Non ho ancora chiesto Time-Out

Per esser bello, era bello. E forse quella bellezza ombrosa ha in parte offuscato la sua bravura. No, non è vero. Alberto Tonut, “mulo” triestino, patria cestistica quant’altre mai, è stato ben apprezzato per le sue qualità tecniche. Tonut fra Mitteleuropa e Mediterraneo, una vita fra l’asburgica Trieste e la tirrenica rossa Livorno, giuliano e labronico. E anche un po’ isontino (due stagioni a Gorizia) e brianzolo (tre splendidi anni in quel di Cantù).
figliolia

Classe 1962, 202 cm, forza fisica e versatilità, tiro e presenza atletica, vent’anni ai massimi livelli (16 di A1 e 4 di A2), esordio ai massimi livelli a 17 anni, quasi 7.000 punti nel carniere, 16.761 minuti giocati (record per un cestista di Trieste), 89 presenze e 509 punti in azzurro con la corona del magico oro continentale di Nantes ’83 e dell’altro oro ai Giochi del Mediterraneo, edizione 1993. Insomma, una carriera coi baffi, invidiabile.

Giocatore silenzioso ed efficace, Tonut s’esprimeva con la forza dei fatti. “Era un’ala atipica per i tempi: fisico da 4, gioco da 3 […] Avesse giocato sempre in squadre di vertice, avrebbe fatto una grande figura. Il mio grosso rammarico è di non averlo avuto nella mia squadra. Avrei vinto due scudetti in più”, così al suo riguardo si esprimeva Il Piccolo Grande Uomo, aka Dan Peterson. Quello scudetto che Tonut riuscì solo a sfiorare nella stagione 1988-89 in una leggendaria serie finale disputata da Livorno contro l’Olimpia Milano e conclusasi alla quinta in Toscana per 1 punto a favore dell’équipe allenata da Franco Casalini, che aveva ereditato la panchina proprio dall’uomo di Evanston, Illinois. Fu la partita in cui Bob McAdoo scippò con un tuffo, da dietro, la palla a Tonut lanciato in contropiede, la gara del canestro di Forti un sibilo di tempo dopo lo scadere, prima convalidato e poi annullato, con Livorno a illudersi per poco come campione d’Italia (vedi titoli dei TG d’epoca). Fu la partita dell’Ariete di Spresiano Roberto Premier e dell’asciugamano in faccia al telecronista De Cleva. Con Tonut in campo per la parte livornese c’erano tali Fantozzi, Carera. Alexis, e in panchina l’immaginifico Alberto Bucci. Grandissima serie, grandissima, così come eccezionali furono i protagonisti, sia fra i vincitori che fra gli sconfitti.

Questa e altre vicende racconta Alberto Tonut nel suo libro autobiografico, scritto a quattro mani con Severino Baf, Non ho ancora chiesto Time-Out (Battello Stampatore). Un libro datato 2006, ma nient’affatto datato per i brillanti ed evocativi contenuti. Un viaggio dai Ricreatori alle Olimpiadi, con uno stupendo corredo di foto in bianco e nero, dagli albori del basket nella città di Cesare Rubini, Giluio Iellini, Gianfranco Pieri et alii, dalla Ginnastica campione d’Italia già negli anni Trenta, ai 210 cm di Ron De Vries, dal Dado, il vulcanico Gianfranco Lombardi, all’eccentrico Rich Laurel, uomo dal quarantello facile, un itinerario esistenzialcestistico che s’impenna per poi andare a ritroso e riprendere la corsa in avanti, fra memorie e partite indimenticabili, ascese in paradiso e discese agli inferi, fra prestazioni super e aneddoti altrettanto indimenticabili.

Il libro di Tonut e Baf è un atto d’amore verso Trieste, ma anche verso gli altri luoghi cestistici frequentati dall’Alberto (Dalla bora al libeccio), e un tributo alla storia, sentimentale, del gioco della palla a spicchi. Interessantissime difatti sono le schede-digressioni nel passato più remoto, così come le inserzioni relative a straordinari compagni nel percorso. A quest’ultimo riguardo esemplare il ritratto che viene tracciato di Marco Lokar, triestino che ebbe la ventura di andare a giocare coi Pirati di Seton Hall, a South Orange nel New Jersey: “Non ci metterà molto a laurearsi in economia aziendale superando brillantemente 33 esami. Raccoglie una lode pure nel basket segnando 41 punti contro Pittsburgh, exploit che gli fa guadagnare titoloni sulle riviste specializzate e riconoscimenti nella Big East. In squadra fra gli altri trova il lituano Arturas Karnishovas che segnalerà inutilmente a Trieste e quel Terry Dehere futuro protagonista dell’NBA. Scoppia la Guerra del Golfo e i giocatori sono “invitati” ad abbellire la loro divisa con il triangolino USA, cosa che Lokar rigetta. La sua non vuole essere una sfida. È di origine slovena e non vede occasione migliore per risvegliare le coscienze nell’ambito sportivo, convinto che la vera patria sia quella in cui s’incontra più persone che si somigliano. Gradirebbe esibire un distintivo dell’ONU piuttosto che assoggettarsi alle regole di un gioco divenuto “pallacapestro”. P.J. Carlesimo, l’allenatore che prima di essere assistant coach a San Antonio salirà alla ribalta per un tentativo di strangolamento subito da parte di Latrell Sprewell, un concentrato di talento e violenza, gli suggerisce di lasciar decantare la vicenda. Invece il caso si complica e ai fischi nei palazzetti si aggiungono le minacce di morte. Con la moglie Lara in attesa di Alice la via del ritorno è segnata, nonostante la protezione dell’FBI”. Un capitolo che andrebbe citato per intero, ma perché togliervi agio e sfizio e sorpresa? Un plauso a Tonut e Baf per avere riportato questa drammatica e pur meravigliosa storia di coraggio e coerenza.

E prosegue, dopo Livorno, l’avventura di Alberto: Cantucky, l’angolo della squadra-famiglia; la riconquista dell’azzurro; innumerevoli compagni di gioco e di sfide, quali Dino Meneghin, Dejan Bodiroga e Nando Gentile; ancora un excursus nel passato con il diavolo rosso, alias Radivoj Korać o Mister 99 (tanti i suoi punti in una partita di Coppa dei Campioni). “Bastava consegnargli il pallone e il nostro compito poteva ritenersi concluso”, ricorda Franco Pozzecco che con lui aveva giocato a Padova nella stagione 1968-69. “Vedi “Turco” – amava ripetere Radivoj Korac all’amico Tanjević – quella frenesia portata dagli americani nella preparazione non mi convince. Per valutare un giocatore introdurrei due esami: il test dell’intelligenza e una partita a scacchi”. Sublime. Korać morì in un incidente d’auto a soli 31 anni. Per lui l’empireo del basketball.

E ancora… Ritorni di fiamma e allenatori-fiammiferi; Nessun miracolo nella “cesa dei s’ciavoni”; Mani sante e mani lunghe; Il tendine del morto in tasca; Voli spezzati e sogni infranti; Con troppe uscite sul giro d’aria; Le scarpe del settimo cielo. Titoli peraltro di notevole sapienza creativa.

Eccellente anche la parte statistica: le formazioni di Trieste dal 1974-75 ; i derby del Friuli-Venezia Giulia; i top delle varie classifiche, i record di squadra e individuali; i ragazzi di Trieste in azzurro, da Luciano Antonini a Renzo Vecchiato.

La chiusa del libro è oltremodo commovente e segnala la cifra umana di cui è portatore Alberto Tonut, immenso in campo e fuori: “Oggi che possiamo vedere tutto, ha scritto Pietro Veronese su “Repubblica” a proposito di un reportage fotografico lungo tredici anni, non siamo disposti a guardare. Tendiamo, cioè, ad allontanare le cose che ci disturbano, pur nella consapevolezza che la forza di un’immagine spesso supera il contenuto di molti articoli perché viene stampata dentro di noi. Come questa (gentilmente concessaci da Henning Lillegard/Dagbladet) della palestra di Beslan spogliata dei suoi angeli. Nel nostro piccolo non dimenticare significa adoperarsi per salvare quanti si sono salvati. Restituire il gioco vuol dire anche rimarginare il sorriso di giovani vite già segnate e dare una risposta all’indifferenza, evitando l’assuefazione alle più spaventose delle violenze, pensiamoci, quando il nostro animo è in subbuglio per la fatuità del risultato riguardo alla cosiddetta squadra del cuore. Proprio vedendo quel campo di basket dilaniato, il poeta russo Evgenij Evtušenko ha voluto dedicare una poesia alla scuola di Beslan, nell’Ossezia del nord, dove furono massacrate centinaia di persone, fra le quali moltissimi bambini (172 delle 331 vittime). Abbiamo scelto due versi finché ci sono ancora bimbi vivi/ non dimentichiamoci la parola “insieme””.

Onore ad Alberto Tonut.

ALBERTO FIGLIOLIA