LeBron James al debutto nella NBA

LeBron James al debutto nella NBA

Era il 29 ottobre 2003 ed in molti sapevano, o quantomeno sentivano, che stava per verificarsi un evento destinato a cambiare la storia della NBA. Quel giorno, di cui ricorre oggi l’11° anniversario, un ragazzo con un legame speciale per la palla a spicchi entrava ufficialmente nel mondo dei professionisti. Per cambiarlo. Di chi stiamo parlando? Di LeBron James. Semplicemente, il “Prescelto”.

Il destino aveva individuato nell’Arco Arena di Sacramento il teatro dove mandare in scena lo spettacolo. Nel prepartita, l’attesa era alle stelle, la pressione era tutta sul ragazzino di Akron, Ohio. Il suo arrivo nella NBA era atteso come un momento di quelli che capitano molto raramente, non era – si diceva – un giocatore come gli altri, era uno in grado realmente di segnare un’epoca come avevano fatto in pochissimi – o quasi nessuno – e riscrivere i libri di storia. Prima della gara, i fratelli Maloof, allora proprietari di Sacramento, avevano ringraziato pubblicamente il commissioner David Stern per il “regalo” di aver dato questa sfida alla capitale californiana. Un “dono” che aveva portato oltre 100 inviati dei media sul parquet, dozzine di telecamere negli spogliatoi o pronte anche solo a riprendere il riscaldamento. Nessuno voleva perdersi un istante, un gesto, un’espressione che potevano essere storici.

La tensione stava crescendo. E il ritardo sull’inizio della partita, dovuto ad un inaspettato tempo supplementare tra Knicks e Magic, imposto dalla ESPN che voleva la diretta integrale del debutto di LeBron, aveva reso l’atmosfera ancora più elettrica. James, da solo sul tavolo dei segnapunti, masticando il chewing-gum, cercava invano di isolarsi e respirare in maniera tranquilla: “Ero nervoso – aveva riconosciuto negli anni successivi – Non avevo dormito la notte prima. Ho sempre riposato prima di andare in campo, ma quella volta non c’ero riuscito. E non era stato possibile neppure fare stretching, ci saranno state 150 telecamere sul parquet”.

Un mese prima la Nike aveva costruito uno spot apposito per questa partita. L’azienda aveva fatto firmare a James un ricchissimo contratto e non aveva nessuna di intenzione di farsi sfuggire quest’occasione, per iniziare a sfruttare l’ingaggio appena effettuato. Tanto per dare l’idea della portata dell’evento, aveva messo a disposizione dei giocatori di Cleveland addirittura un jet privato per portarli in California e poi di nuovo in Ohio. Non una cosa propriamente comune per l’ambiente e la franchigia dei Cavaliers. Sul parquet li aveva coinvolti nelle riprese insieme ad alcuni componenti dei Kings, appositamente per creare messaggi promozionali da usare solo ed esclusivamente nelle pause televisive di questo match. Era l’evento con la “e” maiuscola.

Tutti parlavano di James in quel periodo. Ma non solo in maniera positiva. Il suo approdo nella lega aveva anche risvegliato in tutta la loro forza le argomentazioni di chi non vedeva di buon occhio l’arrivo dei 18enni, perché troppo giovani, ancora fragili per poter essere trasformati in professionisti. “Non importa chi sono, né se sanno giocare oppure no” aveva detto ad esempio Phil Jackson.

Con la pressione di moltissimi tifosi ma anche tutta quella che gli avevano messo sulle spalle i tanti detrattori, pronti a distruggerlo al primo passo falso, quel ragazzino di 18 anni era entrato in campo. Non esattamente la situazione più facile da gestire per una persona comune. Ma LeBron, legato al basket, non lo è mai stato.

Fece capire sin dall’avvio di non essere uno qualunque. Non tutti servono il primo assist della carriera con un alley-oop, lui lo fece in transizione mandando Ricky Davis sopra al ferro, poi cominciò a segnare. Con 8’58” sul cronometro del 1° quarto arrivò il primo canestro, un jumper dalla linea di fondo. Fu solo l’inizio di un primo quarto spaventoso, chiaramente non l’unico della sua strepitosa carriera ma fenomenale per il modo in cui si scrollò di dosso la pressione e le attenzioni di tutto il mondo. La schiacciata in contropiede dopo l’intercetto entrò di diritto nella bacheca dei canestri più spettacolari della storia di Cleveland. Per i soli parziali, al primo mini-intervallo il tabellino recitava 12 punti, 3 assist, 2 rimbalzi e 2 recuperi.

Cleveland era sotto. E poi perse quella partita, colpa soprattutto di una difesa davvero terribile. Ma non interessava a molti. Il primo pensiero di molti era quello che aveva fatto quel ragazzino con la maglia numero 23, scelta non casualmente: era andato meglio delle aspettative. I critici erano pronti, specie dopo una preseason lontana dall’essere stata esaltante, che aveva fatto emergere anche molti dubbi sulla sua reale voglia di allenarsi.

Ed invece, la prima risposta vera – giocando con rispetto per i veterani della squadra ma senza paura nei confronti di nessuno – si tradusse in 25 punti, 12/20 al tiro, 9 assist, 6 rimbalzi e 4 recuperi, mostrando subito quella tendenza ad andare sulla strada delle triple-doppie spesso frequentata in carriera. “Quando siamo entrati nell’arena nessuno sapeva esattamente cosa avrebbe potuto fare LeBron – disse il coach dell’epoca dei Cavaliers, Paul Silas, al termine della gara – Pensavo che avrebbe giocato una buona partita, ma non così tanto. Fu incredibile”. Un momento storico che LeBron ricorda ancora, ad anni di distanza, ogni volta che torna a Sacramento (“Non avevo idea che avrei giocato così, probabilmente ero talmente carico all’idea di giocare che pensai solo a quello e non mi preoccupai davvero di nient’altro”). Scott Ostler, sul San Francisco Chronicle, esaltò quanto visto con un messaggio per la Nike: “90 milioni? Avete sottovalutato il ragazzo”.

Un momento storico che adesso, a poche ore dal secondo debutto con la maglia di Cleveland, torna ad assumere un ruolo davvero speciale nella storia di un giocatore unico. Perché da quel giorno a Sacramento è iniziato tutto, una miscela tecnico-atletica senza precedenti da ragazzo è diventato uomo. E lo ha fatto diventando 4 volte MVP, vincendo 2 anelli e riscrivendo una serie impressionante di record. Promettendo di non aver finito qui, perché ora l’obiettivo è l’impresa forse più difficile: portare a casa anche il titolo che in Ohio non hanno mai vinto.