Il Mercedes Benz Superdome, sede della prossima Final Four NCAA

Brutto destino quello di essere italiani e adorare il college basket. Significa essere in una posizione perennemente scomoda. Quando parli con gli Americani, ti guardano come se fossi un frammento di meteorite finito fuori orbita. Sai dove è Lexington e sei italiano?! Eppure, nonostante i tentativi dell’italiota di spacciarsi per competente, alla prima occasione utile l’interlocutore della Land of the Free vi spiegherà con grande sforzo che Duke e North Carolina play in the ACC Conference, you know, mentre Syracuse is in the Big East (sììììì, l’anno prossimo non più, era un trucco per verificare la vostra attenzione). Quando invece parli con un compatriota, a meno che questi non sia anch’egli rara vittima della tua stessa malattia, il discorso vira inevitabilmente sulla NBA. Ah sì, ti piace il basket americano? Sei mai andato a una partita dei Bulls? Ci è toccato sentire di tutto, a proposito. La mitica domanda su chi sia il più forte giocatore del mondo; l’amletico dubbio che toglie il sonno “meglio Kobe o Lebron”; o facce esterrefatte  che chiedevano “ma come il college? Ma nella NBA ci sono i migliori del mondo e tu li snobbi?”. Fino commenti costruttivi come quello di un noto ambasciatore italiano in NBA, che una notte candidamente ci disse, appoggiato a una panca in spogliatoio “Oh, a me la NCAA fa proprio cagare”. Colpiti nell’orgoglio, frustrati da questa totale mancanza di comprensione e conoscenza (si scherza… almeno in parte), abbiamo deciso di dire basta. Prendiamo spunto da una serata di zapping davanti ai tornei di conference per proporvi una manciata di validi motivi per spiegare la nostra attrazione fatale per la NCAA. Che, trattandosi appunto di attrazione, è solo in parte giustificata dalla ragione. Prima di iniziare, un importante disclaimer, altrimenti nota come l’arte di pararsi il sedere in anticipo. Le cose che diremo tra poco non costituiscono un’argomentazione per la superiorità della NCAA su qualunque altra forma di basket – lo diciamo prima che arriviate al punto 5 e pensiate che siamo completamente andati di testa. Il nostro è uno sforzo a favore della NCAA, non contro altri ambiti cestistici. E così, quelli che seguono sono solo alcuni motivi, sparpagliati come i pensieri a cui si intitola questa rubrica, per cui il college basket ci attrae come un magnete, trasformando marzo in un mese di indigestioni televisivo-telematiche a base di canestri e a discapito di qualsiasi scampolo di vita sociale. Non significa certo che giugno, con le NBA Finals e la finale del campionato italiano (mmm…) non ci emozioni. Semplicemente, lo fanno in modo diverso.

1 – Varietà tattica – Non siamo allenatori nazionali, e nemmeno abbiamo nemmeno il patentino da allenatore di base se è per questo. Quindi non venite a parlarci di playbook, partenze UCLA, staggers e astrusi adattamenti tattici. Però abbiamo visto abbastanza partite per farci un’idea del tipo di pallacanestro che viene giocato, in attacco e in difesa, e apprezzarne eventuali esiti positivi. E la varietà di stili e filosofie di gioco che troviamo nella NCAA è qualcosa che merita di essere sottolineato. Vuoi perché le borse di studio sono limitate, vuoi perché la concorrenza sul reclutamento è spietata, vuoi perché a volte (forse dovrebbe accadere più spesso…) avere dei voti buoni al liceo è una condizione necessaria per fare parte di una squadra. Per una serie di motivi, “fare la squadra”, come direbbero gli esperti di mercato, è un’avventura, che termina spesso con esiti strani. E così capita di trovare roster totalmente privi di lunghi, o infarciti di lunghi, o privi di realizzatori, o privi di atletismo, o metteteci voi quello che volete, e non sempre solo a causa delle convinzioni del coach. Proprio per questo, fare di necessità virtù è l’imperativo categorico. Senza possibilità di riparazione, si deve trasformare la debolezza in punto di forza. E così capita di vedere una squadra come Notre Dame che, perso il proprio realizzatore principe (quest’anno Abromaitis, tre anni fa Harangody), inizia a giocare a ritmi lentissimi, abbattendo drasticamente il numero dei possessi, e porta pure a casa delle grandi vittorie. O come Northwestern, che si gioca le ambizioni di torneo NCAA con un’ala piccola (John Shurna) schierato come centro e quattro esterni a scorazzare per il perimetro e a pressare a metacampo. Contro Ohio State, in una partita persa sulla sirena, i Wildcats hanno chiuso il primo tempo con 5 (!) rimbalzi presi in totale, e la partita con un -26 totale sotto le plance. A chi mostrava con entusiasmo la statistica in sala stampa, Thad Matta, allenatore di Ohio State, ha detto che “sì, chiaro, tutti fanno questi numeri a rimbalzo contro Northwestern. Il problema è che in molti, pur facendo questi numeri, non vincono lo stesso”. Va da sé che una tale varietà di identità e stili non si trova da nessuna altra parte. Di certo non nella NBA, dove gli adattamenti e le varianti esistono, ma coinvolgono dettagli microscopici del gioco, che sfuggono all’occhio dei più. Questo non significa che non siano importanti, ci mancherebbe, ma che queste differenze restano spesso sotto al radar, difficili da cogliere per lo spettatore (anche competente). Mentre le somiglianze tra le varie squadre, almeno a livello “macro”, sono molto più significative delle differenze. Al punto che Larry Brown, giocando con cinque piccoli in gara 3 della finale con i Lakers, passò per un pazzo visionario e innovatore (già passati 11 anni, aiuto!), mentre espedienti del genere, a livello NCAA, sono più o meno all’ordine del giorno per molte squadre, anche di prima fascia.

2- Intensità – Concetto banale, trito, ritrito. Non scopriamo certo l’acqua calda se diciamo che, quando si devono giocare 30 partite, si può investire in ciascuna di essere una dose di energie fisiche ed emotive che chi deve giocarne 80 non può permettersi. Soprattutto quando ciascuna di queste partite ha un peso specifico enorme: facendo un esempio europeo, per il Real di turno già qualificato, perdere sul campo del Prokom di turno ha valenza zero. Per la Michigan State in cima alla Big Ten, perdere con l’Iowa di turno ha conseguenze ben peggiori, in termini di “seeding” e implicazioni per il torneo NCAA. Ogni serata è un’occasione per una great win o una trappola per una bad loss, a prescindere da classifiche e record stagionali. Per questo ogni scontro è una battaglia, e per questo ci si può gustare fino in fondo anche partire che, dal punto di vista spettacolare, avrebbero ben poco da offrire. Almeno per un’idea dello spettacolo basta su canestri che fioccano, contropiedi, schiacciate e punteggi ai cento punti. Se invece si apprezza anche un tuffo sul parquet, un tagliafuori energico per un rimbalzo, uno scivolamento disperato per evitare un canestro facile, allora lo scenario cambia notevolmente. Non vogliamo dire che dobbiamo per forza godere quando una partita finisce 50-45, a volte capita davvero che sia solo ed esclusivamente una brutta serata. Suggeriamo solo che, a causa di un becero rapporto causa-effetto, i punteggi spesso rimangono bassi perché l’intensità e l’adrenalina sono a livelli stellari e rendono problematica l’esecuzione.

3- Democrazia – Essere un grande atleta o avere un gran fisico aiuta anche a questi livelli, ci mancherebbe. Ma non è una condizione necessaria per poter stare in campo, almeno nello stesso modo in cui può esserlo nella NBA o in un campionato professionistico. E così, è facile che giocatori dai grandi fondamentali o dai grandi istinti realizzativi – le due cose non vanno sempre a braccetto – possano trovare spazio e dire la loro in mezzo a giocatori che, a livello atletico, dovrebbero mangiarseli vivi. Non è un caso che, anche nelle piazze più importanti, i giocatori storici non sempre abbiano avuto carriere NBA di egual prestigio. Anzi, a volte non hanno nemmeno avuto una carriera NBA. Redick, McNamara, Harangody, Scheyer, e via con altri miliardi di nomi, fino al sottobosco di idoli locali che hanno perforato retine nel proprio college per quattro anni prima di guadagnarsi da vivere in campionati oscuri, o in cose che col basket c’entrano poco. Insomma, ci piace vedere che la forza bruta o lo stacco da terra non siano una linea spartiacque che divide chi può da chi non può stare in campo.    

4- Clima – Tra un go Bulls lanciato da pagliacci in maglia McDonald’s e un muro di fanciulle più o meno scoperte che gridano bullshit all’arbitro dipinte con i colori della propria università… beh, prendiamo le seconde, a nostro modesto parere. Così come prendiamo di buon cuore tutti gli aspetti folkloristici e quasi caricaturali delle “student section” delle tifoserie di college, anche se non sono coinvolte le suddette fanciulle. I canti, i salti, la banda che suona, le standing ovation, il campo invaso quando arriva una vittoria significativa. Così come l’atmosfera antica, superata, un po’ antiquata che si respira in molte arene NCAA, anche quelle importanti. A livello di college, si nota una partecipazione del pubblico al gioco e alle sorti della squadra che spesso è più forte dei risultati deludenti. Un po’ perché il senso di comunità locale attorno a un’università è più radicato di quello attorno a una franchigia NBA. E un po’ perché, pur in presenza di tanto marketing e di giri di dollari paurosi, la NCAA è rimasta in qualche modo a misura d’uomo, più vicina alla quotidianità. Anche e soprattutto come prezzi dei biglietti. Non è solo questione ti calore del tifo. E’ soprattutto il fatto che, dovunque ci sia capitato di vedere una partita di college, abbiamo sempre avuto la sensazione che il focus fosse sull’evento sportivo, pur senza esasperazioni di sorta. Cosa che invece è difficile da dire per certe situazioni nella NBA. Soprattutto quando il boato più rumoroso della serata è il canestro del centesimo punto che assicura il Big Mac gratis a tutti, come succede alle partite dei Bulls. Giova ricordare che 150 chilometri più a sud, a Urbana-Champaign, sede della University of Illinois, i tifosi sono in grado di regalare ovazioni per una buona azione difensiva, spingendo la squadra a difendere alla morte nei dieci secondi rimasti sull’orologio di tiro. E’ vero che con l’arrivo dei playoff tutto questo cambierà. Ma la differenza rimane troppo clamorosa per non essere notata. E non fraintendeteci: non ci vediamo niente di male nell’esultare per un hamburger, al punto che anche noi abbiamo con entusiasmo tratto vantaggio dell’offerta in varie occasioni.

5- Identificazione – Non solo quella della comunità con la propria squadra, ma anche quella dello spettatore davanti alla TV. Abbiamo appena finito di vedere un’emozionante South Dakota State – Western Illinois, finale della Summit League. Due squadre totalmente sconosciute (non abbiamo paura di ammetterlo) prima d’ora, finite in diretta nazionale su ESPN2 per i meravigliosi meccanismi della Championship Week. E’ finita 52-50 per SDS dopo un supplementare (ugh!), e più volte, durante la partita, ci è sembrato di rivivere emozioni già attraversate di persona. Il livello scadente del gioco, le botte da orbi, la tensione della gara secca: sembrava una finale promozione di serie D (anche se a quel livello abbiamo giocato solo partite di playout, ma sempre gare secche sono…), con annessi e connessi. Compresi personaggi come Nate Wolters, piccolo cannoniere di SDS che ha chiuso con 5/22 dal campo, e ha praticamente tirato qualsiasi cosa gli sia passata in mano, salvo poi scaricare a un compagno per il tiro decisivo. Proprio come certi analoghi  giocatori/bombaroli che si aggirano nelle nostre minors, anche se questi ultimi difficilmente passano l’ultimo tiro. Ad ogni modo, è difficile immedesimarsi così quando in campo ci sono Derrick Rose e Lebron James. Qualcuno dirà che è semplicemente l’effetto catartico dato dal vedere l’uomo qualunque. Un po’ come succede a chi guarda il Grande Fratello e Maria de Filippi. Beh, noi nel dubbio ci teniamo strettissimi South Dakota State e Nate Wolters. Qualunquisti e felici.