo indietro nel tempo. Magari non ai tempi esagerati di Coney Island, ma sicuramente fra le migliori guardie della NBA.