Andrea Beltrama

Andrea Beltrama

Pensieri in diretta dalla cara Milwaukee che nessuno mai considera (tranne noi). Una città dispersa tra capannoni e industrie, volto metropolitano di uno degli stati più agro-pastorali degli USA.  Arriviamo trafelati, in fuga dal traffico di Chicago, pronti a goderci una giornata di quelle che non possono andare male. Anche se l’approdo al Bradley Center è più avventuroso del previsto, rallentato dagli svincoli allucinanti di questa città – ogni volta più difficili da navigare – e dall’invasione dei tifosi di Wisconsin, che hanno preso in ostaggio qualsiasi parcheggio entro 2 km dall’arena. C’è rosso ovunque, anche nei bar dove di solito domina il gialloblu della locale Marquette University, per i cui studenti il rosso Wisconsin ha lo stesso effetto che ha su un toro incazzato. Un po’ come vedere il Pireo dipinto di verde, fatte le debite proporzioni. Ma il torneo NCAA cancella campi, storie, differenze, sponsor. E’ un folle tutti contro tutti fino a che le gambe reggono e la paura resta lontana. E allora ben venga l’invasione dei rivali. D’altra parte Madison è a un’ora scarsa, e il sogno di arrivare in Final Four qualcosa di più di un’utopia.

Non senza vivere un po’ di paura, per la verità, quando si trova sotto 10-17 dopo nemmeno 10’. Il proprio pubblico ammutolito e American University, università a vocazione intellettuale pressochè priva di tradizione sportiva, in grado di segnare da qualsiasi posizione. Sembra che la tavola sia apparecchiata per un bel drammone con tutti i crismi, compresa l’avvolgente Princeton Offense giocata da American, tanto per non farci mancare nulla dello stereotipo della research institution che si cimenta col parquet. Ci vuole il nostro arrivo a ridare fiducia ai Badgers, che rubano un paio di palloni e si sciolgono, divorandosi pian piano l’avversario fino al previsto più 40 finale. Dove 40 non è un’esagerazione, visto che è proprio finita 75-35.

Peccato che noi, mentre tutto questo succedeva, fossimo totalmente folgorati dalle prodezze di Tony Wroblicky. Un idolo scoperto all’improvviso, mentre ci stiamo sedendo nella nostra angusta postazione e spariamo un’occhiata distratta verso il campo. Quello che vediamo è qualcosa di onirico: un lungo mancino, agile ma non agilissimo, che tira i tiri liberi con una sola mano. Mettendosi l’altra dietro la schiena, quasi a non voler avere la tentazione di appoggiarla sulla palla. Un Anthony Mason in chiave bianca e moderna insomma, senza voler scomodare il Riccardo Pittis che tirava così perchè costretto, non certo per scelta sua. Peraltro, a differena dei primi due, Wroblicky – di cui non avevamo mai sentito parlare, a voler essere onesti – tira i liberi con il 72%, aggiungendo 12 punti, 7 rimbalzi, quasi il 60% dal campo. Un rappresentante degnissimo di quella Patriot League che John Feinstein ha raccontato magicamente nel suo libro “The Last Amateurs”, in cui racconta delle gesta di ventenni per cui il dogma “prima lo studio, poi il campo” vale veramente, e non per finta. Se poi tirano i liberi così e ogni due possessi partono con il gancione in corsa, allora ancora meglio. Opinione personale, ovviamente. Ma contiamo di avere dei seguaci.

Le seconda partita, quella tra Oregon e Brigham Young, doveva essere sulla carta equilibrata. Ma la carta, oltre che a scriverci

Tony Wrolicky (foto washington.cbs.com)

Tony Wrolicky (foto washington.cbs.com)

sopra fesserie, serve appunto ad alimentare stufe e caminetti. E così Oregon ha dominato dall’inizio alla fine, con un solo passaggio a vuoto a metà ripresa. Troppo fisici, atletici, dirompenti i Ducks per una BYU che con il tempo non ha perso nè il pelo nè il vizio: tiri nei primi cinque secondi dell’azione, poca fisicità, predilezione matta per il tiro da fuori. E difesa improponibile per questi livelli. E così, senza Jimmer a togliere le castagne dal fuoco, è finita maluccio. Ci ha provato a un certo punto Matt Carlino, play mancino dei Cougars, che con due triple ha riportato i suoi a -3. E’ stato quello il momento di massimo tifo dentro l’arena, sia da parte dei fan di BYU, che da quelli di Wisconsin, evidentemente più felici di beccare loro sabato invece di Oregon. Ma poi la partita si è aperta in due, trascinandosi verso un finale senza patemi. Così come senza scossoni è stata la sfida successiva tra Michigan e Wofford, nonostante la brutta serata offensiva dei Wolverines. Ci ha dato il tempo di scrivere, filmare, cose, rifiatare, pensando all’interessante giornata che si prospetta sabato. Ci sarebbe poi anche stata un’ultima partita in programma, tra Arizona State e Texas. Ma le energie erano in riserva da un bel pezzo, e abbiamo preferito tornarcene verso Chicago, visto anche che cento miglia non sono pur sempre antipatiche, anche dopo la fine de grande freddo.

E così, seppur con emozioni più parsimomiose rispeto al passato, anche questa giormata di basket se ne è andata svanendo. Interessante, per non dire simbolico, che l’applauso più lungo, sentito, e caldo arrivi quando lo speaker chiede a tutti i veteran dell’esercito di alzarsi. Ce ne sono centinaia, sparsi per tutta l’arena. Vengono ringraziati per aver servito il paese, mentre sul maxischermo sventola la bandiera a stelle e strisce. Se la NBA è un affare globale, un’azienda tentacolare nella sua  espansione verso nuovi mercati, il college basket, anche nella sua manifestazione più famosa, resta una vicenda troppo americana per essere esportabile. Certi valori – il patriottismo e l’onore ai militari su tutti – sono sacri, non negoziabili. E non verranno mai dliuiti per nessuna esigenza di mercato. Bello o brutto, decidete voi. Non è che poi serva sempre schierarsi, peraltro.

Twitter @andreabeltrama

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