The Last Dance non l’ho visto e non ho nessunissima intenzione di vederlo, soprattutto dopo quanto sono riuscito a capire dalle vostre recensioni. Premessa che parte da lontano: non c’è nessuno al mondo che sappia fare film sullo sport come gli americani (forse gli inglesi, anzi sicuramente gli inglesi, peccato però che tutti quelli che fanno sono psico-socio-introversi con morale annessa e incidono sui marroni, lasciando stare Momenti di Gloria e quel capolavoro assoluto che è la biografia di Brian Clough), ma tutti li fanno sempre secondo lo stesso identico modello da sempre: c’è un gruppo di ribelli e disadattati e, chissà come, arriva uno con metodi strani e anticonformisti che entra nelle loro menti, li redime e alla fine vincono titoli importanti da perfetti outsider. Oppure c’è il genere biografico, storia di un grande atleta che a un dato momento ha delle grosse crisi personali, ma alla fine proprio l’amore per lo sport lo sprona a redimersi e tutto finisce in gloria. Conoscete voi qualche altro canovaccio? Io no. Sia ben chiaro, li guardo quasi tutti, perché sono molto ben fatti, nei momenti chiave i valori veri dello sport sono messi in giusta evidenza, ma è chiaramente come guardare una commedia romantica che sai come finisce appena inizia ed è dunque il corrispettivo cinematografico dell’ “easy listening” musicale.

C’è però nei film sportivi americani una grossa differenza rispetto a come fanno le commedie romantiche: in queste ultime sanno benissimo che genere stanno trattando e allora, visto che la trama è pressoché inutile, tanto è scontata,  si concentrano sulle situazioni, sui dialoghi, sulle schermaglie psicologiche, raggiungendo vette sublimi come nei film di Wilder o Lubitsch (ambedue viennesi, fra l’altro) o nelle commedie immortali del duo Spencer Tracy – Katherine Hepburn, non per nulla i due attori che adoro e che preferisco. Nei film sportivi invece, secondo la loro mentalità del lavoro di gruppo, dell’abnegazione, della consacrazione al valore ultimo che per loro rappresenta lo sport, e cioè la metafora perfetta di come si vinca una guerra, e per loro ogni partita è una guerra da vincere, sono sempre troppo seri, cupi quasi, con dialoghi stereotipati e facilmente anticipabili da ogni spettatore che conosca la loro mentalità, per cui da questo punto di vista non ci sono né sorprese né tanto meno divertimento. Tanto si sa già da prima cosa dirà il coach per motivare i giocatori, cosa si diranno fra di loro, quali saranno le frasi chiave dette in partita che li faranno vincere. E, come più volte ribadito, io sono da questo punto di vista balcanico, per me lo sport è divertimento, presa per il culo, creatività, trasgressione anche quando serve, in breve è gioco e non guerra, per cui questo approccio anglosassone allo sport mi sta onestamente un po’ (un po’…?) sulle palle. I meccanismi sono sempre quelli, per me stucchevoli. E, da come mi raccontate il film, mi pare da capire che questi ingredienti ci siano tutti: il grande giocatore, magari dal carattere odioso e egocentrico, attorniato da una congrega di colleghi, tutti comprimari ovviamente (se no che film celebrativo è?), che lui in qualche modo porta all’ultimo successo prima di chiudere la baracca. Io in quella stagione ho avuto la fortuna che avevamo i diritti dell’NBA e ho fatto la telecronaca esattamente di tutte le partite della serie finale contro Utah e me le ricordo bene. Lì mi son fatto una mia opinione, basata sui fatti, cioè su quello che vedevo in partita, quando ho visto per esempio Jordan boicottare Toni Kukoč in gara cinque in casa, Toni che era in una di quelle giornate nelle quali ogni suo tiro finiva a canestro, e riuscire a perdere la partita solo per non fare di Toni l’eroe della serie per poter poi lui dimostrare chi era il capo con il famoso canestro entrato nella storia in gara sei. Ora, se uno mi viene a parlare in casi come questi di sforzo di squadra, di tutti per uno e uno per tutti, gli posso solo ridere in faccia. Okay, MJ era tanto grande da poter decidere da solo quando e come vincere una partita, e per questo è il più grande giocatore della storia, ma in definitiva l’idea che mi son fatto su di lui come persona è che fosse abbastanza uno stronzetto. Il film dunque non lo guardo proprio perché mi darebbe l’idea di una cosa fatta ad arte a dimostrare una tesi precostituita, cosa che con ogni probabilità anche è, e dunque qualcosa lontanissima dalla vera realtà. Per cui non potrebbe interessarmi di meno.

A proposito dei più grandi di sempre mi ha un tantino meravigliato l’appunto di Llandre su quanto da me detto in passato su Jabbar. Era uno specialista e dunque come può essere annoverato fra i grandissimi? E perché no, di grazia? Non è mica un demerito essere stato di gran lunga il miglior centro della storia, giocatore totalmente e assolutamente immarcabile, e ciò fino ai 40 anni quando non riusciva più a saltare neanche il classico foglio di giornale, ma che comunque era sempre decisivo per la sua tecnica, la sua intelligenza, la sua perfetta comprensione dei meccanismi del gioco di squadra. I più anziani di voi che avete avuto la straordinaria fortuna di averlo visto giocare provate a ricordare una sola volta quando ha forzato qualcosa, quando ha sbagliato una scelta, quando ha fatto qualcosa che non fosse pensata per il bene della squadra. Io non me la ricordo. Per non parlare del gancio-cielo, tiro assolutamente immarcabile e sempre decisivo. E, infine, mi sembra curioso che, in questa epoca nella quale tutti si affidano ai numeri, si dimentichi sempre chi sia, tutto sommato, il primatista assoluto di punti realizzati nell’NBA. Qualcosa dovrà pur valere, trattandosi fra l’altro di un centro, uno che in teoria non dovrebbe essere particolarmente prolifico.

Per finire l’argomento sulle liste dei migliori di sempre annuncio ufficialmente, in modo molto laconico, che qualsiasi lista gli americani possano fare sui migliori giocatori europei di sempre nell’NBA non mi interessa. Neanche un po’. Per principio. Per come loro intendono il basket e per come loro intendono il ruolo di un europeo in uno sport che considerano loro e che solamente chi gioca come fa loro sa giocare, hanno criteri già in partenza totalmente distorti rispetto a qualsiasi logica oggettiva. Basta. Dico solo che qualsiasi lista che non metta Arvydas Sabonis al primo posto non vale neanche il pezzo di carta sulla quale è scritta.

Cambiando argomento e passando alla tecnica del basket, ogni domanda sul tiro è per me come il classico vaso di miele per l’orso. Ho passato i migliori anni della mia vita che avrei potuto, ma soprattutto dovuto dedicare ad altre cose ben più importanti e nel breve anche molto più piacevoli e gratificanti, ad insegnare il tiro a generazioni di giocatori. Con successo, mi permetto di dire. Intanto il tiro è mentalmente un dono di natura. C’è gente che nasce tiratore, poca, ma esiste. Steph Curry è uno di questi, per cui guardare come tira lui è inutile, ma soprattutto dannoso. Ogni tiratore nato, in Europa il primo nome che salta in testa è quello di Dragan Kićanović (Cvijetičanin? – no, lui era un’altra cosa, era il limite assoluto della tecnica perfetta e dunque non entra nel discorso), ha i suoi meccanismi di tiro, naturali, congeniti quasi, che esulano da qualsiasi descrizione razionale. Lui, beato lui, “vede” il canestro e in qualche modo sa come scaraventarvi la palla dentro. Sta ad ogni istruttore riconoscere queste perle assolute e lasciarli fare come meglio credono. Loro sono speciali.

Esiste un aneddoto personale che conferma quanto appena detto. Quasi 50 anni fa, al termine della festa di fine anno del nostro Polet, che aveva previsto tornei di basket e esibizioni di pattinaggio a rotelle, noi giovani tuttofare ci ritrovammo a dover sbaraccare e ripulire tutto. Aiutati in ciò da copiosissime dosi della birra rimasta invenduta nei chioschi. Alla fine, sotto i fumi (fumi? – diciamo esalazioni mortifere) dell’alcool decidemmo di farci una partitina di basket a ranghi completi, 5 contro 5. Mi ritrovai nella classica “zone” americana. La quantità di alcool nel mio sangue era perfetta: allegro molto andante, ma non disfatto, con tutti gli zuccheri dell’alcool pronti ad essere trasformati in energia. Di quella partitina mi ricordo che non riuscii a sbagliare tiro: tutto quello che indirizzavo a canestro vi entrava e potevo tirare come volevo. Entrava tutto. Fu una sensazione quasi metafisica, di tipo zen. Sapevo dove fosse il canestro senza neanche guardarlo, lo avevo in mente e ogni volta che tiravo potevo quasi indirizzare telepaticamente la traiettoria. Non provai quella sensazione mai più nella mia vita, ma solo l’averla provata una volta fu una magnifica lezione che mi spiegò tantissime cose sul tiro che esulavano dalla pura e semplice tecnica meccanica.

Per tutti quelli, ovviamente la stragrande maggioranza, che non possiedono questo dono ci vuole la tecnica che si impara in un solo modo che è assolutamente analogo al modo con cui si impara lo swing nel golf. Sostanzialmente ripetendo il gesto infinite volte (più volte lo si ripete, meglio lo si impara, dunque la precisione di tiro di ogni giocatore è direttamente proporzionale al numero di tiri effettuati in allenamento), avendo cura di ripetere, di clonare quasi, ogni volta lo stesso gesto. Più ci si riesce, più precisi si sarà, esempio preclaro e illuminante Dražen Petrović.

Tornando però a quanto detto prima la primissima cosa da imparare è avere il più possibile “feeling” con il canestro, di tentare cioè di ottenere artificialmente, con l’applicazione e l’allenamento mentale, quanto i tiratori naturali hanno in dote dalla nascita. Qui entrano in gioco le stesse tecniche che il tiratore Campriani tanto bene descrive nel suo libro: il bersaglio bisogna sforzarsi di visualizzarlo, di sapere dov’è, come fanno gli arcieri orientali che si allenano tirando frecce al buio verso un bersaglio che non vedono, ma che “devono” sapere mentalmente dov’è. Questo lavoro mentale è fondamentale ed è anteriore a qualsiasi apprendimento meccanico. Ci sono ovviamente tecniche che permettono di affrontarlo: la prima e ovvia è quella di avere sempre il canestro davanti agli occhi: in tutta l’azione di tiro gli occhi devono, ripetono devono tassativamente, avere sempre nel mirino il canestro tentando anche una specie di trasposizione computeristica in 3D: quella cioè di immaginare il canestro visto da sopra per calcolare meglio la parabola da imprimere al pallone. Inciso: il basket è difficile proprio perché il bersaglio è orizzontale, cosa unica rispetto a tutti gli altri sport. L’unico modo per trasformare il bersaglio in un più facile bersaglio verticale è ovviamente quello di usare il più possibile la tabella. Oddio, ovviamente forse non è la parola giusta, perché il tiro di tabella non si insegna più. Eppure è molto produttivo e assolutamente mortifero sotto particolari angoli. Forse non si insegna più perché non sembra figo. Non riuscirò mai a capirlo.

Esiste poi un’altra tecnica che mi sembra io sia l’unico che l’abbia messa in pratica e che può essere inventata solamente da uno che ha passato giornate intere su un campetto all’aperto. In breve: provate ad allenarvi al tiro al crepuscolo. Cominciate con il sole ancora sopra l’orizzonte e che vi batte negli occhi non facendovi vedere il canestro. Tirate lo stesso, poi, quando il sole tramonta e vedete il canestro concentratevi per la sessione più importante, quella nella quale provate i tiri che più si adattano al vostro gioco e continuate fino a che non scende il buio. Se siete concentrati il giusto non vi accorgerete neanche che state tirando verso un canestro che non vedete più. E allora capirete quanto vi dicevo prima sulle tecniche zen. Guardate che funziona, lo garantisco.

Sulla tecnica vera e propria e sui passi da intraprendere per svilupparla in modo corretto un’altra volta. E per finire: Boki, alla prossima sconvenscion la tua bevanda sarà a mio carico.