beltramaCOLUMBUS, Oh. – Pensieri disordinati dall’Ohio. Un modo come un altro di tornare ai vecchi tempi, quando bastavano un bus a basso costo, un infimo motel e una partita di Big Ten per essere felici. L’occasione era propizia, con i Bulls in trasferta e Ohio State-Indiana in calendario. College basketball at its finest, e un altro emigrante da andare a trovare: Amedeo Della Valle, che proprio su questo sito ha spesso raccontato in prima persona la sua avventura. E’ bastato percorrere 350 miglia di autostrada tutte di un fiato, su un autobus dall’autista scorbutico e la clientela variamente assortita. E’ parte del gioco, non necessariamente la peggiore.

1)      Amedeo, innanzitutto. Non è entrato, come quasi sempre gli è capitato quest’anno nelle partite punto a punto di questa stagione. No big deal, soprattutto se sei un freshman. Soprattutto se giochi nella Big Ten di quest’anno. Soprattuto se il tuo allenatore è Thad Matta. Un leader carismatico e propositivo, che però per oscure convinzioni religiose non usa mai più di sei giocatori nelle sue rotazioni. E infatti Amedeo, saggiamente, non ci dà troppa importanza. Anzi, è sembrato genuinamente contento della grande occasione che si è conquistato. Allenarsi duro. Godersi lo status di superstar di cui ogni giocatore viene investito in questo posto. Assorbire una cultura cestistica e sportiva che in Italia, senza mezzi termini, non esiste. Senza dimenticare la parte scolastica, che per il John Wall della situazione è una farsa, ma per un giocatore “normale”, con una borsa di studio “normale”, è un dovere irrinunciabile, pena la fine di tutto. Della Valle sta facendo tutto bene. La sua media dopo il primo semestre era eccellente (3.7 su 4, per un giocatore di basket 3 è già considerata altissima). La sua testa è di quelle giuste. Ce lo ha confermato anche Chris Jent, assistente allenatore di Ohio State ed ex califfo della Bipop Reggio Emilia i fine anni ’90. “Diventerà un giocatore super, si vede che ha la mentalità giusta” ci ha detto. Non resta che aspettare. 

2)      “They kicked our ass”. Jent, sempre lui, ha sintetizzato così la partita, dopo la rotonda vittoria di Indiana. Una squadra che ha iniziato la stagione in cima ai ranking, e che sta mostrando davvero di avere qualcosa di speciale. Nessuno, al momento attuale, gioca una pallacanestro di questa qualità.  La combinazione di comprensione del gioco e spirito altruistico esibita da questo gruppo è semplicemente unica. La palla si muove, i buoni tiri arrivano, i giocatori giusti per segnarli ci sono. Ci sono anche dei limiti: la tendenza a non saper gestire i finali di partita, e l’assenza di muscoli in area ad esempio, anche se, tutto sommato, quest’ultimo è anche un punto di forza. “If anything, we overhelped” ha detto Tom Crean, coach degli Hoosiers, a fine partita. “Se proprio, abbiamo aiutato troppo”. Un problema che molti allenatori vorrebbero avere. Così come molti allenatori vorrebbero avere un giocatore come Cody Zeller. Che segna dal post basso, tira dalla media, va in entrata, prende sfondamenti e tira giù rimbalzi. Incredibile come riesca a prendere posizione e guadagnare terreno ogni volta che riceve la palla nei pressi del canestro. E’ magro, quasi filiforme, eppure sa usare così bene il corpo in avvicinamento che verrebbe da pensare che, in realtà, pesi 15 kg in più. Del resto, è cosa nota che in Indiana l’apparenza inganna. Sin dai tempi in cui un raccoglitore di fieno con la faccia da contadino portava alla finale NCAA un’università sconosciuta, tra lo sgomento generale.  Si chiamava Bird, Larry Bird. Niente paragoni con Zeller, ma solo un messaggio da tenere a mente. Mai giudicare dall’aspetto, quando c’è di mezzo qualcuno che viene da questo stato.

Amedeo Della Valle

Amedeo Della Valle

3)      A proposito di Indiana e di Zeller. A fine partita ha speso quasi dieci minuti in compagnia di Will Perdue. Un idolo degli anni ’90, figura di riferimento indispensabile per chiunque sia cresciuto cestisticamente in quell’epoca. Adesso fa il commentatore radio. Ai tempi era colui che schiacciava sugli assist di Jordan negli highlights delle videocassette, e uno dei bersagli preferiti delle frecciate di MJ. Detto “Il Pollo”, perchè quel cognome è anche una marca di pollo surgelato diffusa negli USA. E anche perchè, onestamente, era tutto fuorchè un fenomeno. Ciònonostante, ha passato appunto dieci minuti abbondanti a catechizzare Zeller su come prendere posizione in post basso, come usare i piedi, come muoversi. Che dire, speriamo che la star degli Hoosiers non abbia ascoltato troppo attentamente. O forse dovremmo sperare il contrario?

4)      In termine di ambiente, pochi posti ci hanno fatto impressione come la Value City Arena. Studenti in fila dalle 6 del mattino per prendere i posti migliori. Tende, giochi di carte, pizze per ingannare il tempo. Un bordello incessante durante la partita, anche se i Buckeyes non sono praticamente mai stati avanti. “Quest’anno gli abbonamenti per gli studenti sono andati via in 4 minuti. 4 minuti. Stiamo cercando ci costruire una vera cultura di pallacanestro, questa non può essere solo una football school”. Un altro ha aggiunto “Tutti bravi a Duke quando stanno fuori in tenda con 15 gradi. Qui siamo vicino allo zero, e non facciamo tante storie”. Sono scene viste e riviste, in vari campus, eppure sempre toccanti.  Alle 9 del mattino, quando siamo passati a dare un’occhiata, c’erano forse 5 gradi, resi pesanti da un’umidità da Pianura Padana. La coda si allungava fino a formare un serpentone impressionante. “Se non ci divertissimo, non non lo faremmo” dicevano tutti gli interpellati. Vorremmo prendere tutti quelli che “gli americani non sanno tifare e vanno alla partita solo per mangiare” e portarli qui. Probabilmente inorridirebbero, alla vista di quelli con la felpa di Indiana e quelli con la felpa di Ohio State che giocano a carte assieme sul prato semi congelato. Un insulto alla cultura sportiva, davvero.  

5)       Infine, Columbus. Luogo misterioso e sconosciuto, anche se è la città più grossa dell’Ohio. Qualcuno la conosce per il mitico Columbus Crew, la squadra di calcio della MLS che si sceglieva prima di masochistiche partite a Fifa ’96. In realtà è la sede di una delle università più grosse degli States, e pure valida dal punto di vista accademico. Il punto di riferimento universale è High Street. Una via rettilinea e un po’ in pendenza che segna il confine del campus per una manciata di chilometri, separando l’impero universitario dal resto della città. High Street è classica, quasi prevedibile nella sua alternanza di Bookstore, pub alla buona, catene di ristoranti e fast food, colori e insegne. E’ l’abbeveratoio di un corpo di 60mila studenti, che formano una vera città nella città. Basti pensare che per percorrere il campus da un estremo all’altro ci vuole quasi un’ora. Anche se metà del tempo, va detto, serve solo a circumnavigare le abbacinanti strutture sportive. Lo stadio di football. La piscina olimpica. E poi, al di là del rancido Olentangy River, la Value City Arena, dove giocano basket e hockey, e altre decine di campi e campetti, compreso il Buckeye Field, per il baseball. Ma la cosa più abbacinante, forse, è il Recreational and Physical Athletics Center. In sostanza, la palestra per gli studenti “normali”, a cui possono accedere con il loro tesserino e giocare a qualsiasi cosa venga loro in mente. Tanto, là dentro, ci sono attrezzature per ogni attività, anche quelle che non sono state ancora inventate. A noi italiani abituati ai pavimenti in gomma, vedere queste strutture fa sempre un certo effetto. Quella di OSU, però, è talmente, sfacciatamente mastodontica da risultare eccezionale anche per gli standard americani. Un mostro a quattro piani, ricoperto di vetri a specchio, con un gigantesco cafè/ristorante all’ingresso e un welcome center dedicato ai visitatori. Ci sono 6 campi da basket, piu canestri aggiuntivi possono essere calati dal soffitto. Apertura 18 ore al giorno.  Serve davvero aggiungere qualcosa?

 Su Twitter: @andreabeltrama