Sono contento, molto contento. Prima di tutto perché c’è stata una bella sconvenscion, nella quale ho avuto il solo rammarico di essermi “appartato” un po’ troppo presto, ma le sirene di una bella discussione sulle lingue slave (in magnifica compagnia, fra l’altro) mi hanno attirato inesorabilmente. C’è stata poi la bella coda serale con Franz, Llandre e Boki. Tranquilli, sono arrivato a casa senza problemi. Nella nebbia della poltrona sono riuscito anche a intravvedere i due gol dell’Italia contro l’Austria. Era comunque tantissimo tempo che avevo bisogno di una bella serata a chiacchierare fra amici e non sapete quanto mi avete reso contento e appagato. Si spera di rivederci al più presto, che ne dite?

Sono anche molto contento per il basket e devo confessare, sperando che non mi abbiate per troppo presuntuoso, che tutto il preolimpico è andato secondo i miei canoni del basket, quelli che predico nel deserto da più di 10 anni a questa parte su questo mio blog. Sono passate le squadre che hanno giocato a basket, semplicemente. Scusate se è poco (almeno per me).

Parto da lontano con una nota cronistica. Italia, Germania, Slovenia e Repubblica Ceca alle Olimpiadi, Lituania, Serbia, Croazia, Grecia e Canada a casa. Niente da dire, il mondo alla rovescia. O, come più volte detto su queste pagine, semplicemente l’NBA crea un fantastico sconquasso nelle gerarchie del basket mondiale. Primo, perché influisce direttamente sui roster delle nazionali impegnate, anche in modo casuale (se Dallas avesse vinto gara sei contro i Clippers in casa, con il piffero che la Slovenia sarebbe andata a Tokio), e poi perché condiziona in modo irreparabile il modo di pensare dei giocatori che negli anni negli States si sono abituati a ragionare sostanzialmente a praticare l’antibasket, cioè a trasformare un gioco di squadra in un’esibizione assistita di singoli. Per fortuna che la Slovenia (alla fine l’unica delle jugoslave a Tokio, scusate, ma la gioia perfida che provo a dirlo ricordando come la Slovenia fosse trattata a suo tempo, come una simpatica repubblichetta con qualche giocatore ogni tanto anche di basket, ma sostanzialmente di sciatori e saltatori con gli sci, è troppo forte per non manifestarla) ha avuto nelle sue fila un extraterrestre che si è dimostrato tale anche nel vero basket, non solo, ma ha giocato con una dedizione alla causa quasi commovente. Ha segnato quando nessuno ci riusciva, chi era caldo in quel momento riceveva puntualmente il pallone per tirare e segnare, ha tentato di sgobbare in difesa, insomma dava in ogni momento l’impressione di essere in missione, rivelata ad alta voce già a Dallas dopo l’eliminazione dai playoff, che era quella di portare per la prima volta nella storia la Slovenia alle Olimpiadi (e poi anche a una medaglia, l’ha detto a chiare parole che la vuole – dove sono i tremebondi sloveni del passato?). Con uno del genere in squadra, che Dio o chi per lui ce lo conservi il più tempo possibile, chiunque fa in panchina un figurone. L’ha fatto Kokoškov agli Europei, l’ha fatto Sekulić (che è, viste anche le altre sue panchine del passato, un allenatore »normale”, non certamente un fenomeno, anzi), l’avrei fatta io o chiunque di voi che abbia l’intelligenza di dare la palla a Dončić e dirgli: “Fai tu, che io ti guardo”. La stupita gioia che si leggeva sulle facce dei tiratori sloveni (Blažič, Zoran Dragić – a proposito, che immensa soddisfazione per uno che, assente a Istanbul, ebbe a dire: “Mi sento come quello che perde un autobus che passa per una sola volta nella vita” – Prepelič, Čančar, Murić e tutti gli altri) quando ricevevano il pallone completamente soli e avevano solo da recapitarlo a canestro, e la stessa gioia da bambino di Luka a fine partita mi hanno onestamente commosso fino quasi (?) alle lacrime. Il tutto con in tribuna, a soffrire e fare il tifo per tutto il torneo oltre a fornire tutto il suo supporto morale nello spogliatoio, anche Goran Dragić. Insomma un’immensa soddisfazione a tutto tondo, proprio per il modo in cui è maturata, da vero gruppo nel quale il leader ha una sola missione, quella di rendere felici e partecipi i compagni e fare in modo che ognuno di loro dia il massimo, pronto a impegnarsi in prima persona nei momenti difficili. E’ stato proprio così e si è dimostrato per l’ennesima volta che in uno sport di squadra è sempre il gruppo che vince. Se non c’è gruppo si può essere forti quanto si vuole, ma si perde.

Tanto per dire di cosa significhi questo successo per tutta la Slovenia oggi il primo TG delle 13 (TG centrale, non quello sportivo) ha aperto con gli echi della vittoria di ieri. Alla domanda della conduttrice del TG alla collega della Redazione sportiva su cosa ci si possa aspettare a Tokio la risposta è stata: “Dico solo che  quando Luka Dončić ha vestito la maglia della nazionale, questa (Europei ’17 e amichevoli comprese) non ha finora mai perso.” Già.

Parlando dell’Italia parto anche qui da lontano. Nel pomeriggio, subito dopo la fine della tappa del Tour, mi ha chiamato Walter da Castelfranco per parlare di Pogačar e alla fine abbiamo parlato anche di basket. Può testimoniare che ho detto: “Fra poco c’è il match della Slovenia. Non sai Walter quanto sono c….o addosso, non tanto perché ho paura che la Slovenia perda, quanto perché stasera l’Italia a Belgrado vincerà e mi darebbe un immenso fastidio che fra Italia e Slovenia a passare fosse la squadra più debole delle due. Vallo poi a spiegare a quelli del blog che mi prenderebbero in giro fino alla fine dei miei giorni.” Come facevo a saperlo? Semplice: viste le partite precedenti ho fatto semplicemente due più due. Italia: Sacchetti ha avuto un sedere assurdo a trovarsi la squadra confezionata che meglio non poteva. Squadra fondata sull’asse Melli-Polonara (chi legge questo blog potrà testimoniare che è l’asse che propugnavo già quasi una decina di anni fa, almeno dai tempi degli Europei in Slovenia) con le guardie a fare le guardie senza velleità di decidere da soli la partita, e dunque l’assenza di giocatori à la Belinelli era una manna caduta dal cielo, con compiti ben precisi per tutti e nessun ego preponderante, e soprattutto con i giocatori decisivi tutti reduci da formative esperienze all’estero (la metamorfosi di Fontecchio dopo un anno passato a guadagnarsi la pagnotta in lidi stranieri è stata strabiliante) oppure appena reduci da un meritatissimo scudetto vinto sotto la guida di un allenatore serbo che ha letteralmente trasfigurato gente come Pajola soprattutto, ma anche Ricci e Tessitori. Insomma il fato ha fatto sì che di colpo la squadra avesse una chimica del tutto inattesa, ma ciò non di meno perfetta. Con in più in squadra un giocatore che era esattamente quello che mancava a completare il quadro, cioè un play, malgrado la giovane età, di spessore e dalla giusta stazza fisica, con tanti punti nelle mani, ma anche capace di guidare la squadra con l’autorità giusta quale Nico Mannion. Dall’altra parte la Serbia; squadra raccogliticcia con giocatori delusi e soprattutto rovinati dall’NBA, ma che si sentivano comunque superiori, tipo Bijelica, stelle in cabina di regia incapaci di trovare un linguaggio comune di convivenza, mancanza assoluta di un centro di valore, capace di dare il suo contributo sotto ambedue i canestri, e come truppa un gruppo eterogeneo di fenomeni da club, incapaci di gestire il passaggio al livello successivo di gruppo di vertice nel quale la prima cosa che bisogna ricordare è che il pallone è uno solo e non tutti possono tirare in contemporanea. Inciso: sulla panchina di una squadra del genere poteva esserci anche John Wooden che non avrebbe raccolto un ragno dal buco. Certo, Wooden avrebbe chiamato tutt’altri giocatori, ma questo è un altro discorso. Kokoškov ha l’unico demerito di aver scelto uno per uno i giocatori che riteneva i migliori che potesse avere a disposizione, esattamente quello che aveva fatto Messina a Torino cinque anni fa, con il risultato di avere a disposizione un agglomerato di giocatori senza capo né coda. E il risultato è stato quello che ha raccolto Messina: una gigantesca bastonata in faccia.

La partita in sé è stata ancora peggio di come l’avevo immaginata. Un vero e proprio carnaio con i serbi a vagare sperduti per il campo e con l’Italia che girava come un orologio svizzero. Se solo Melli avesse avuto una giornata di tiro passabile…ci hanno pensato comunque gli altri, Polonara in testa, assolutamente devastante. Tutto troppo bene fino a tre minuti dalla fine del terzo quarto, quando sul +24, a partita dunque ampiamente vinta, l’Italia ha pensato bene di incartarsi da sola con alcune scelte scellerate in attacco e con una serie di palle perse del tutto incomprensibili. E qui, mi dispiace Franz, ma ci sono gravi colpe del manico della squadra, leggi panchina. C’era subito da correre ai ripari. Quali? La panchina lo saprà bene quali, del resto se no cosa ci sta a fare? Quando tutto va bene, liscio come l’olio, tutti sono capaci di stare in panchina, ma quando succede, e succede anche nelle migliori famiglie, di andare in panico deve essere il coach a prendere in mano la situazione per riportare la barra del timone nella direzione giusta. E questo non è stato fatto. E ciò non è bene. Anzi, è molto male.

La colpa di riportare una squadra di sbandati in partita è una colpa molto grave e poteva costare molto cara se solo la Serbia avesse avuto in campo un simulacro di squadra. Insomma devo confessare che la panchina azzurra mi ha convinto molto poco, anzi proprio per niente. Dice: sì, ma la preparazione della partita, la difesa, e tutto quanto di eccellente è stato fatto prima? Tutto giusto, ma guidare un match è tutta un’altra cosa e presuppone doti che, onestamente, il coach azzurro non ha proprio sviluppate. Detto fra i denti.

Ora la domanda ovvia è cosa sapranno fare Italia e per me (so che a voi non potrebbe fregare di meno, ma per me è molto più importante, mi scuserete) anche Slovenia alle Olimpiadi. Dipende. Per la Slovenia sono sicuro che farà il meglio possibile e quanto questo basterà a fare risultato nessuno lo può ancora dire. Avendo però Luka Magic in squadra, motivatissimo e carico come una molla, sono molto fiducioso. Tutt’altro discorso per quanto riguarda l’Italia. C’è un tipo di discorso e di ragionamento che fanno quasi tutti, tutti quelli che di sport non capiscono una mazza. Che recita più o meno: se con questi giocatori abbiamo ottenuto tanto, immaginarsi cosa sarà quando entreranno anche quelli che ora non c’erano, Belinelli, Gallinari e Datome. Sarà un disastro uguale pari pari a quanto abbiamo visto in tante altre occasioni. La chimica andrà a ramengo, ci saranno i soliti salvatori della patria a volere sempre il pallone, il gruppo si scioglierà e ognuno andrà per conto suo. Faccio l’ indovino e predico che, o la squadra rimane quella di adesso, o sarà una catastrofe. Eventualmente, fossi io il responsabile, l’unico che salverei e chiamerei, previa consulto con il resto della squadra, sarebbe Datome che in passato ha sempre dimostrato attaccamento alla maglia e che è anche un ragazzo più che a posto che sa bene cosa si vuole da lui. Poi bisogna vedere se lo vorrà lui. Ripeto, è l’unica eccezione che farei.

L’occasione è quella ghiotta. A parte gli USA, tutte le altre squadre presenti saranno ampiamente battibili. Intanto, a parte i sempre più arrugginiti argentini, gli australiani e, appunto, gli USA, le Olimpiadi senza Brasile, Canada e Portorico saranno un Europeo allargato con le grandi storiche in grossa difficoltà. La Spagna non è più quella, la Francia stessa dipende sempre dai suoi senatori, abbastanza rintronati, diciamo così, da tanti anni in NBA, non ci sono Serbia, Croazia, Grecia e Lituania, insomma la squadra che indovinerà le scelte e la forma giusta potrà andare molto lontano. Vedremo. Sarà un’Olimpiade sicuramente dal tasso tecnico fra i più bassi degli ultimi 40 anni, ma l’equilibrio è enorme e ci sarà da divertirsi. Io darei un’occhiata particolare alla Germania che delle grandi nazioni europee è quella che, assieme alla solita Spagna, ha lavorato meglio in questi ultimi anni e, grazie anche al potenziale fisico che possono sprigionare i teutonici, sarà durissima da battere. Come mi interessa tantissimo vedere l’Iran che uno di voi ha nominato con due punti esclamativi, quasi fosse una stranezza esotica. Dal mio punto di vista invece l’Iran è la prossima frontiera, una vera e propria bomba che prima o poi esploderà. E non parlo di politica (anche se pure qui di bombe pronte a scoppiare ce ne sono molte), ma proprio di basket. E’ una nazione enorme, popolatissima con gente di ogni estrazione possibile, contrariamente a quanto si pensa molto civile e acculturata. E poi ci sono le montagne del Nord, una specie di sconfinato Montenegro nel quale di gente enorme, forte e coordinata ce n’è a bizzeffe e che solo attende di essere scoperta e introdotta al nostro gioco. Se mai in Asia ci sarà una superpotenza nel basket, questa non potrà che essere l’Iran.

Finisco con due brevi note. Una per rispondere a Cicciobruttino che, giustamente, mi chiede se guardo il Tour (ovvio! – in questo momento è per me “lo” evento sportivo di assoluta prevalenza su tutti gli altri, calcio compreso) e cosa ne penso di Pogačar e sul suo comportamento nella tappa della fuga del gruppone con Van Aert e VdP. Ne penso tutto il bene possibile, lui è come Luka, uno che arriva da un’altra galassia. Ha 22 anni, ma ragiona come un veterano e ha un senso tattico assurdo, da predestinato. Nella tappa in questione ha deciso che non c’era nessuno di importante da marcare (cosa rivelatasi fondatissima solamente due giorni dopo), per cui è stato tranquillo rimandando il tutto al giorno dopo. Come ha detto in un’intervista alla TV slovena: “Sul terzultimo Gran Premio della montagna mi sentivo bene e allora ho detto ai ragazzi: dai, andate in testa che sulla prossima salita spacchiamo la corsa in due.” Cosa puntualmente successa. Con lo sfigatissimo Roglič e con Thomas fuori dai giochi non ha più avversari. O, come ha detto lui stesso: “L’unico avversario che ho ora sono io stesso.” Nel senso che ha un tallone d’Achille importante: soffre il caldo e per rendere al massimo ci vuole il tempo da lupi che ha trovato sulle Alpi, per cui ha il terrore della doppia scalata al Ventoux, e poi ha paura dei possibili ventagli nelle due tappe in Provenza e Linguadoca. Secondo il suo entourage se arriva sano e salvo ad Andorra alla fine della seconda settimana può già mettere lo champagne in frigo. Cadute e incidenti permettendo, ovviamente, ma sulla strada non si batte più.

E infine uscendo dallo sport e toccando l’argomento scottante che ha tenuto banco nei vostri battibecchi e negli infiniti scambi di opinioni, chiamiamole così, fra Stefano e Edoardo, vorrei in breve dire la mia. In uno dei suoi commenti Stefano tocca il punto chiave. Dice: “Se bastono un prete e all’arresto dichiaro che odio la religione e i preti, il PM mi mette in carico lesioni volontarie con l’aggravante dell’odio religioso (la pena viene da 2 a 3 volte aumentata per via delle aggravanti). Se in dibattimento dichiaro ‘l’ho bastonato perché era gay” spariscono le aggravanti e magari se trovo il giudice giusto mi calcolano le attenuanti (incensurato, reo confesso etc ) e mi danno 6 mesi con la condizionale invece dei 6 anni che si merita uno che bastona un altro perché prete o gay o disabile, insomma la violenza verso qualcuno non per quello che FA, ma per quello che E’, è l’essenza del razzismo e dei sistemi antidemocratici.”

Parole sante che per me sono definitive. Fino a che una società non punirà esattamente allo stesso modo un atto di violenza per quello che è, indipendentemente da chi e perché lo fa a chi, fino a quel momento la società stessa non potrà dichiararsi civile. Punto. Fine. Ende. Fertig.