Siamo sotto feste e dunque anche voi avete più tempo per intervenire. Ho letto con molto interesse la discussione sullo sport di una volta rispetto a quello di adesso in relazione allo spaventoso cambiamento dei materiali che da attrezzi sono diventati braccia robotiche cibernetiche. Avete parlato di tutti gli sport in cui ciò è accaduto senza menzionare ovviamente uno sport che piace a me e che voi non calcolate, parlo del golf. A me capita che invece di Jack Nicklaus o Arnold Palmer o Gary Player o Tiger Woods, se volete, mi capiti di dover vedere le vittorie di forzuti bruti tipo Bruce Koepka o soprattutto del giocatore da me in assoluto più odiato omnisport, e cioè Bryson DeChambeau, al confronto del quale anche uno come Koepka sembra un sopraffino ricamatore. E inoltre avete trascurato tutto il campo degli sport invernali, nei quali i materiali e le piste sono componenti fondamentali. Vi siete mai chiesti cosa farebbe un Paris se dovesse gareggiare con ai piedi gli assi di una volta calzato con scarponi improbabili attaccati agli sci con stringhe e corde varie e sulle piste piene di gobbe senza protezioni di alcun genere come faceva Zeno Colò? O se Kobayashi dovesse saltare dal trampolino vestito con un maglione di lana e pantaloni alla zuava? Ragion per cui capisco perfettamente il vostro discorso e sono d’accordo con Roda (vedi che abbiamo trovato una cosa in comune – amici come prima?) che l’unica cosa che importa è quella se ci piaceva prima o più adesso.

Va da sé che a me, da vecchio brontolone fuori dalla nostra epoca, la sempre maggiore incidenza dei materiali sulla prestazione sportiva sta sulle palle in modo violento e, più passa il tempo, più mi rifugio nel seguire le discipline sportive nelle quali i materiali sono assenti (so, sì so, che le piste e le pedane della moderna atletica sono ben diverse da quelle di una volta, ma, di grazia, almeno tutti gareggiano con le stesse condizioni, e la cosa mi basta e avanza), leggi le discipline di base, atletica, nuoto, ginnastica, magari anche il sollevamento pesi se lì non entrassero in gioco altri “materiali” che in quello sport sono totalmente dirimenti in merito alla prestazione finale. Ho pensato molto a quanto avete scritto e mi chiedo per esempio, facendo un po’ di autoanalisi, perché da giovane, quando c’era Wimbledon, seguivo tutte le partite attaccato alla TV dalle due del pomeriggio fino a quando non scendeva la notte (la prima finale vista? Fraser-Laver, penso nel ’57, a casa di un mio zio che aveva il televisore), o perché non mi perdessi una partita di basket, mentre ora al massimo resisto per una decina di minuti. Certo, sono passati i tempi e sono cambiati abitudini e interessi e per esempio adesso posso vedere un’intera partita di calcio solo se è veramente ben giocata, ma il fatto rimane che in media guardo più partite intere di calcio che non di basket. Una ragione ci sarà. Come per esempio ci sarà una ragione se guardo le riprese di ciclismo con grande interesse anche se non ci sono sloveni competitivi in gara. Se poi ci sono, ovviamente tanto meglio. Ma vi assicuro che il ciclismo era lo sport da me più guardato anche quando nessuno sapeva dell’esistenza di Pogačar e Roglič. Penso che in tutto questo incida anche il fatto che il mio interesse è condizionato da quella che reputo (come ho già scritto quando ho parlato del parasport) la condizione fondamentale di una qualsiasi sfida, l’equità competitiva. Quando tutti hanno gli stessi mezzi e le stesse opportunità, mi sta molto bene. Se invece uno è alla guida di un missile e l’altro invece pilota un catorcio, già non mi va più, per cui potete ben capire perché il mondo dei motori sì mi interessi, perché vedere bei sorpassi o scontri spettacolari è sempre divertente, ma uno in tutto questo mi deve spiegare cosa c’entri con lo sport, per cui questo mondo in definitiva non possiede proprio alcun strumento per cui potrei appassionarmi. E ciò malgrado il fatto che la Federazione internazionale automobilistica stia tentando in tutti i modi di stabilire la massima equità competitiva possibile con regole stringenti sulle macchine e sulle gomme, regole che però i furbi, ma soprattutto quelli bravi, sanno gestire in modo tale da dare loro sempre qualche vantaggio sulla concorrenza. Con ciò senz’altro contribuendo al progresso che poi ricade anche sulla produzione di serie, ma questo è tutto un altro discorso che non c’entra niente con lo sport.

Io vorrei aggiungere un’altra considerazione che potrebbe entrare nelle vostre discussioni, e cioè cosa fanno le varie Federazioni sportive internazionali in merito al proliferare dei sempre più micidiali attrezzi ora in uso, se cioè a loro sta bene così o pensano che si esageri e che bisogni porvi un limite. Io per esempio ho plaudito con ambo le mani alla decisione delle FINA di abolire le paperelle auto galleggianti che permettevano a chiunque di andare forte, in diretta relazione con la potenza sviluppata, dunque in modo del tutto slegato da qualsiasi attitudine tecnica o addirittura naturale, tipo la galleggiabilità. Che è la dote fondamentale per un nuotatore, quella che per esempio esibiva quello che io ritengo senza alcun ombra di dubbio di gran lunga il massimo talento natatorio mai visto in vita mia, e cioè Roland Matthes. Per la cronaca nella mia personale classifica a debita distanza viene Michael Phelps e poi lontani tutti gli altri. La FINA ha così secondo me tutelato semplicemente la specificità di questo sublime sport impedendo che diventasse come tante altre discipline una specie di esibizione di forzuti da circo. Tutto sommato anche la ginnastica ha pensato di correre ai ripari dando un colpo di freno al proliferare delle ginnaste bambine, anche se ovviamente in questo campo i buchi sono enormi, dovuti soprattutto al fatto che qualsiasi nazione può taroccare ufficialmente come e quando vuole le carte d’identità delle proprie sportive di vertice.

Non vorrei sbagliare, ma mi sembra che addirittura il baseball americano delle Majors abbia a suo tempo dato delle precise disposizioni sulla composizione e il peso delle mazze, visto che il progresso tecnologico dava a disposizione dei battitori vere e proprie balestre, con le quali ogni palla battuta era praticamente un fuori campo. Ecco, se anche il baseball (e nel suo piccolo il football con la sempre maggior cura nella tutela dei giocatori da scontri troppo violenti) è andato per questa strada, io per esempio non vedo perché non debba farlo anche il tennis. Secondo me dovrebbero esserci regole stringenti sulle dimensioni delle racchette e sulla loro composizione, per far sì che i giocatori abbiano in mano degli attrezzi e non dei lanciamissili. Che fra l’altro limitano in modo per me insopportabile il gioco, visto che giocare d’attacco è oggi praticamente un suicidio, considerati i missili che ti tornano indietro (l’uomo nel senso di essere vivente rimarrà sempre quello e i tempi di reazione, i riflessi, saranno sempre quelli, e oggidì reagire in tempo a quello che ti viene scagliato contro è praticamente impossibile) per cui il gioco diventa molto più monocorde nel quale, se non c’è un errore, uno vince il punto fondamentalmente perché stanca l’avversario facendolo correre per poi venire a rete a prendere il punto in modo tanto facile che anch’io ai miei tempi sarei riuscito a prendermelo (Boki, anch’io ho giocato, in modo addirittura organizzato e agonistico, a tennis tavolo – ping pong è il passatempo da vacanza e non c’entra con lo sport in questione -, cosa che porta in modo naturale poi a provare anche a giocare a tennis, per cui qualche piccola esperienza ce l’ho). Questa è la mia opinione in merito e non pretendo che sia quella giusta, lo dico solo per partecipare alla discussione e mai come in questo campo (e nella musica – ormai, visto cosa piace a me, e soprattutto cosa non mi piace, ho smesso di discuterne su questo blog) mi rendo conto che è una questione di gusti. Se vi divertite a vedere i tennisti scambiarsi continue bombarde da fondo campo fatelo pure. Non contate però su di me.

Quando però si comincia a parlare dei paragoni fra lo sport di una volta e quello di adesso, al netto del progresso dei materiali e degli attrezzi, la mia opinione ce l’ho, ferrea, adamantina, non scalfibile (almeno nessuno finora c’è riuscito, visto che le prove che porta a sostegno delle sue tesi le ritengo del tutto soggettive e campate in aria, prive di qualsiasi riscontro statisticamente reale). La conoscete, perché ne ho parlato e discusso già a iosa e onestamente sono stufo di dover ripetere come un disco rotto (che nessuno sembra che ascolti nel merito delle cose che dico) sempre le stesse cose. Siete comunque avvertiti. Portatemi qualcosa di solido, tangibile, invece di opinioni e sensazioni e (forse) vi ascolterò.

Per esempio Stefano scrive in uno dei suoi interventi: “La cosa che per me sarebbe molto molto molto intrigante sarebbe fare partite tra i quintetti formati da ottavo, nono, decimo, undicesimo e dodicesimo uomo delle squadre di oggi e quelle di molti anni fa per vedere il livello effettivo dei giocatori medi. Visto che poi è il livello medio quello che determina il valore in assoluto.”

Il che sarebbe come a dire che oggi, visto che praticamente tutto il mondo sa leggere e scrivere, automaticamente anche la letteratura mondiale è nettamente migliore di quella di una volta. Cioè tutto quello che è stato scritto da Sofocle a Shakespeare passando per Dante è una schifezza, visto che il livello medio attuale è straordinariamente superiore. Ma che discorsi sono?

E’ solo ovvio, direi banale, che i secondi e terzi quintetti delle squadre odierne siano nettamente più competitivi rispetto a quelli di una volta. Le ragioni sono millanta e qui mi limito a elencare quelle che ritengo le più importanti, ma soprattutto quelle più logiche. I soldi che circolano oggi nell’attività sportiva di vertice sono tanti, ma tanti di più rispetto a quelli che circolavano una volta. Oggidì si può essere tranquillamente professionisti a tempo pieno giocando in B1, mentre a suo tempo, a parte le stelle della squadra, per il resto i giocatori, addirittura in Serie A, non è che potessero proprio sperare di vivere di rendita per il resto della loro vita giocando a pallacanestro. Le squadre venivano dunque assemblate di conseguenza: primo quintetto, play di riserva, centro di riserva, specialista magari difensivo o di cambio ritmo e dall’ottavo (nono, per chi aveva più soldi) in poi tutti juniores. Ragion per cui il confronto propugnato da Stefano è totalmente improponibile per definizione.

E’ altrettanto ovvio che in condizioni del genere giocare più partite in stagione rispetto a quelle che si giocavano sarebbe stato del tutto improponibile. Meno giocatori, meno rotazioni, più fatica e spompamento totale dopo un paio di settimane. Quello che voglio dire, usando un termine matematico che mi sembra di ricordare dai tempi in cui pensavo che sarei diventato ingegnere (e la cosa non mi piaceva per niente), tutta la attività era determinata da ben precise condizioni al contorno. Detto di sfuggita, il fatto che i giocatori bravi giocavano a volte per tutti i 40 minuti di una partita portava gli staff tecnici a curare in modo profondo la preparazione atletica. Sono pronto a asserire con estrema convinzione che ai tempi di quella che io reputo la stagione d’oro del basket, dai primi anni ’70 fino al pensionamento progressivo del vero Dream Team americano e alla morte di Dražen (per me vero spartiacque, anche emotivo, fra il prima e il dopo), la preparazione atletica fosse molto più curata rispetto a adesso. Del resto basta che tutti voi vediate il bellissimo documentario della TV serba sulla preparazione della nazionale campione del mondo juniores a Bormio con i mitici 250 scalini da percorrere di corsa alla fine di ogni allenamento per rendersi conto di quanto sto dicendo. Per cui dire che una volta camminavano è un clamoroso falso storico.

C’è però una ragione molto più profonda e epocale per cui i tempi sono cambiati e paragonare i tempi andati con quelli di adesso è impossibile. E’ successo semplicemente che negli anni, e con il progresso anche e soprattutto economico che c’è stato un po’ dappertutto (da piccolo guardavo foto di gente che moriva di fame ai lati delle strade nelle città cinesi e indiane e già allora mi indignavo della cosa chiedendomi come fosse possibile che nessuno si ribellasse andando a prelevare il cibo ai ricchi che ne avevano in abbondanza – ero fortemente di sinistra evidentemente già da piccolo), lo sport, come tutte le altre cose, si è fortemente globalizzato. Negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso era facile emergere nel tennis. Bastava essere abbastanza ricchi da avere un campo proprio su cui allenarsi ed essere anglosassoni bianchi, o al massimo francesi o tedeschi con qualche puntata di qualche esponente dell’aristocrazia europea per emergere. Poi sono arrivati altri, da tutte le parti del mondo. Oggi al vertice sono praticamente tutti slavi di passaporti diversi (anche Tsitsipas è mezzo russo da parte di madre) o iberici, cioè gente di paesi che 100 anni fa neanche sapevano cosa fosse il tennis se non per qualche isola di aristocratici (fra l’altro poi spazzati via in Russia dalla rivoluzione). Poi hanno cominciato a giocare a tennis anche i neri d’America, è arrivata gente molto forte dall’Estremo Oriente, insomma la concorrenza è aumentata in modo esponenziale. E infatti ora australiani, sudafricani, addirittura gli americani, arrancano.

E’ stato così in tutti gli sport, con l’esempio clamoroso del calcio dove praticamente tutta la nazionale francese e buona parte di quella olandese e belga sono formate da gente che di gallico o batavo ha ben poco. Come è anche giusto che sia, anche se personalmente preferirei che i giocatori di origine africana mostrassero più attaccamento alle proprie radici per rendere le loro nazionali ancora più forti di quanto giù non lo siano. Vi immaginate l’impatto emotivo che avrebbe su tutto il mondo la vittoria ai Mondiali di una nazionale africana?

Nello sport italiano, in tutto lo sport italiano, sta succedendo la stessa identica cosa. Ci sono i vari Ogbonna, Balotelli, Kean, ci sono le varie Egonu, Silla e Diaw, dell’atletica leggera neanche parlo, e nel basket l’Italia potrebbe comodamente schierare una nazionale con Hackett e Mannion guardie, Cournooh ala piccola, Akele in ala forte e Biligha in centro che nessuno avrebbe esattamente nulla da poter dire. A suo tempo c’era Myers, tutta gente perfettamente italiana in tutto e per tutto.

L’apertura dei confini europei ha dato inoltre un ulteriore impulso alla circolazione dei giocatori con il possibile inserimento di tantissimi ragazzi che arrivano da realtà più povere che nel basket cercano e trovano riscatto, insomma il bacino di reclutamento dei giocatori si è allargato a dismisura, non solo, ma invece di gente rachitica che faceva fatica a mangiare due pasti caldi al giorno di una volta, oggi c’è tutta una sterminata quantità di ragazzi geneticamente dotati, alti, forti e sazi (almeno per gli standard ancora di una sessantina di anni fa) che, o è nata in Italia da gente che vi è venuta per sfamarsi, o ci è venuta perché qui si vive meglio.

Per riassumere: sulla quantità non ci possono essere discussioni. Oggigiorno il possibile bacino di scelta è estremamente più ampio rispetto a una volta. Ma la quantità e la qualità sono cose ben diverse. Dante c’è stato perché, intanto era un genio, ma è vissuto in un’epoca nella quale istruirsi in modo totale su tutto lo scibile dell’epoca era fondamentale per riuscire nella vita, per cui, per diventare quello che è diventato, si è fatto un mazzo colossale. Cosa che facevano a suo tempo anche i fenomeni del basket. E che oggi, cullati dalle iperboli mediatiche inventate per vendere il prodotto, non fanno più. Come a dire una cosa è la quantità, ma la qualità è esattamente una tutt’altra cosa che dalla prima sì dipende, ma assolutamente non in modo diretto e lineare. Avere una base il più ampia possibile aiuta certamente, ma poi bisogna comunque lavorare. Ed è questo, secondo me, che oggigiorno manca.

Credetemi: il fatto che uno si palleggi sul piede o passi la palla in tribuna non c’entra un emeriterrimo tubo con quello che fa la difesa. Quando uno lo fa, sbaglia lui. Anche Dončić, che è quello che sbaglia di meno fra tutti per le cose che fa, la maggior parte delle quali per gli altri è impossibile farle, semplicemente perché non ci arrivano. Punto. Sia ben chiaro. E infatti una delle cose che mi fa imbestialire è osannare la difesa quando uno sbaglia semplicemente perché è un cesso nel ball handling o perché non ha tecnica di passaggio. Faccia ore e ore al campetto, magari su un terreno sconnesso con un pallone ovalizzato, e poi vedrà che la palla non la perderà più. Faccia ore e ore passando la palla verso il muro in tutti i modi possibili, andando in su di destro e in giù di sinistro, poi cominceremo a parlare. Fino a quel momento tutto quel che si dice sono semplicemente clamorose balle.