Cooley (AP Photo)

Dopo lunghi mesi di assenza, torniamo a imporvi i nostri logorroici pensieri. Non dite che sentivate la mancanza, non ci crediamo. Da parte nostra, nessuna scusa. Vogliamo però puntualizzare che quello che ci ha tenuto lontano non è, nè mai sarà lo scrivere di basket in sè. Fosse per noi, lo faremmo tutti i giorni. Il problema, semmai, è che scrivere di basket non può darci nè un visto, nè un assegno con cui pagare l’affitto.  Figuriamoci scrivere di college basket (detto con la stessa intonazione di practice nella famosa conferenza stampa di Allen Iverson. Tipo “We’re talking about college basketball”). E così, tocca fare altro, e ci vuole un provvidenziale attacco di influenza autunnale nel fine settimana per convincerci a mettersi sul divano, prendere una bella coperta e accendere la tv. Tra una botta di tachipirina e l’altra, la programmazione di ESPN era abbastanza ricca da scacciare via ogni pericolo di noia.

La partita che ci ha regalato più spunti è stata la vittoria di Notre Dame su Kentucky. Un po’ perchè conosciamo bene quel posto, e abbiamo ancora ben fresco il ricordo della storica vittoria degli Irish sull’allora numero 1 Syracuse, lo scorso gennaio (https://www.dailybasket.it/ncaa/andrea-beltrama-disordered-thoughts-magie-da-notre-dame/). E un po’ perchè quello che è abbiamo visto giovedì sera ci ha ricordato che la pallacanestro, collegiale e non, è un gioco molto semplice. Prendi un gruppo di diciottenni di grande talento e avvenire. Li metti contro un gruppo assortito di white stiffs (“cadaveri bianchi”, termine con cui ci si riferisce ai giocatori poco atletici) che però hanno la mente sveglia e giocano a questo livello già da un paio d’anni. A meno che i diciottenni non siano già dei fenomeni, di solito vincono gli white stiffs. Soprattutto se giocano in casa e sono pure ben allenati, senza nulla togliere al coach dei giovani fenomeni.

La partita di giovedì, semplificando molto (Eric Atkins e Jerian Grant non sono nè white nè stiffs, ma non sono nemmeno dei McDonald’s All American, se è per questo), si può riassumere così. Dominando ogni dettaglio del gioco, a livello tattico e mentale, Notre Dame ha spostato la sfida sul piano cerebrale, massacrando gli avversari. In attacco ha mosso la palla con pazienza quasi esasperante, costruito i tiri giusti, attaccato il canestro quando era necessario farlo. In difesa ha tappato le corsie di penetrazione più scontate, sfoderando la zona che ti costringe a pensare. Sembrava una partita tra due squadre giovanili di diversa categoria di età. Anzi, era proprio una partita tra due squadre giovanili di diversa categoria di età. Under 19 contro Under 21, o metteteci voi quello che volete. Già, perchè uno dei modi più belli di godersi la NCAA è quello di viverla “al presente”, mettendo tra parentesi le (pur sacrosante) considerazioni scoutistico-profetiche sulle prospettive future dei vari giocatori. E se si guarda al presente, non si può non notare l’affascinante diversità di stili, giocatori, carriere, prospettive che vi si rimescolano. Un mischione reso ancora più eterogeneo dagli effetti della “one and done” rule, che ogni anno fa confluire nel calderone almeno una decina di giocatori che sono generalmente: a) tremendamente talentuosi, b) tremendamente inesperti, c) tremendamente di passaggio. Il risultato? Ogni tanto saltano fuori partite come questa, in cui la squadra infarcita di prime scelte viene portata a scuola da quella che, se tutto va bene, avrà due giocatori scelti nei prossimi 3-4 anni.

Su questo terreno, è apparsa quasi imbarazzante la differenza tra Jack Cooley e Nerlens Noels, due rivali in area giovedì, due “student athletes” senza praticamente nulla in comune nella vita di tutti i giorni. Noels è un ’94, reclutato e iper-reclutato, atletico, arrivato come migliore prospetto nazionale tra quelli della sua età, il cui percorso verso Kentucky è già stato oggetto di indagini approfondite da parte della NCAA (senza però nessuna irregolarità riscontrata, va detto). Non si trova stringa di testo che parli di lui senza che nelle vicinanze ci siano anche parole come “star”, “sensation”, “talent”. Verosimilmente, potrebbe essere una delle prime cinque scelte del prossimo draft.

Cooley è un ’91, senior, un po’ nerd, ex patito di videogames a livello patologico. Nelle prime due stagioni agli Irish lo si notava solo per l’allucinante somiglianza fisica con Luke Harangody, stella degli Irish dal 2006 al 2010.  Poi l’anno scorso è esploso dal nulla mostrando un efficace, per quanto poco estetico, gioco in post, mani dolci, energia da vendere a dispetto di un fisico nè potente nè atletico. Uno stile, per ironia della sorte, proprio simile a quello di Harangody, da cui sembra avere raccolto buona parte dell’eredità. Verosimilmente, potrà aspirare a una chiamata al secondo giro nel prossimo draft, oppure a una decente carriera europea. Quattro anni fa, quando si unì agli Irish da freshman, poteva giusto aspirare a vedere il campo nel garbage time, magari infilando il desiderio nel momento di preghiera che ogni Irish è tenuto a osservare prima di giocare.

Obiettivi diversi, vite diverse. Ma in una singola partita tutte le le considerazioni circa talento, All American, mock draft, NBA, one-and-done  passano in secondo piano. E così capita di vedere Cooley che, a colpi di…culate (gioco di parole assolutamente voluto), spintoni, spallate, fa a pezzi tutto il reparto lungo avversario. Il dominio di Jack sotto le plance non è minimamente fotografato dalle statistiche, peraltro sgonfiate dai ritmi bassissimi della gara. Chiunque abbia visto la partita non può negare che il centro degli Irish abbia davvero banchettato là sotto, andando anche a prendersi, nel finale di partita, quei rimbalzi offensivi che hanno sigillato la vittoria, e che sarebbero stati teoricamente ben al di là del range concessogli dai suoi mezzi atletici. Sembrava un gigante tra i bambini, non tanto per statura, quanto per abitudine a questo livello di competizione, a questo tipo di intensità, a questo tipo di pressione. I 3 anni in più di esperienza, e la maturità di chi ha dovuto costruirsi tutto dal nulla, sono emersi in maniera impietosa.

Stiamo parlando di una singola partita, peraltro giocata a fine novembre. E non stiamo parlando di nulla di sorprendente. Calipari stesso, a volte geniale nella capacità dialettica di pararsi le natiche, aveva previsto tutto. “Giocheremo bene a gennaio, ma fino ad allora aspettatevi del gran casino”. Eamonn Brennan, ottima penna dello stesso network, aveva commentato con solide argomentazioni che la vittoria di Notre Dame, vista la disparità di esperienza con l’avversario, non aveva nulla di così incredibile. Nè questa partita avrà chissà quali implicazioni sul futuro dei giocatori. A meno di scossoni, Noel sbarcherà in NBA tra pochi mesi, e tra un paio di anni nemmeno si ricorderà più il nome di Cooley. Eppure, la lezione dello scontro di South Bend è limpida, cristallina. Grazie al suo panorama variegato, la NCAA è ora più che mai in grado di offrire alcuni di questi “uno-contro- uno-in-cortile” in diretta nazionale. Partite in cui il futuro campione le prende di santa ragione, per il semplice fatto che non è ancora pronto, anche per motivi anagrafici, a questo tipo di competizione. Un po’ come quando Larry Jordan batteva sistematicamente Michael Jordan nel canestro sul retro della casa di Wilmington, NC.  Di lì a qualche anno, le cose sarebbero cambiate radicalmente, come probabilmente cambieranno per Noel e Cooley. Intanto, però, la loro sfida in cortile l’abbiamo potuta vedere. Grazie alla NCAA.