Frammenti di follia collegiale da Philadelphia, dove tutto è andato secondo copione. Ovvero: è stata per l’appunto follia allo stato puro. Persino per gli standard, piuttosto alti, di questo incredibile periodo dell’anno.

METROPOLITANA – Che sia una giornata particolare lo si capisce già in metropolitana, quando alla sfida tra Duke e Albany mancano ancora due ore. Percorri a testa bassa i lugubri corridoi di Suburban Station – downtown Philadelphia, ma potrebbe essere una Gotham City qualsiasi -, zompi sulla Orange Line, e ti trovi davanti sei ragazzotti biancolatte, t-shirt blue e cappello di Duke. C’è anche una ragazza con la felpa di Albany, che però ha atteggiamenti non certo da  guerra tra ultrà con uno dei Blue Devils.  Il quadretto, nella sua complessità, non è esattamente un ritaglio di vita quotidiana della Philadelphia urbana. Una signora con aria locale, temporaneamente in modalità madre italica, chiede loro se non faccia freddo per andare in giro vestiti così. We’re going to have fun, dicono loro all’unisono, mentre il vagone avanza nel buio, e quelli che salgono guardano storto noi, loro, e l’anomalia che causiamo. Scesi al capolinea, partono urla di bagarini dall’altro lato della strada. Chiedono extra tickets, vendono extra tickets, assordando tutti i passanti. Non veniamo qui quando giocano i Sixers, ma saremmo quantomeno sorpresi se a ogni loro partita interna ci fosse tutto questo trambusto.   C’è anche tempo per filmare le urla sguaiate di due tifose di Blue Devils, in estasi orgasmica alla vista di coach K che scende dal pullman della squadra. E lui, per la delusione della platea, non accenna nemmeno un saluto. Ma tutto questoviene rubricato come folklore di bassa lega, se paragonato a quanto sarebbe successo da lì a poche ore.

SLOWMOTIONbeltrama NIGHTMAREUn incubo al rallentatore. La vittoria di Florida Gulf Coast su Georgetown è stata definita così da un non identificato giornalista, mentre in sala stampa si aspettava l’arrivo degli sconfitti. Qualcuno, in preda ai fumi del momento, è arrivato persino a parlare di upset più grande della storia. Ma al di là di numerini, ranking, statistichette da media guide,è stata una partita dominata tatticamente ed emotivamente dagli Eagles. I tifosi di FGC hanno invaso Philadelphia come una piccola orda barbarica, vista da tutti come la classica, innocua bolla paesana che attira simpatia e compiacenti pacche sulle spalle.  Due ore e varie standing ovation dopo, erano i padroni assoluti di tutta l’arena. Il loro modo di supportare la squadra è stato contagioso, al punto che entro metà della ripresa tutti gli altri spettatori erano apertamente e rumorosamente schierati. Canti, bandiere, gesti vigorosi, una dose robusta di insulti agli arbitri. Tutto ancora ancora più in formato da oratorio rispetto alla media, con i genitori delle cherleader che scambiano gesti con le figlie mentre queste si esibiscono nei balletti.  E’ stato persino necessario che due membri della security andassero a calmare i più facinorosi, riscaldati da un paio di mezze scaramucce in campo. Insomma, l’upset si è rivelato in tutte le sue magiche componenti. Non solo una scarsa che batte una forte. Ma anche un gruppo di talenti NBA, Otto Porter su tutti, che vengono irrisi da un tipo di folla e di cultura che non rivedranno mai più in vita loro. Di certo, non nelle arene della lega di Stern. Anche queste sono componenti dell’incubo, tanto dolorose quanto il risultato finale.

RANKING – Da un punto di vista prettamente tecnico, la partita ha anche riproposto una riflessione sempre più comune. Nella sua onestà, John Thompson III ha detto una cosa molto vera. Facciamo  ranking, classifiche, seeding. Poi però vince sempre chi gioca meglio a basket. In altre parole: FGC ha giocato una partita di alto livello, facendo pure vedere di essere una squadra di alto livello. O almeno, non così basso come quello che dovrebbe spettare a un seed n.15. E infatti questo è proprio il punto: il sistema NCAA e la cultura da control freak americana, per provare a mettere ordine nel caos totale delle 300 erotte squadre di Division I, si nutre da sempre di tutti questi strumenti numerici, e apprentemente rigorosi. Ma se i vari indici statistici possono essere utili per orientarsi, non possono diventare una sorta di cosa in sè. Restano un feticcio, un’illusione prospettica. Un manufatto che forza dentro uno schema semplice una realtà molto più complessa. Considerarli come verità assolute gioca scherzi di prospettiva del genere. Salvo poi svegliarsi sul più bello e gridare all’evento inaudito, quando invece quello che si è visto in campo questa sera è stato in primis una squadra di basket che ha battuto un altra squadra di basket, seppur contro pronostico. Non una formica che ha steso a colpi di antenne un elefante.   

MISSIONE – Al  netto dell’evento di giornata, la presenza più rumorosa della prima metà è quella dei tifosi di Creighton.  Che ricorda per molti versi un misto tra il popolo in missione di Brigham Young ai tempi di Fredette e la fetta di tifosi di Butler ai tempi delle Final Four, attempati e dalla lingua tagliente. E’indubbio che per l’università è un momento storico, forse unico. Un giocatore tra i migliori della nazione, un sistema che funziona,  con la Sweet 16, mai raggiunta prima, che ora sembra quasi quasi a portata di mano.  Abbiamo vissuto il finale di partita mischiati a loro, barattando la postazione stampa in piccionaia con un angolo visivo decisamente più ottimale. E alla fine non potevamo che essere contenti per questi arzilli ultrà in trasferta, che hanno seguito gli ultimi minuti della partita con Cincinnati senza respirare, con l’eccezione di sparute richieste di falli tecnici contro ignoti. Manco fossero denunce. C’è stato da soffrire, complice anche una gestione non lucidissima dei Bluejays nel finale di partita. Ma alla fine c’è stato spazio per l’esultanza liberatoria.

Wells Fargo Center

Wells Fargo Center

PRESENTE – Sempre proposito di Creighton. Uno dei motivi per cui piace così tanto la NCAA, soprattutto nel torneo, è che mette in luce una tipologia di giocatore che per varie ragioni fatica a emergere a livello professionistico. Beninteso, non siamo scout, e non abbiamo la minima idea di a) dove verrà scelto Doug McDermott (ovviamente, stiamo parlando di lui), b) che carrierà farà. Sappiamo che, come spesso succede in questi casi, il futuro del giocatore è inevitabilmente (e legittimamente) avvolto in una cortina di mistero.  Questioni di atletismo, e anche di adattabilità a un gioco diverso, dove non si hanno 5-6 ribaltamenti  a disposizione per fare arrivare la palla dentro con gli angoli giusti. Eppure, al netto di queste perplessità, è indubbio che nel presente McDermott è una specie rara, nel più positivo dei sensi. Il modo in cui muove i piedi in post, l’abilità di  creare contatto a proprio favore, il virtuale ambidestrismo negli ultimi metri. Piccoli dettagli che fanno tutta la differenza del mondo.  E non stiamo nemmeno parlando del tiro da 3 fulmineo e micidiale, che costringe le difese ad adeguamenti complessi su ogni pick and roll. Senza che nemmeno ce ne accorgessimo, ha chiuso con 27 punti, 11 rimbalzi, 11/11 dalla lunetta. Nemmeno una partita eccezionale, visto che quelle sono più o meno le sue medie in stagione.

AUSTERITA’ –  Gli eventi sul campo hanno fatto passare in secondo piano un cambio di clima che inizia a farsi sempre più evidente. C’è qualcosa che impercettibilmente si sta scollando nel legame che congiunge i tifosi e gli appassionati con l’istituzione NCAA. Per la prima volta dal 2007, ma March Madness On Demand è integralmente disponibile solo se si ha già un abbonamento di pay tv. Una scelta giustifcata da tutte le ragioni di bilancio del mondo, e figuriamoci se entriamo nel merito. Eppure risulta irrimediabilmente antipatica all’uomo comune, che sa che di soli diritti televisivi per il torneo l’associazione rastrella quasi un miliardino di dollari all’anno. Non briciole. Un altro esempio, questa volta più settoriale: in nome di un austerity che sa tanto di gretta avidità,  sono stati tagliati del 50% i posti stampa a bordocampo, relegando i corrispondenti scribacchini “non VIP” (ci rientriamo anche noi, ovviamente) alla piccionaia assoluta del Wells Fargo Center, dove solo un binocolo di buona potenza avrebbe potuto aiutare a capire qualcosa di quello che succedeva in campo. La ragione: vendere più biglietti a bordocampo, e racimolare qualche migliaio di dollari in più. Mossa legittima, che però non aiuta gli addetti ai lavori. Soprattutto quelli che, a differenza nostra, con questo lavoro ci devono campare. Poi certo, si va in campo e succede quello che succede, e ci si dimentica tutto in una frazione di secondo. Per fortuna.

Potete ora seguire le avventure americane di Andrea Beltrama sul suo nuovissimo blog:

 http://ilsalmoneeilgrattacielo.wordpress.com/