INCROCI (Prima Parte)

Vito Baccarini, Gustavo Laporte, Manzotti, Arrigo Muggiani, Marco Muggiani, Giuseppe Sessa. All. Arrigo Muggiani. Anno Domini 1923. Secondo campionato nazionale sotto l’egida della FIB, vale a dire Federazione Italiana Basketball, costituitasi nel novembre 1921 e poi divenuta FIPAC, Federazione Italiana Palla al cesto (solo dal 1929 fu assunta l’attuale denominazione FIP). Il torneo fu vinto, con i nomi citati in apertura, dall’Internazionale Milano. Sì, proprio la società neroazzurra, che allora manteneva pure una sezione cestistica. Ciò secondo gli interisti cestofili assegna un innegabile punto di vantaggio sui cugini milanisti, che al massimo possono vantare l’Adriano Galliani nel novero della palla a spicchi con una partecipazione, fino ad alcuni anni or sono, della Pallacanestro Olimpia Milano.

L’internazionale Milano si aggiudicò il titolo dopo una manciata di 8 partite complessive del torneo, disputate a partire dall’8 aprile 1923 e concluse il 30 maggio. Per aggiudicarsi il titolo i giovanotti dell’Inter batterono la Ginnastica Comense (22-12) e l’U.S. Milanese (42-39), mentre con l’Assi Milano una volta non giocarono per l’impraticabilità del campo e del secondo scontro, come per altre gare, non è disponibile il risultato (sic!). Contro la Costanza Milano neppure giocarono. A ben vedere, si trattava di un campionato milanese con un’incursione lariana. Ma tanto bastò per entrare nell’albo d’oro.

Non è tanto diffusa nel Bel Paese la tradizione della Polisportiva, di un’alma mater che favorisca e in cui confluiscano più discipline, salvo alcune lodevoli eccezioni e quella dell’Inter e fu una. Nel presente citiamo la Lazio Basket (C regionale) e ci piace citare l’altra aquila, quella della Fortitudo, che con la sezione tennistavolo ha vinto svariati tricolori.

Invero con questo articolo di divagazioni vorrei sviscerare i punti di contatto (pochi ma storici e godibili) e gli incroci, in Italia, fra questi due mondi: football e basketball, calcio e pallacanestro. Il caso più eclatante è senza dubbio dato da Elliott Van Zandt, capitano dei marines, che seppe essere prima allenatore della Nazionale italiana di basket e poi preparatore atletico del Milan campione d’Italia alla fine degli anni Cinquanta. Una storia raccontata nella sua preziosa autobiografia, Il futuro di ieri-Quando il calcio è umanesimo (Albalibri editore, 2007, pp. 188, euro 14,50), da Luigi Cina Bonizzoni, classe 1919, uno zio terzino e capitano del Milan negli anni Trenta, lui già giocatore nelle giovanili rossonere, poi alla Pro Vercelli e alla Cremonese, infine allenatore di alto bordo sino a sedere sulla panchina del Milan campione d’Italia 1959, con i campioni del mondo Juan Alberto Pepe Schiaffino e José Altafini. Uno, tanto per intenderci, che aveva fatto esordire in serie A certi Trapattoni e Dino Zoff. Il quale, non ancora ventenne portierino di belle speranze, ne beccò subito 5 (contro la Fiorentina, con due doppiette di Aurelio Milani e Kurt Hamrin, 24 settembre 1961): erano entrambi, Luigi Bonizzoni e il SuperDino del calcio, nei ranghi dell’Udinese.

Il Cina, che sarebbe poi stato a lungo nei ruoli tecnici di Coverciano, oltre a esercitare il mestiere di divulgatore con una miriade di magnifici testi tecnici, era un allenatore lungimirante. Scorriamo le sue parole in merito alla collaborazione con l’ex ufficiale dei marines: “Mi trovavo ora con Elliott Van Zandt che il presidente del Milan Andrea Rizzoli era andato a prendere in Toscana. Rizzoli arrivava sempre prima di altri in ogni cosa e sapeva, nel caso di Van Zandt, che si trattava di un patrimonio che non intendeva lasciarsi sfuggire. L’allora presidente federale del basket Aldo Mairano era andato a prenderlo a Camp Derby, in quel di Livorno. Van Zandt era capitano dell’esercito statunitense. Questo nero alto quasi due metri sarebbe diventato il C.T. della pallacanestro azzurra: correva l’anno 1947. Il coloured dell’Arkansas, ormai innamorato del nostro Paese al punto di chiamare Fiorenza la sua figlioletta, nata proprio nella città medicea, accettò di buon grado. Non sapeva il buon Van Zandt che sarebbe stato giubilato in malo modo quattro anni dopo, nonostante avesse trasmesso agli azzurri un patrimonio tecnico e umano d’inestimabile valore. La sua era una preparazione molto seria. “Attraverso la preparazione fisica si persegue l’accrescimento delle componenti motorie della prestazione”, soleva dire. Cioè la forza, la velocità, l’elevazione, la destrezza, la resistenza, la mobilità articolare e il rilassamento. Al Milan cominciò a lavorare scientificamente e intensamente. Con lui il Milan vinse lo scudetto, avendo in panchina come allenatore Giuseppe Viani nella stagione 1956-57 e nella stagione 1958-59 con me in qualità di unico responsabile della squadra. Purtroppo una grave malattia lo stroncò a metà della stagione 1959-60. Morì in aereo mentre andava a Chicago dai suoi familiari. Fu una grave perdita per il calcio: egli era precursore delle metodologie moderne d’allenamento. A lui dobbiamo riconoscenza”. Questa è la testimonianza di Luigi Bonizzoni.

Un altro importante caso e incrocio, anzi assolutamente eccezionale se non unico. Leo Picchi, classe 1921, venuto a mancare il 12 luglio 2005, livornese (un luogo, un bel refrain, che nel basket italiano sovente ritorna), scomparso da non molti anni. Farmacista, famiglia di antichi marinai, un nonno anarchico e uno repubblicano costretto all’esilio, fratello maggiore e mentore di Armando Picchi, da lui chiamato Armandino, indimenticato capitano della Grande Inter con cui vinse tutto in Italia e fuori delle Alpi.

Leo fu a suo tempo un calciatore di valore, al punto da militare in serie A con il Livorno (79 presenze e 12 reti) e, dopo la tragedia di Superga che decimò il Grande Torino, nei granata (57-3). La particolarità che contraddistingueva Leo, uomo di immensa sensibilità e intelligenza (leggete Capitano, mio capitano di Nando dalla Chiesa), era d’aver giocato in serie A anche con la pallonessa. Leo non “tenne chiusa la sua vitalità prorompente nei soli recinti dell’agone calcistico. Sport, sport e ancora sport. E in ogni sport un gruppo di amici, un modo di divertirsi, un’occasione per fare vita in comune. Giocare a basket con stralunate combriccole di squadra (prima l’Europa Nuova poi il Cama) che comprendevano, oltre ai dilettanti non alti come lui, cestisti emeriti della serie A”.

Sa com’è – si schermiva –, alla mia età se ci chiedono qualcosa del passato prima facciamo i timidi poi siamo presi dalla vanità e non ci fermiamo più, e magari incomincio pure con il racconto che sono stato uno dei pochissimi atleti a giocare in serie A sia nel calcio sia nella pallacanestro”.

Solo in un momento successivo il buon Leo aveva scelto definitivamente il pallone. La sua squadra di basket era il GUF Livorno che nel 1940-41, 1941-42 e 1942-43 stava nella massima divisione (un decimo, e due noni posti), campionati vinti dalla Ginnastica Triestina e, due consecutivi, dalla Reyer Venezia. Leo Picchi parlava sempre con entusiasmo della sua esperienza cestistica. Con/contro di lui calcarono il campo (non so se è corretto dire parquet) anche un certo Carlo Azeglio Ciampi (playmaker del CUS Pisa) il discobolo Tosi, poi primatista mondiale nonché argento olimpico a Londra ’48, e uno dei figli di Mussolini. Difatti, c’era pure una società che si chiamava Mussolini Roma. Chissà se fischiavano mai fallo contro il figlio del Duce o quanti gliene fischiavano a favore?

Ho giocato, nella stagione 1942-43, nelle file del GUF Livorno” (5 vinte e 15 perse, 392 punti fatti e 617 subiti, e fuori c’era la guerra) “Si giocava all’aperto e le trasferte erano veramente avventurose. Io ero un’ala di 175 cm (uno dei più alti). Ho giocato contro Tracuzzi, i fratelli Stefanini della Reyer e i fratelli Germano di Napoli, contro cui vincemmo una partita con un punteggio tipo 25-24 (l’altra finì 26-17, nda). I nostri allenamenti? Scatti e corsa frenetica. A Roma ci capitò di giocare, per la Coppa Bruno Mussolini, contro i Corazzieri del Re, che schieravano il discobolo Tosi, il quale, sulla prima palla a due, diede subito una botta tremenda al pallone e loro fecero immediatamente cesto”. Quel campionato lo vinse la Reyer che schierava De Nardus, Frezza, Garbosi, Garlato, Montini, Stefanini G., Stefanini S. Allenatore Vidal. Le altre partecipanti? Virtus Bologna, Mussolini Roma, Ginnastica Triestina, Borletti Milano, CRDA Monfalcone, ILVA Trieste, GUF Napoli, Giordana Genova, GUF Pavia. IL GUF Palermo si ritirò dopo la prima giornata.

A ogni modo, anche Armando Picchi era un amante del basket che da giovanissimo e da buon labronico aveva praticato. “Invogliato dai successi della Ignis nel basket, riscoprì l’antico amore livornese per quello sport e trovò con piacere che a Varese giocavano Villetti e Nesti, livornesi anche loro, con cui ebbe subito modo di ricreare, a latitudini subalpine, una specie di club del cacciucco”. Per la verità Massimo Villetti era viterbese di nascita, ma con la famiglia si era trasferito giovanissimo nella città di Amedeo Modigliani.

La seconda parte verrà pubblicata venerdì 27 Aprile

ALBERTO FIGLIOLIA