Ullalà (o oullalà, come scriverebbero i francesi)! Quanti temi, evidentemente la quarantena ha anche effetti positivi, in quanto non avendo niente di peggio da fare invoglia a pensare e a scrivere, il che non è mai un male, anzi. Son qua e mi getto nella mischia.

Comincio dalla storia del basket e vi butto qua anch’io una citazione, così che non pensiate di avere solo voi il copyright: “Il grande assente era però Isiah Thomas, la guardia che aveva vinto due titoli di seguito con i suoi Detroit Pistons nel 1988 e 1989. (…) Bird fu sorpreso nell’apprendere che Isiah era stato tagliato. Il motivo era però lampante. Jordan aveva messo in chiaro che non aveva intenzione di giocare al suo fianco. Michael non si era dimenticato dell’All Star Game del 1985, nel corso del quale Thomas lo aveva deliberatamente escluso dal gioco, e delle finali della Eastern Conference, nelle quali i Bulls avevano sconfitto i Pistons e Isiah, Bill Laimbeer e Mark Aguirre avevano lasciato il campo a quattro secondi dalla fine dell’incontro per non congratularsi con gli avversari.” (cit. dal libro “Il basket eravamo noi” di Bird e Magic, uscito nel 2011, pagg. 345-346). Questo è il mio piccolo contributo alla vostra discussione sul fatto, arcinoto, che era stato Jordan a non volere Isiah in squadra a Barcellona. Se poi andate a leggere avanti vedrete che anche Bird e Magic erano perfettamente d’accordo sul fatto che quella faccia d’angelo fasullo di Isiah, un bel tipetto anche lui, restasse a casa. Pensavo lo sapessero tutti. Sul tema: il perché scelsero Laettner come unico rappresentante del basket college rimane uno dei misteri meglio custoditi del 20-esimo secolo. Deve essere stato il parto di un segretissimo meeting congiunto fra CIA, NSA e FBI.

Poi leggendo i vostri commenti sulla generazione di Bormio mi ha fatto specie il commento di Edoardo nel quale, giustamente peraltro, afferma che quella squadra, con i più anziani Paspalj e Zdovc fra gli altri, sarebbe stata l’ossatura di un nuovo Dream Team Made in Yugo. Sapete di quanto erano più anziani i due succitati? Di mezzo mese, essendo nati nel dicembre del ’66! E infatti ricordo per l’ennesima volta che la squadra di Seul ’88 che giocò la sua peggior partita della sua storia nella finale contro l’URSS, già strapazzata nel girone, aveva un’età media di 21 anni e mezzo con il veteranissimo Petrović che con i suoi 24 anni rovinava la media. Come a dire che la medaglia d’argento olimpica fosse formata oggigiorno tutta da ragazzi del ’99, come dire tutti, ripeto tutti, dell’età di Dončić.

Capitolo tiro. Gabriele, il mio alter ego senese, si meraviglia che i miei consigli siano più o meno quelli che distribuisce uno dei tanti santoni americani e si meraviglia della “coincidenza”. Devo dire che sono un poco piccato, in quanto in fatto di tiro non credo di dover imparare nulla da nessuno. A cosa devo questa esplosione di incredibile superbia e arroganza? Semplicemente al fatto che finora, maggio 2020, non ho mai, ripeto mai, letto consigli sul tiro elargiti dai massimi santoni che non fossero esattamente quello che avevo elaborato da solo nelle mie infinite sessioni al campetto. Io sono nel mio una specie di perfezionista e delle cose che mi interessano voglio sapere in ultima istanza “the way it is”, come dicono gli inglesi, cioè come sono le cose in sostanza. Per arrivare a ciò bisogna provare e riprovare, vedere cosa funziona scartando nello stesso tempo quello che non funziona, ma soprattutto tentare di capire quali siano le leggi più profonde che regolano una cosa qualsiasi, cosa che ho fatto con maniaca ossessione per tutti gli anni nei quali, come scritto l’altra volta, sarebbe stato molto meglio se mi fossi dedicato a cose più piacevoli e importanti per la vita mia futura. L’unica consolazione, molto magra vista a posteriori, è che in effetti sulla meccanica del tiro so moltissime cose. Non si saprà mai tutto, ma, come detto, finora non c’è stato mai nessuno che mi abbia aperto orizzonti che non avessi già esplorato da solo.

Andando al merito Llandre domanda consigli sul tiro piazzato. Domanda che mi ha spiazzato, se mi permettete il terribile gioco di parole. Cosa si intende per tiro piazzato? Quello piedi per terra o un normale tiro in sospensione o comunque staccando alla fine i piedi da terra? Non so, ma posso comunque dire che il mio consiglio (non sarà quello di un santone, per cui non siete obbligati a seguirlo, anche se magari poi per coincidenza troverete che qualcuno da qualche parte dice la stessa cosa) è che bisogna per primissima e fondamentale cosa avere in mente che un tiro è più preciso e affidabile quanto più il movimento complessivo è limitato ai gesti indispensabili, compatto come si usa dire. La cosa è banale e ovvia: meno movimenti si fanno, meno possibilità ci sono di sbagliarne qualcuno. Sta a ognuno trovare il suo giusto equilibrio, in dipendenza dalla sua forza personale, per fare il minor numero di movimenti possibili. Le gambe servono da aiuto al movimento verso l’alto e la spinta necessaria dipende dall’efficacia del movimento chiave, quello gomito-polso. Se quest’ultimo è sufficientemente vigoroso si può tranquillamente anche non spingere affatto con le gambe. Sembra un’eresia, ma, credetemi, è proprio così. Nella mia esperienza ho allenato anche ragazzi che poi sono diventati eccellenti musicisti (consiglio: se al campetto una rock band vi sfida per una partitina lasciate perdere). Guarda caso tutti avevano dita fatate, ma soprattutto un polso fortissimo, per cui il loro rilascio era una specie di frustata e praticamente tiravano solo di polso. E, credetemi, erano tutti tiratori formidabili e soprattutto con un tiro velocissimo che non aveva alcun bisogno di particolari preparazioni. Dal che discende il teorema che racchiude tutta la filosofia del tiro: tutto quello che fai a contorno dipende dalla forza e dall’abilità che hai nel polso e nelle dita che sono il fulcro di tutto. Ragion per cui l’insegnamento del tiro dipende dalla forza e dall’abilità del polso dell’allievo e tu come istruttore devi solo completare attorno a ciò tutto il resto. Che è ovviamente strettamente individuale.

A proposito di dita: agli albori della mia carriera da allenatore giocavo ovviamente ancora. Una volta andammo a Lubiana a giocare contro gli juniores dell’Olimpija. Si giocò nel vecchio maneggio adattato a palestra che era il loro campo di allenamento nella Topniška Ulica, praticamente di fronte allo stadio di Bežigrad. A parte il fatto che durante la partita mi toccò marcare una loro guardia che nella prima azione mi fece vedere solo la suola delle sue scarpe mentre mi volava accanto verso canestro (per mia consolazione seppi poi che il suo nome era Marko Gvardijančič, nazionale jugoslavo juniores che poi fece un’ottima carriera) la cosa per me importante si svolse a fine partita, quando dopo di noi arrivò al campo la prima squadra, quella che aveva vinto nella stagione precedente (era il 1970) l’ultimo dei suoi sei titoli jugoslavi, per svolgere un allenamento dedicato al tiro. Seguii con estremo interesse il coach Tosić quando prese da parte un giocatore per rimettergli a posto la tecnica. Vidi una cosa mai vista prima: per primissima cosa gli impose di tenere la palla con due sole dita, l’indice e il medio, mentre le altre tre erano chiuse a pugno (un po’ come mettere una palla in mano a Churchill mentre fa il suo segno di vittoria) e tirare a canestro solamente con quelle. Capii che l’idea di base era che in effetti il tiro si effettua solamente con le due dita allineate verso il canestro, indice e medio, le uniche due che possano imprimere alla palla la direzione giusta. Le altre tre servono da rampa di lancio, come quando parte un razzo e la rampa si apre mentre il razzo parte. Sono cioè solamente da supporto per la stabilità e non devono assolutamente interferire con il movimento delle due dita fondamentali. Per cui la filosofia di fondo è che al momento del tiro ci deve essere obbligatoriamente un brevissimo istante nel quale sul pallone ci sono solo le due dita di propulsione, mentre le altre tre sono già staccate. E’ un particolare fondamentale e infatti poi feci mio quel metodo di insegnamento con i miei neofiti e devo dire che si tratta di un metodo estremamente efficace.

Capitolo Jugoslavia e vita in Jugoslavia. Potrei scrivere un libro, anzi con Marco Ballestracci l’abbiamo già scritto, ma quel che voglio dire è che sull’argomento vita in generale e non solo sport le pagine potrebbero essere paragonabili a Guerra e pace o Via col vento. Se vi interessa posso tornare sull’argomento quante volte volete, per ora voglio solo accennare a un solo tema, quello della Jugonostalgia andando un po’ a ricordare quali fossero i veri sentimenti pro o anti-jugoslavi negli anni d’oro, gli anni ’60 e ’70 quando, come ho già scritto, grazie alla posizione geopolitica della Jugoslavia si stava benissimo pur in effetti lavorando poco e con produttività scarsa, almeno secondo gli standard occidentali (c’era una barzelletta che circolava all’epoca: “Sapete cosa significa SSSR (URSS)? Sedam sedi, sedam radi. E ČSSR (Cecoslovacchia)? Četiri sedi, sedam radi. E SFRJ (Jugoslavia)? Sedam filozofira, radi jedan” – Edoardo, Vladan, Boki, a voi la traduzione).

Premessa: si stava bene, ognuno aveva il suo lavoro “vero” che cominciava quando tornava dalla fabbrica alle 3 del pomeriggio (gli ingorghi stradali a quell’ora potete solo immaginarli), dopo il giusto tempo, comunque non biblico come nelle società del comunismo reale, si entrava in possesso dell’appartamento e dell’automobile, insomma c’era un consenso abbastanza generalizzato verso il regime. Però, come ho già avuto modo di scrivere in un post qualche tempo fa, sotto sotto covavano sempre gli strascichi storici. Per esempio la Slovenia, sicuramente la repubblica meno “integrata”, diciamo così. C’era il problema grosso della lingua che agli italiani sfugge visto che per voi tutte le lingue slave suonano simili. Come detto lo sloveno è tutt’altra cosa rispetto al serbo-croato e sentirsi imporre una lingua straniera nei rapporti ufficiali con il resto della Jugoslavia creava molto fastidio. E soprattutto la Slovenia era stata sempre nell’orbita germanica, per cui sentimenti, modo di vivere, visione del mondo erano diversi e in effetti essere entrata nella Jugoslavia aveva voluto dire entrare in contatto con un mondo, quello balcanico, a lei incomprensibile e alieno. Ragion per cui anche ai tempi d’oro, soprattutto nel mondo rurale, ma anche nelle elite urbane di matrice borghese e cattolica, le idee secessioniste non sono mai morte, anzi. Sedate sì, nascoste anche, perseguitate pure. Ma morte mai. E poi, importantissimo, era il risvolto sociale con la grande migrazione dei popoli del resto della Jugoslavia verso il nord più ricco, fenomeno speculare rispetto a quanto era accaduto subito dopo la guerra in Italia. Solo che qui c’erano ulteriori problemi: come detto la lingua, ma soprattutto il fatto che i serbi e i croati che arrivavano, dal loro punto di vista arrivavano a cercare un lavoro presso un popolo che loro comunque consideravano minore, sicuramente non aristocratico quanto loro sentivano di essere. Cosa che nei sloveni suscitò un cupo sentimento di ribellione verso di loro: “ ’Sti qua vengono con le pezze ai piedi a cercare lavoro e vorrebbero anche comandare? E perché proprio non vogliono saperne di imparare la nostra lingua e noi dovremmo invece parlare la loro?” La Slovenia non è mai stata razzista, un popolo piccolo e bastonato per secoli dai vicini non può permettersi di esserlo. Chiuso sì, diffidente altrettanto, ma fondamentalmente non razzista. E infatti ad integrarsi sono stati in Slovenia i macedoni ed i kosovari, quelli cioè che dal punto di vista di scoppole subite nei secoli erano popoli fratelli. Loro non hanno mai avuto problemi ad imparare lo sloveno in quanto volevano solo essere accettati come parte della comunità, un po’ come facevano gli europei che emigravano in America. E ciò, soprattutto i kosovari, mantenendo intatte le loro radici e soprattutto le loro connessioni, tribali quasi, con il resto del loro popolo sparso dappertutto per il mondo. A proposito di kosovari quando andavo in giro a fare le telecronache il giornalista kosovaro, il mio amico Agim Kasapolli che non so neanche cosa faccia né se sia ancora vivo, non prenotava mai un albergo. Dovunque andasse c’era sempre qualcuno della Kosovo Connection che lo ospitava a casa sua. Loro erano veramente incredibili, capaci di sventrarti le budella senza pensarci un attimo se solo offendevi qualcuno della loro famiglia (guai se in loro presenza pronunciavi il classico serbo: “Pička ti materina” – anche qui traduzione please, o forse è meglio di no – rischiavi seriamente il momento dopo a dover affrontare un coltellaccio a serramanico brandito verso di te), ma che altrimenti erano ospitalissimi e in definitiva molto simpatici e soprattutto sorprendentemente autoironici. Viste le loro abitudini “abbastanza” maschiliste quando ci si incontrava il loro saluto classico, un po’ come il nostro “Come stai?”, era inevitabilmente “Kaži, kako jebaš?” – dimmi, come scopi? – essendo questo il compito fondamentale che definiva il maschio nel suo essere più profondo e dunque la cosa più importante era se sessualmente eri attivo o meno. Però, per tornare in tema Jugoslavia, loro non avevano mai problemi a dirti, in privato ovviamente: “Jugoslavi sempre, serbi mai”, ricordando anche che nei secoli i serbi avevano proibito loro di esprimersi nella loro lingua (fra l’altro una lingua interessantissima, indoeuropea arcaica di ceppo celtico-illirico) e che i primi libri scritti in albanese li avevano visti nel 1941, portati dall’Albania dalle truppe italiane che stavano andando a fare una figura di palta in Grecia.

Vedo che sono andato fuori tema, ma non me ne dispiace. Tempo per scrivere ce l’ho e dunque posso tornare a finire il tema iniziato quando voglio. Sempre che lo vogliate anche voi, se la cosa vi interessa. Voglio solo finire con una considerazione che riguarda proprio il Kosovo e che pochi conoscono facendo un po’ di ogni erba un fascio. Loro di unirsi all’Albania, almeno i kosovari che conoscevo io, non ci pensano neanche. Loro hanno una storia del tutto diversa, per quanto parlino la stessa lingua. Per loro aspirare a unirsi all’Albania sarebbe come per i ticinesi anelare ad abbandonare la Svizzera per unirsi all’Italia. Li vedete? Eppure anche loro parlano italiano. Ecco, e allora?