Santa_Clara_Broncos_athletics_logoMesi di silenzio, senza che il mondo abbia smesso di girare. Ma l’aria di Marzo, più forte della retorica, ci ha risvegliato bruscamente. E così, mentre prende forma il tabellone, siamo andati a rispolverare una densa giornata, vissuta poco più di un mese fa. Poche ore ai confini della Bay Area, sufficienti per un tuffo nell’affascinante mondo di Gonzaga University e nel college basketball più duro e puro.

5 febbraio 2015

Arriviamo a San Francisco nel primo pomeriggio, accolti da una brezza beffarda. Nuvole, 15 gradi, vento moderato. Una combinazione tropicale, dopo che il giorno prima, nell’accogliente Chicago di inizio febbrario, ci erano voluti 35 minuti per grattare via ghiaccio e neve dalla macchina. Insomma, di nuovo in viaggio, come ai vecchi tempi. Motivazione ufficiale, l’ennesimo convegno di linguistica che cambierà la scienza, oltre che le nostre prospettive professionali. Motivazione sincera, una preghierina sull’altare del basket ci emoziona davvero. Soprattutto dopo dieci mesi di astinenza più o meno forzata. E allora college basket sia, sulla via di un’intrigante Santa Clara-Gonzaga con tantissima carne a fuoco. Anche solo per essere le università che hanno svezzato Steve Nash e John Stockton, i due playmaker migliori degli ultimi 30 anni di storia cestistica.

santa-clara-universityL’inizio della spedizione non è dei più facili. Dobbiamo dirigerci verso la Silicon Valley, peraltro già teatro della nostra vita per tre lunghissimi mesi (ne parleremo, prima o poi!). Peccato che nell’ecologica e salutista Bay Area raggiungere la terra delle startup con i mezzi pubblici sia un percorso a ostacoli senza esclusione di colpi. Prima prova: arrivare alla stazione del treno dall’aeroporto. Servono due trasferimenti sulla metropolitana, il BART che si vede nei film. Uno per salire, uno per prendere un’altra linea che ti riporta giù, lasciandoti finalmente alla stazione. Tempo totale: minuti 27, dollari 4.75, km 11 di ferrovia per 900 metri in linea d’aria. Seconda prova: aspettare pazientemente l’ineffabile Caltrain che collega – si fa per dire – la Silicon Valley al resto della baia. Del resto, chi lavora a Google gira con gli autobus aziendali con il wi-fi a banda larga. Chi ha gli immobili guida una Mercedes, probabilmente ibrida. E così, per l’uomo della strada e gli studenti di Stanford che si avventurano nel pendolarismo, l’unica soluzione rimane questo pachidermico convoglio a gasolio, rumoroso, inquinante, con più di biciclette che passeggeri a bordo (qualcuno le dimentica pure a bordo, a volte). Arriva con 10 minuti di ritardo, avvolto in una nuvola nera che sembra uscita da un quadro sulla rivoluzione industriale del Settecento. Per le 4 del pomeriggio sbarcheremo finalmente a Santa Clara. 2 ore e mezza per 50 km scarsi. Sembrava il treno stesso, un mito di progresso.

Nella lobby del Marriott, altri 10 km dalla stazione, Riccardo (Rick) Fois ci accoglie con immeritato calore. Da Olbia alla West Coast, la sua traiettoria è un’accozzaglia di mondi ed esperienze, partita con un improbabile scudetto Allievi vinto in squadra assieme a Gigi Datome. Poi le Nazionali giovanili, un anno di liceo in Alabama, il college a Pepperdine University – poco fuori Los Angeles –, una parentesi come giocatore professionista in Italia, il rientro a Pepperdine come assistente/studente nello staff tecnico, assieme a un Master in Business Administration. E ora Spokane, stato di Washington e sede del campus di Gonzaga. Aiuta lo staff, assiste nel reclutamento. Ma è solo l’ultima fermata di una strada ancora lunga. “La cosa bella di Spokane è che non c’è niente da fare. I giocatori si allenano il doppio per ammazzare la noia” ci racconta. Non si siamo mai visti, ma gli argomenti non mancano. Da buoni emigranti senza troppa nostalgia, parliamo di Sardegna e Stati Uniti, di torneo NCAA e di aspirazioni di carriera. Vuole allenare, ci arriverà. Intanto, si gode una gavetta che potrebbe esere ben peggiore. Ci salutiamo dopo una lunga chiacchierata. La partita si avvicina, il basket giocato chiama. E così, ciascuno per la propria strada, ci dirigiamo verso il Leavey Center, nel centro del campus di Santa Clara University.

santa clara fansL’ambiente dentro la palestra è classico. Ma di un classico che non annoia mai. Alle 19.15, quasi un’ora prima della palla a due, un lato degli spalti è già stracolmo. Gonzaga è la numero 2 della graduatoria nazionale, ha perso solo una partita, ha fama e storia. Per le squadre di una conference di medio livello, è l’avversario più difficile e stimolante. Il modo ideale per ricreare sulle tribune entusiasmi che non si vedevano dai tempi di Steve Nash. A pochi centimetri dal campo, una fila di studenti a torso nudo canta e salta. Dietro, personaggi con occhiali di dubbio gusto reggono cartelli. Il rumore spacca già le orecchie. E’ un coacervo di chiasso, ignoranza, entusiasmo e pettorali, innaffiato da una buona dose di alcol. Gente di buona famiglia, certo, racially homogenous (bianca, in sostanza, con minoranza di origine asiatica) e senza troppe preoccupazioni dalla vita, visto che possono permettersi di passare quattro anni della loro vita in un campus a spese dei genitori. Eppure, non basta un labile rigurgito di coscienza di classe a farci passare l’ammirazione. Anzi, mentre osserviamo il tipo che agita forsennatamente il cartello Gonzaga is nada, ci sentiamo come un professore di liceo in camicia a quadri che canta la Locomotiva in coda al concerto. Nostalgici, malinconici, amareggiati per i tempi andati e le occasioni perdute. Ma in definitiva a nostro agio.

Folklore a parte, vedere college basket dal vivo ha un altro aspetto affascinante. Il minimalismo al potere: di turisti non ce ne sono, di strategie di marketing globali nemmeno, e la gente che è lì verrebbe alla partita anche se si giocasse in un garage con dentro due canestri. E allora, che si giochi in una palestraccia, nel Cameron, o in un Dome da 80mila posti, non ci sono distrazioni. Il focus è sulla partita, e nei tempi morti – che non mancano, tra 8 time-out televisivi e 5 ulteriori per ogni squadra –  si fanno due chiacchiere col vicino di posto o si sorseggia un po’ di coca-cola. La palestra di Santa Clara ne è la dimostrazione: studenti ammassati, panche vecchia maniera, corridoi per passare tra un settore e l’altro larghi mezzo metro. Non ha il fascino storico di un’antica cattedrale, nè ovviamente il tocco moderno di un impianto rinnovato: ma è abbastanza per permettere a chiunque di respirare basket a pieni polmoni, aiutato in verità dal telone di Steve Nash brutalmente appeso al muro di mattoni. Non proprio quello che succede in un’arena NBA, dove ogni angolo di spazio, ogni secondo disponibile lungo le 3 ore di partita è strategicamente occupato da un bombardamento ossessivo-compulsivo dello spettatore.

supertacosDopo un giro a fare fotografie a bordocampo, ci dirigiamo verso un tavolaccio dove due studentesse di Santa Clara servono dal sorriso imbalsamato hot dog di dubbia freschezza. Stiamo quasi per rimpiangere gli autogrill costruiti tra un settore e l’altro dello United Center, fino a che non ci siamo accorti dell’opzione super nachos. Una bacinella di patatine di tortilla cosparse di formaggio fuso, guacamole, fagioli, pomodoro e, perla inaspettata, frammenti di pollo alla griglia. Il tempo di pagare, prendere in mano il cartoccio fumante e sedersi nel nostro centimetro quadrato di tribuna stampa, con uno scout dei Knicks alla destra e uno dei Kings alla sinistra a farci generosamente spazio. Sotto di noi, la panchina di Gonzaga. Pochi metri più sotto, il figlio di Arvydas Sabonis che fa riscaldamento sotto l’incitamento di un centinaio di genitori e tifosi occorsi in trasferta da Spokane. E così, lontano da maxischermi e culti della personalità, da presentazioni roboanti e “Rose torna o non torna?”, la voglia di basket emerge più forte che mai.

Figuriamoci poi se la partita, con tutti i limiti tecnici del caso, è pure fantastica. Santa Clara, come tutti gli avversari degli Zags, ha deciso che deve fare la partita della vita. Spinti da pubblico e dall’assatanato Jared Brownridge, una guardia che percorre 10 vasche ad azione per smarcarsi salvo poi tirare qualsiasi cosa gli capiti in mano, i Broncos conducono le danze per tutto il primo tempo, in un chiasso che raramente abbiamo vissuto, pure in posti più illustri. Crolleranno, ma solo nella ripresa. Certo, il campo offre un’alternanza di prodezze e cappellate, di canestri rocamboleschi e tiri sbagliati da un metro. Ma l’intensità, il caos, la frenesia, la voglia di uccidersi su ogni palla è il collante che dà un senso alla trama, facendosi quasi apprezzare le centinaia di time-out come un’occasione per rirpendere fiato. Interessante che proprio questi elementi di agonsimo siano derubrucati gusto dell’orrido da quelli a cui il college basket proprio non piace. Punti di vista, preferenze personali. Eppure continuiamo a non capire perchè apprezzare la rumba di partite di questo genere sia incompatibile con il riconoscere – e per fortuna! – la straordinaria qualità della pallacanestro NBA. Spiazzati dal mistero, costreti all’insonnia, continuiamo nel dubbio a interessarci a entrambi i mondi, con la sola pretesa di avere una seconda porzione di quegli incredibili nachos.

brandon-clark-ncaa-basketball-gonzaga-santa-clara-850x560Che poi, a fare proprio i pignoli, la qualità del basket espresso da Gonzaga non è proprio da buttare via. Anzi. E’ un discorso che trascende questa serata, che affonda le sue radici nello scorso millennio: da quasi vent’anni gli Zags, guidati in panchina dal pacato e misterioso coach Mark Few, continuano a mettere assieme squadre che fanno canestro, giocano assieme, esaltano l’uso dei fondamentali, e danno sempre l’impressione di saper cosa fare su un campo di basket. Almeno nella metacampo offensiva. “Il mio segreto? Guardare più partite di Eurolega che di high school” ci avrebbe poi detto Timmy Lloyd, assistente di Few. E’ l’uomo che è andato a Malaga a prendersi il giovane Sabonis, e chiede al suo staff di segnarsi ogni gioco interessante che vedono in una partita, si qualsiasi categoria essa sia. I risultati si vedono. Guidati da Kevin Pangos, un play canadese con fisico da uomo d’ufficio e bulbo fluente che andava di moda in C2 Lombarda negli anni 2000, gli Zags chiudono la partita con un superbo 70% dal campo, frutto di scelte equilibrate tra perimetro e post basso. Ci sono anche troppe palle perse e la netta superiorità sull’avversario, ma faziosamente facciamo finta di niente. Preferiamo concentrarci sui massimi sistemi e pensare che vent’anni di grande basket non possono essere un caso, soprattutto in un mondo dove nessun giocatore può restare per più di quattro. Vuol dire che le squadre sono state assemblate, prima ancora che allenate e forgiate, con dei criteri precisi. E che a tenere alta la qualità non è il talento di uno o due giocatori, ma una filosofia di gioco che si concretizza ogni anno con dei nuovi atleti. Parole sentite e strasentite, proclamate da qualsiasi allenatore NCAA. Eppure, a volte, succede veramente.

Fine della partita. In compagnia di altri tre reporter, aspettiamo coach Mark Few fuori dallo spogliatoio. Pur da numero 2 della nazione, il seguito mediatico è quello che è, almeno in trasferta. “Non aspettarti chissà cosa. Tanto siete così in pochi che non vi si nota nemmeno” ci aveva detto scherzosamente l’addetto stampa degli  Zags. Esce il coach, ci parla senza fretta. Non ci sono muri sponsorizzati, non ci sono telecamere. Due telefoni, e un eroe che prende appunti su un taccuino di altri tempi. Chiacchieriamo di Sabonis, di Pangos, delle palle perse, del 70% dal campo. Per una volta, pure senza uscire dalle banalità, abbiamo l’impressione che ci sia una conversazione, più che una recitazione di frasi fatte. Poi si apre lo spogliatoio. Senza la necessità di difendersi dall’orda dei media, c’è un clima da post partita vero. Pacche, idiozie, asciugamani che volano, scherzi del quarto tipo. Chiediamo una raffica di cose al piccolo Sabonis, intimidito più che infastidito dalla nostra insistenza. Eppure ci risponde. A monosillabi, ma sembrano sinceri. Finita la doccia, la squadra si dilegua nel bus. Cena all’International House of Pancakes – catena pedestre di grandi abbuffate – poi tutti a dormire. Diciassettesima vittoria in fila, ma è una serata qualunque.

Ci concediamo un’ultima pausa, per salutare Rick. Due birre con lo staff. Si parla di tattica e cambi difensivi, mentre coach Few si trincera puritanamente dietro a una San Pellegrino. Ascolta, ogni tanto interrompe. Proprio come faceva con i giornalisti prima. Più che il capoallenatore, sembra un passante finito lì per caso. Poi, nel bel mezzo di una discussione, ci lascia in mano un piatto di alette di pollo, porge la mano e se ne va. Geniale noncuranza, la stessa che mostra in ogni time-out. La mostrerà pure oggi, 15 marzo, nel vivere l’ennesima Selection Sunday da vincente. C’è un’unica incognita, capire la testa di serie. E anche se arrivasse un’eliminazione precoce nel prossimo weekend, la stagione sarebbe comunque da incorniciare. First world problems, direbbero qui. Zeru tituli, risponderebbero con un ghigno i leader di opinione che ne masticano di sport. Peccato nel college basket non funzionerà mai così. Forse ci piace anche per questo. Oltre che per i super nachos, ovviamente.

twitter: @andreabeltrama