In un epoca in cui i centri dominanti ed i playmaker classici si sono quasi del tutto estinti e l’evoluzione del gioco ha preso altre direzioni lontane anni luce al basket in cui siamo cresciuti, la NBA è popolata di un nutrito gruppo di “bigman versatili” in grado di spostare l’ago della bilancia a favore dei propri team.

Anthony Davis, Blake Griffin, LaMarcus Aldridge, Chris Bosh sono alcuni dei nomi che hanno diritto di cittadinanza quando parliamo della miglior ala forte in NBA, ma la prima parte di regular season finora ci ha detto che nessuno sta raggiungendo i picchi di rendimento di Draymond Green, che a tutta ragione vuole reclamare il suo posto nel novero dei migliori.

Le statistiche che sta tenendo su sono impressionanti: 15 punti di media conditi da 9.7 rimbalzi e 7.3 assist tirando con il 47% dal campo e il 42% da tre punti (su quasi 4 tentativi a sera). Secondo Basketball-Reference, solamente 7 giocatori nella storia delle lega hanno avuto medie di almeno 15 punti, oltre 9 rimbalzi e oltre 7 assist, 5 di essi in un’epoca “medievale” della lega. L’ultimo che è riuscito in un impresa del genere negli ultimi 20 anni è stato Grant Hill nella stagione ’96-97 (21.4+9+7.3). Green è inoltre l’unico assieme a Larry Bird ad aver piazzato questi numeri tirando oltre il 40% da tre punti.

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LA GENESI DI DRAYMOND GREEN

Draymond Green diventa Draymond Green nella Michigan State di Tom Izzo, con la quale ha giocato 4 stagioni incrementando ogni anno il suo peso specifico all’interno della squadra. Con gli Spartans ha raggiunto il torneo NCAA in tutti e 4 gli anni di permanenza e 2 Final Four nei primi 2 anni. Nei suoi ultimi 2 anni a East Lansing gli Spartans non sono più tra le favorite, ma con Green a guidare la truppa diventano la squadra che nessuno vuole incontrare sul proprio cammino.

Il pedigree è di alto livello, ma attorno a lui sorgono i dubbi su come traslare il suo gioco al piano di sopra dall’alto dei suoi 198 cm scarsi con l’eterno dilemma: troppo basso per fare il 4, poco mobile per fare il 3, sa fare tutto bene ma senza essere specializzato in niente. È per questo che finisce al secondo giro e viene pescato dai Golden State Warriors alla 35° chiamata, dietro a gente come Fab Melo, John Jenkins, Arnett Moultrie, Marquis Teague o Tony Wroten, tutta gente che ad oggi non è più nella lega.

Nel suo primo anno nella lega lascia intravedere sprazzi interessanti, ma coach Mark Jackson è piuttosto cauto circa il suo utilizzo: quando è in campo non fa mai brutta figura e assolve il compito di far rifiatare sia Harrison Barnes che David Lee, ovvero le due ali titolari, ma il coach gli preferisce i veterani Richard Jefferson e Carl Landry e lo vede come un semplice tappabuchi.

Nel corso della sua stagione da sophomore però il suo rendimento (2° miglior DefRtg della squadra dietro a Iguodala tra i giocatori di rotazione) aumenta, nella seconda parte di stagione conquista il quintetto base grazie ai fastidi fisici di Lee e Bogut e il suo finale di stagione è in crescendo, chiuso con 24 punti, 9/13 al tiro e 5/8 da tre, 7 rimbalzi in 39 minuti allacciandosi costantemente a Blake Griffin nella sfortunata gara-7 del primo turno dei Playoff persa dai Warriors contro i Clippers.

Quando in estate Steve Kerr viene nominato Head Coach è molto interessato a Green ed alla sua versatilità, l’ideale per lo stile di gioco che vuole implementare ai Warriors, ma non può offrirgli un posto in quintetto che per diritto di anzianità e peso contrattuale spetta al veterano David Lee che però si infortuna salta il primo mese e mezzo di stagione. Per Green è la svolta: il posto in quintetto è suo ed ha un impatto tale – il 2° miglior DefRtg dei suoi con 96 punti per 100 possessi, il 2° miglior NetRtg di squadra dietro a Curry con +16.5 (!!!), ma soprattuto quando lui è a sedere i Warriors perdeno quasi 8 punti di OffRtg e ben 6 punti di DefRtg, diventando una squadra “normale” – che Kerr, una volta tornato Lee, non si è fa scrupoli, mantenendo nello starting five il nativo di Saginaw nel Michigan e rendendolo l’elemento insostituibile al pari di Steph Curry che ha permesso ai Warriors di riportare il titolo NBA nella baia a 40 anni di distanza dall’ultima volta.

CHE RUOLO È DRAYMOND GREEN?

Nominalmente è l’ala forte titolare, il secondo lungo al fianco di Andrew Bogut, ma nei momenti clou della partita gioca spesso da centro tattico, come ad esempio in quello che è stato ribattezzato “il quintetto della morte”, la lineup composta da Curry-Thompson-Iguodala-Barnes-Green.

La realtà dei fatti è che Draymond Green è il vero playmaker dei Golden State Warriors. Si avete capito bene… solitamente per playmaker noi intendiamo un nanerottolo, un giocatore di dimensioni limitate che porta a spasso per il campo la palla, chiama gli schemi ecc… In realtà, l’etimologia della parola suggerisce che il “play-maker” sia il colui che “crea il gioco”, e Green si è conquistato il diritto di fregiarsi dell’appellativo, alla luce dei numeri e dell’impatto che produce nell’economia del gioco dei suoi.

Nessuno smazza più assist di lui nei Warriors, nemmeno Curry che ne distribuisce in media 1 un meno di lui ogni sera, e solo 6 giocatori lo precedono nella classifica degli assist. Considerando Lebron James come un giocatore perimetrale, l’unico altro bigman tra i primi 50 assistman della lega è Blake Griffin (30° a 5 assistenze di media a partita).

Il pallone transita per le sue mani per 81.9 volte a gara, ovvero un volume spesso ad appannaggio dei playmaker (è l’unico assieme a Griffin a essere della top-20 di “touches” senza essere una point-guard), ma resta nei suoi polpastrelli in media appena 2.4 secondi prima di uscire verso un compagno. Sono quasi 64 i passaggi che ogni singola notte permettono ai Warriors di oliare il meccanismo di gioco creando inoltre 12.6 assist potenziali a sera, numeri che lo proiettano al 12° posto complessivo in graduatoria, dietro a monopolizzatori del pallone come Rondo, Wall, Westbrook e Harden ma davanti a Lebron James. I suoi assist producono per i Warriors 17.6 punti a sera e gli valgono il 6° posto nella specialità, dietro solamente a “point guard” come Rondo, Wall, Paul, Rubio e Westbrook.

Lo vediamo spesso ricevere in corsa dopo uno “short-roll” a seguito di un pick & roll, alzare la testa per leggere la difesa e creare opportunità per i tiratori piazzati sul perimetro, oppure servire i taglianti dal lato debole quando è in post basso e alto, oppure ancora catturare rimbalzo e nel medesimo istante aprire il contropiede portando avanti il pallone con un controllo del pallone e del corpo inusuale per un giocatore del genere.

Nella clip: la vostra classica ala forte che porta avanti il pallone e innesca il contropiede. Contro gli Heat la metà dei tiri da tre a segno dei Warriors sono avvenute in questo modo.

È il Mastro Cerimoniere della transizione offensiva dei Warriors, il giocatore che da secondo rimorchio è chiamato a prendere decisioni che influenzano il corso dell’azione della sua squadra, che siano esse la necessità di portare un blocco, passare il pallone per un assist, semplicemente ribaltare il pallone e innescare la letale circolazione di palla dei suoi oppure aggredire il canestro e far muovere la difesa.

E senza palla? I suoi blocchi sono granitici, ed il suo tiro da tre (15° come percentuale tra i giocatori con almeno 1.5 triple tentate a sera) sta raggiungendo livelli di eccellenza, se paragonato alla base di partenza (nel primo anno tirava con il 20%, al college mai oltre il 39% del suo ultimo anno).

Nella clip Green cambia l’angolo di blocco all’ultimo secondo per Curry con un notevole gioco di piedi tagliando fuori dall’azione TJ Johnson.

Non è alto, non è esplosivo, non è atletico, ma è un concentrato di energia e cervello che riesce a sopperire ai gap fisici che incontra giornalmente sui campi NBA.

Per “categorizzare” giocatori del genere la nomenclatura “Strecht Four” – lunghi che aprono il campo – è obsoleta ed è stato coniato il termine “Playmaker Four”, giocatori con le caratteristiche tecniche del lungo moderno ma gli istinti da playmaker.

DRAYMOND GREEN GIOCATORE TOTALE

La NBA è quasi al giro di boa e nessun giocatore ha realizzato più triple doppie di Draymond Green, ben 8. Sommando quelle ottenute da Rondo e Westbrook, rispettivamente il secondo e il terzo in graduatoria si arriva a 7. A metà stagione ha già distrutto il precedente record di 6 triple doppie in stagione realizzate da una power forward che detenevano in coabitazione Kevin Garnett (nella stagione 2002-2003) e Charles Barkley (stagione 1992-1993). Ben 3 di esse sono avvenute in gare consecutive, 4° ala di sempre a riuscire in tale impresa – Larry Bird nel 1984, Grant Hill nel 1997 e ultimo a riuscirci LeBron James nel 2009 – viaggiando alla bellezza di 17.3 punti, 14.3 rimbalzi e 13.3 assist di media. Roba da fantascienza.

È il giocatore chiave di quello che per efficienza è considerato il miglior attacco del campionato (della storia?) e tra le prime 4 miglior difese. Perchè Draymond Green è un giocatore totale che gioca sui due lati del campo.

La scorsa stagione si è sentito rubato del premio di miglior difensore NBA andato poi (meritatamente) a Kawhi Leonard e non ha mancato occasione di ribadirlo. Oltre ad andare come un animale a rimbalzo, sfruttando il tempismo, il baricentro basso e tanto mestiere per sopperire ai centimetri e all’esplosività dei pari ruolo avversari, permette ai Warriors di non essere mai in svantaggio nei cambi difensivi, con l’insospettabile rapidità di piedi che gli permette di reggere i cambi di marcatura contro ogni tipo di giocatore che calca i parquet NBA.

Nella clip: Green regge l’1-vs-1 di Wade e gli contesta il tiro.

Nelle scorse “Finals” contro una front-line pesante composta da Tristan Thompson e Timofey Mozgov è emerso vincitore in innumerevole duelli in area, ha marcato per larghi tratti di gara LeBron James ed ha retto ogni 1 vs 1 contro i piccoli dei avversari sovvertendo quelli che sulla carta dovevano essere “mismatch” a favore dei Cavs.

Che siano pariruolo, esterni, stelle o comprimari, Draymond Green riesce a tenere sotto media ogni giocatore che marca o che ostacola al tiro. In NBA nessuno contesta agli avversari più dei suoi 16.9 tiri che induce a segnare con meno del 39%, ben 6.6% punti percentuali al di sotto della media. Nei 6.6 tiri che ogni contesta al ferro come “primary defender”, tiene i suoi avversari al 42.8% dal campo, solo intimidatori come Gobert, Ibaka e Henson ed i suoi compagni di squadra Bogut ed Ezeli riescono fare meglio in NBA.

Nella clip: la difesa si Green sul pick & roll e contesta il tiro di Bosh dal post basso.

DRAYMOND GREEN = SCOTTIE PIPPEN + DENNIS RODMAN

Nei Golden State Warriors che attentano al record delle 72 vittorie dei Bulls in regular season, se consideriamo Steph Curry il Michael Jordan, non è un eresia dire che Draymond Green è Scottie Pippen che incrocia Dennis Rodman, ovvero la spalla ideale che permette al primo violino di compiere le grandi imprese, lavorando nell’ombra e lasciando al compagno gli onori della cronaca.

La sua versatilità su entrambi i lati del campo è unica nel panorama cestistico NBA: come Pippen è in grado di “guidare” una difesa NBA dalle retrovie, “sacrificare” il proprio corpo sulle traiettorie di penetrazioni guadagnano sfondamenti, mettere le mani su ogni linea di passaggio che lo vede coinvolto e dall’altra parte attivare la macchina della morte che è l’attacco dei Warriors. Come Rodman, con quel suo atteggiamento irriverente, sempre al limite, odiato dagli avversari e amato dai compagni, è capace di “sigillare” il suo avversario diretto in difesa, svettare a rimbalzo partendo da situazioni netto svantaggio, fisico e atletico, ma usando doti altrettanto importanti come il tempismo, il mestiere e l’intelligenza cestistica fuori dal comune, che gli permette di capire con una frazione di secondo di anticipo la dinamica di un’azione. Sovente le partite dei Warriors cambiano dopo una giocata di “hustle” di Green, che sia offensiva o difensiva, oppure una finezza o ancora una rissa sfiorata.

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In quell’oasi che sono i Golden State Warriors, dove tutto è oro a 24 carati, Draymond Green non solo è il risultato della congiunzione astrale di innumerevoli fattori che ne hanno permesso l’esplosione, ma una delle cause che hanno portato alla ribalta i guerrieri della baia. La precisione al tiro degli Splash Brothers gli garantisce quasi 4 assist a sera, viceversa un quarto del loro fatturato offensivo dipende dalle assistenze di Green: il 40% dei canestri assistiti di Curry portano la sua firma (75 contro i 99 degli altri Warriors), che tradotto significa quasi 7 punti a sera dei 30 che regolarmente segna, mentre ha griffato 72 dei 285 canestri dal campo di Klay Thompson.

Fatevi travolgere dalla “Draymond Experience” e non ne resterete delusi!