T-Mac con la maglia di Houston

T-Mac con la maglia di Houston

È stata un’estate movimentata in NBA: tra addii dolorosi e benvenuti inaspettati, il ritmo di chi è arrivato e di chi ha lasciato è stato degno delle migliori soap-opera, ed inevitabilmente l’attenzione maggiore è stata riservata ai saluti. Quasi tutti scontati e prevedibili in un certo senso, ma non per questo meno sofferti: con Kidd, Iverson e McGrady se ne va una fetta importante del recente passato della Lega.
L’ultimo in ordine di tempo a pronunciare il fatidico “ci vediamo quando ci vediamo” è stato proprio T-Mac, che con questa scelta deve aver strappato parecchi “finalmente…”, a chi non vedeva l’ora che si facesse da parte ma anche e soprattutto a tutti i suoi tifosi. Perchè gli ultimi cinque anni dell’ex Houston altro non son stati se non una copia decisamente ingiallita e deprimente di colui che ha fatto sognare milioni di ragazzi con quel pallone tra le mani. E allora meglio così, perchè uno come Tracy McGrady non merita certo di essere ricordato per il giocatore che è stato ultimamente, anche se “ultimamente” significa in questo caso un lustro intero: sarebbe un insulto a lui e alla sua storia.
Questa storia.

Tutto ha inizio nel 1979, anno in cui una minuscola città della Florida, Bartow, che all’epoca contava poco più di 9000 anime, dà i natali a Tracy. Il ragazzo, e per questo tipo di racconti non è assolutamente cosa ovvia, è semplice e normalmente inserito tra i suoi coetanei, dai quali si distingue per un solo, importante particolare: è un atleta nato, con una predisposizione evidente e condivisa da molti esperti per uno sport in particolare.
Ora, giova ricordare che il contesto è quello americano, in grado di ricamare trame mai banali quando si tratta delle persone e delle loro storie: ecco perchè lo sport in questione non era la pallacanestro, ma bensì il baseball. Il giovane T-Mac, che pure con la spicchiata non doveva essere messo malissimo, era considerato uno dei prospetti più affidabili in ottica MLB. Come logica conseguenza, all’high school il nostro decide di dedicarsi interamente al basket. E i risultati in un primo momento non sembrano arridergli particolarmente.

Da ciò che si apprende dal sito personale di McGrady la svolta per la sua carriera arriva tanto improvvisa quanto ormai inaspettata: penultimo anno di liceo, il giovane fenomeno è snobbato (eufemismo) dagli scout universitari, che non lo inseriscono neanche nella lista dei primi 500 giocatori più promettenti. Doveva succedere qualcosa di clamoroso per cambiare lo stato delle cose, e in effetti successe. O meglio, Tracy fece in modo di farlo accadere.
Evento: partita di esibizione tra High School. Situazione: il nostro si trova in contropiede con un unico avversario, tale James Felton, tra sè e il canestro. Episodio: un giocatore normale sarebbe entrato in palleggio cercando un fallo, o eventualmente si sarebbe arrestato per un comodo tiro in transizione. Niente di tutto questo: il ragazzo porta la palla nella mano destra, stacca e, passando sopra la testa di un avversario alto 6’9” (poco più di due metri) inchioda al ferro due punti incredibili, conditi con tanto di mulinello aereo giusto per non essere banali. “After I made that dunk, it was like the moment I knew I had finally arrived” avrà modo di affermare in seguito T-Mac. Non si sbagliava.

Da quel momento, in effetti, nulla sarà più come prima: il giovane McGrady dopo l’estate si trasferisce, per l’anno da senior, alla Mount Zion Christian Academy, North Carolina, sotto la guida di Joe Hopkins. Ossia, l’uomo che ha rappresentato la seconda svolta nella carriera del nativo di Bartow, insegnandogli ad avere rispetto per gli altri, per se stesso e per il gioco. “Se non fosse stato per coach Hopkins, nulla di tutto questo sarebbe successo“, ha altruisticamente asserito qualche anno fa lo stesso T-Mac.

Il dopo, come si suol dire, è storia: la decisione di presentarsi al draft del 1997 senza passare dall’università, i Raptors che riescono a strapparlo alla concorrenza con la scelta numero nove.
I primi anni in Canada, trascorsi tra garbage time e lockout, per poi sbocciare al fianco del cugino Vince Carter nel corso della terza stagione; il trasferimento a Orlando, la sua squadra del cuore, dove riesce ad indossare la 1 un tempo sulle spalle del suo idolo Penny Hardaway; i premi individuali conquistati in Florida (Most Improoved Player nel 2001, scoring leader della lega nel 2003 e nel 2004) che andavano di pari passo con risultati di squadra più che deludenti.
E poi, ancora, il passaggio a Houston nel 2004, la maledizione dei playoffs con tre eliminazioni al primo turno, per ben due volte a gara 7. Una di queste, quella del 2005 nel derby texano contro Dallas, è per detta dello stesso ex giocatore il più grande rimpianto della sua carriera, tanto da farlo riflettere ancora oggi su “come possa essere successo“.
Per finire, i mille infortuni, acciacchi fisici che ne limitano rendimento e costanza, che già di per sè non era la freccia migliore al suo arco, l’addio al Texas e l’inizio del lungo pellegrinaggio in cerca di una casa, di una franchigia con cui ricostruire un rapporto. Un viaggio che lo porterà ad essere il triste ragazzo “ammirato” a San Antonio e, subito dopo, al ritiro.

T-Mac con la divisa degli Spurs

T-Mac con la divisa degli Spurs

È una vicenda che ha dell’incredibile, quella di T-Mac: basta stimare quanto avrebbe dovuto vincere in relazione al suo talento e quanti trofei abbia realmente messo nella propria bacheca, per rendersene conto. Nella sua controversia è però una storia esemplare, portatrice di un messaggio che sta alla base di questo gioco: nessuno può farcela da solo.
Neanche un fenomeno assoluto come l’uomo dalla Florida, che pure era un’autentica macchina da pallacanestro: per le sue eccezionali qualità difensive e per il repertorio offensivo pressochè illimitato sviluppato negli anni, elementi che avevano portato molti appassionati a definirlo un Pippen 2.0.
Qualunque leader ha bisogno di compagni di squadra all’altezza o quantomeno funzionali alle proprie attitudini, e questo privilegio McGrady non l’ha mai avuto: “Una superstar che sembrava trovarsi sempre nella squadra sbagliata coi compagni sbagliati” ha scritto di lui Bill Simmons.

Che poi l’ex numero 1 abbia avuto la sua (notevole) dose di responsabilità in tutto ciò è indubbio. Tanto per iniziare le sue decisioni riguardo ai trasferimenti hanno lasciato più di qualche rimpianto ai suoi tifosi, che si chiedono ancora oggi cosa avrebbero potuto combinare un Vince Carter e un McGrady al massimo del loro livello nella stessa squadra, per non menzionare il binomio da sogno mai realizzato con Howard, approdato a Orlando quando T-Mac aveva appena deciso di portare i suoi talenti ad una conference di distanza.
A ciò va aggiunta la scarsa capacità di diventare un leader caratteriale e carismatico, in grado di guidare i suoi compagni. “Penso che quando si possiede un talento donato da Dio, questo in qualche modo ostacola la tua capacità di allenarti, che poi è esattamente ciò che è successo a me. Semplicemente, non sono un giocatore che ama allenarsi” sono affermazioni che non si addicono ad una personalità forte e disposta a tutto pur di trionfare. Se a questo si somma l’ opinione di Doc Rivers (“Non era assolutamente un leader naturale, e avrebbe dovuto esserlo“) la sentenza sembra essere inequivocabile: l’unico colpevole del poco successo di McGrady è McGrady stesso.

Vero, ma non verissimo forse. L’analisi più precisa sul nostro è probabilmente quella di coach Van Gundy, che ha evidenziato come il suo ex pupillo fosse a tutti gli effetti un leader tecnico incredibile, in grado di migliorare il livello di chi giocava insieme a lui grazie alla sua abilità straordinaria, ma non un leader psicologico capace di pretendere più del massimo dai suoi compagni. Come potrebbe essere un Kobe Bryant, uno che sa convincere i propri pari a lottare non solo insieme a lui, ma soprattutto per lui.
E a proposito del Mamba, provate a chiedergli quale sia stato l’avversario più forte che abbia mai incontrato: la risposta lascia poco spazio alle interpretazioni: “McGrady, no questions“, parola di 24.

La copertina del videogioco NBA LIVE per la stagione 2007.

La copertina del videogioco NBA LIVE per la stagione 2007.

T-Mac è stato questo, nel bene e nel male: un giocatore da vivere e gustarsi sul momento, un ragazzo in grado di rapirti per una partita intera e poi deluderti per i cinque incontri successivi. È tendenzialmente giusto considerare prima di tutto i traguardi personali quando si intende dare un giudizio complessivo sulla carriera e la storia di un atleta, ma non è giusto in questo particolare caso. Vorrebbe dire consegnare alla storia McGrady come “colui che non riuscì mai a portare la sua squadra oltre il primo turno dei playoffs”. Inammissibile.

Essendo il giocatore dei singoli momenti, l’essenza del carpe diem, del numero 1 resteranno nella nostra memoria immagini confuse e scollegate, ma meravigliose. I 62 punti contro Washington, il miracolo di Natale (46 punti contro Detroit, 25 dicembre 2002) nonostante una schiena a pezzi che gli fece affermare poco prima del match “my back is killin’ me“.
E poi, ovviamente, una delle prestazioni individuali più dominanti di sempre, una pagina che Tracy ha scritto con l’inchiostro indelebile in tutti i libri di storia sportiva. Bastano due cifre per spiegare il riferimento: 13 come i punti, 35 come i secondi impiegati per segnarli.

Questa è l’istantanea che le nostre menti conserveranno di T-Mac, e non quella del triste ragazzone un po’ acciaccato che si riscalda prima di gara 7 delle Finals 2013, già sapendo che mai avrebbe messo piede in campo in quella circostanza.
Ed è sacrosanto che sia così, perchè neanche tutti i titoli del mondo possono essere paragonati alla capacità di emozionare che McGrady possedeva e che, quando ne aveva voglia, dispensava. Come solo lui poteva fare.