(11/09) Va bene, siamo arrivati al dunque dei Mondiali e a questo punto posto anche io un commento su quanto è successo tanto, uno di più o uno di meno, non fa poi questa gran differenza.

Sergio Tavčar

Sergio Tavčar

Onestamente non vorrei farlo, perché mi rendo sempre più conto, leggendo i vostri, di commenti, che sto rapidamente abbandonando questa terra per avventurarmi in oniriche galassie nelle quali il basket è tutta un’altra cosa rispetto a quella che evidentemente è in realtà, perché tutti voi siete sulla stessa lunghezza d’onda quando disquisite, mentre a me sembra di essere sulla frequenza delle onde lunghe quando la trasmissione avviene via satellite a qualche gigahertz di frequenza. Corro dunque il rischio di farmi sbertucciare da tutto il mondo, ma tant’è, vi faccio se non altro il piacere di avere un’altra serie di righe scritte (che evidentemente non leggete, perché io dico una cosa mentre voi esprimete un’opinione su cose che pensate io abbia detto – altra causa di assoluta frustrazione – ma in realtà non solo non le ho dette, ma non le mai neppure pensate) sotto le quali c’è lo spazio necessario per dire la vostra.

Allora per coloro che vogliono sentire anche qualche opinione di un marziano, se non altro per mettere in giusta prospettiva la propria e fare un confronto, vi dico la mia intanto su Francia-Spagna che ovviamente è la sensazione del torneo. Di sfuggita vorrei che andaste a rileggervi le percentuali che davo sui favoriti perché già da quelle potreste capire che la Spagna non mi dava molta fiducia. Come mai? Per la elementare ragione che era lampante lo scollamento fra organico di giocatori (sto cominciando a tentare di scrivere tutto in italiano, anche per reazione all’intollerabile gergo pseudoinglese che mi viene vomitato addosso dai telecronisti nouvelle vague, per cui non scrivo roster, che è forse la parola che vi aspettavate) e panchina. C’erano 12 grandissimi giocatori, certo, alcuni di essi spocchiosi e antipatici, tipo Rudy, quello che un forte giocatore che ha giocato molti anni a Barcellona e che è stato il grande assente della nazionale slovena ai Mondiali ha definito come il giocatore più odioso che mai abbia affrontato in vita sua (picchia a mano salva quando gli arbitri non vedono e poi fa sempre scena quando pensa di essere stato toccato), che però siano tutti molto, ma molto capaci, penso sia innegabile. Avere in mano una squadra del genere è la iattura più grande che possa colpire un allenatore. Ha di fronte infatti tutta gente con un grande ego, gente che ha spesso deciso partite e campionati in prima persona, gente abituata a giocare 40 minuti a partita e che soprattutto non si sente per nulla inferiore ai compagni di ruolo con i quali gioca in nazionale. Come si gestisce un gruppo del genere? E chi lo sa? A me ovviamente non è mai capitato. A occhio penso intanto che ci voglia un grandissimo carisma in panchina e poi una gestione oculata con il classico pugno di ferro nel guanto di velluto. Nel senso che, magari senza dir nulla, l’allenatore (se pensate che mi sfuggirà qualche volta la parola coach vi sbagliate di grosso) nelle partite di preparazione mette in campo sì il primo quintetto, che lascia tutti indifferenti, ma soprattutto in tutte le partite mette in campo sempre lo stesso ultimo quintetto, che è il quintetto fondamentale, formato dai giocatori nei quali ha più fiducia e che pensa possa fargli vincere le partite. In questo modo vellutato (soft) i giocatori cominciano a capire quali siano le gerarchie di gruppo e cominciano a adeguarsi, nel senso che pian piano cominciano a capire cosa l’allenatore vuole da loro. Vuole gestione della palla e gioco ordinato? Entra il tal dei tali. Vuole un cambio di ritmo e maggior intraprendenza in attacco? Entra un altro. Vuole magari l’azione di lucida follia per i momenti di crisi? Entra un terzo. E così via.

Il celebre Capitano Queeg

Il celebre Capitano Queeg

Ora, nella Spagna vista in questi Mondiali, nelle prime partite, quelle inutili nelle quali gli avversari neanche si sforzavano di combattere, tutti potevano fare tutto, che tanto gli riusciva. Ieri, contro un’avversaria che l’ultimo grande scontro con la Spagna l’aveva vinto (considerazione fondamentale sulla quale ovviamente ritornerò, anche perché nessuno l’ha nominata, per cui degli avversari non aveva alcun timore reverenziale), e che in partita secca non aveva niente da perdere, arrivati nel finale punto a punto, né Calderon, né Rodriguez, né Rubio (va be’, per lui la cosa è congenita), né Navarro sapevano cosa cavolo la panchina volesse da loro. Per cui si sono istintivamente rifugiati nel ruolo di salvatore della patria tirando a casaccio, facendo una grandissima confusione e insomma buttando nel cesso la partita mentre l’apparatčik che hanno messo inspiegabilmente in panchina per gestire questo gruppo di belve aveva lo sguardo perso nel vuoto del capitano Queeg nell’Ammutinamento del Caine (ancora più vacuo di quello di Repeša, cosa che non pensavo possibile). Ancora una parola su Rubio, che è per me come Pianigiani per Franz. E’ un bravissimo giocatore, ma se ancora oggi, dopo aver dimostrato milioni di volte di essere un buon giocatore e basta, ogni volta che passa la palla a uno solo a due metri da lui, i commentatori svengono dall’orgasmo, allora non so più cosa pensare se non che tutti siano vittime di infatuazioni incomprensibili. Ha lavorato tantissimo sul tiro? Certo, e infatti ora, quando è solo, anche segna. Bravissimo. Però il piccolo problema è che lui sarebbe un regista (play) e allora chi gli passa la palla per il tiro con i piedi per terra? Lui stesso? Impossibile. Un altro che gioca da regista? E allora vuole dire che lui sta facendo la guardia, ruolo nel quale in Spagna ci sono almeno una trentina di giocatori più forti di lui. Il regista deve sapere costruirsi un tiro, visto, appunto, che il regista è lui. E Rubio un tiro non se lo sa costruire, e non parliamo delle conclusioni volanti in area che non sa neppure cosa siano. Per cui è un giocatore dai limiti grossissimi e invalicabili. Per ora, e per quanto mi riguarda per sempre, basta con Rubio.

Rudy Gobert ostacola Chacho Rodríguez (AP Photo)

Rudy Gobert ostacola Chacho Rodríguez (AP Photo)

La Francia ha vinto la partita intanto perché ha vinto l’anno scorso lo scontro chiave agli Europei. E, se bisogna saper perdere, molto più importante è saper vincere. Quando si è vinto una volta, poi il mondo appare completamente diverso e gli avversari assumono sembianze semplicemente umane, di esseri come noi, anzi, noi siamo meglio, perché li abbiamo già battuti. E così è nato l’11 a 2 iniziale che ha scosso gli spagnoli fino al midollo. Seconda ragione assolutamente chiave. La terza, e tecnicamente decisiva, e qui so già che molti miei lettori abituali avranno un sobbalzo, è stata la mostruosa partita di Gobert che è stato per me l’uomo decisivo della partita. In difesa soprattutto. Ebbene sì, la partita i francesi l’hanno vinta in difesa. Gobert è stato quello che nei momenti chiave ha mandato messaggi pesanti come macigni: la stoppata su Pau, una palla (con quattro falli a carico) strappata allo stesso Pau, tre rimbalzi in attacco in mischia con conseguenti nuovi possessi e massicce iniezioni di fiducia nei compagni (chiunque abbia mai giocato a basket sa quanto sia molto più facile tirare quando si sa che tanto, mal che vada, c’è sempre un compagno capace di recuperare il rimbalzo), messaggi che hanno fatto capire agli spagnoli che sotto canestro non c’era trippa per i gatti. E anche da questo sono poi scaturiti tutti gli attacchi ad capocchiam degli spagnoli nel finale. Oso dire che Gobert da solo ha fatto letteralmente esplodere il giocattolo spagnolo, andato in mille frantumi. Poi ha segnato Heurtel, niente da dire (sarà un caso che gioca in Spagna e dunque conosce i suoi polli?), però il dato, che è sotto gli occhi di tutti e che nessuno, nei primi commenti, ha rimarcato, è che la Spagna, squadra di infallibili mitragliatori, ha segnato 52, cinquantadue (!), punti, 13 a quarto! E ancora una parola su Boris Diaw che per il mio mestiere ho visto giocare e commentato quando era ancora al Pau Orthez assieme ai fratelli Pietrus come grande speranza del basket francese. Devo confessare che mi era sempre sembrato un giocatore “imparato”, dal grande fisico (non ci crederete, ma da giovane correva e saltava come un grillo, non per niente papà era campione di salto in lungo e mamma nazionale di pallavolo), ma senza vero talento. Poi però ha dimostrato grandissima intelligenza ed è migliorato di anno in anno. Sicuramente (e anche qui già vedo i sobbalzi) il passo decisivo è stato quando è approdato alla corte di Popovich a San Antonio, dove ha finalmente trovato la sua dimensione e soprattutto, come accennavo poco sopra, ha imparato come si fa a vincere. Ieri è stato semplicemente perfetto, tirando (e segnando!) i tiri che ogni capitano che si rispetti deve prendere e dando sempre ai compagni un punto di riferimento fondamentale. Sul coach Collet ripeto quanto ho già detto più volte. Lungi dall’essere un’aquila, ha però il grandissimo merito di non mettersi contro i giocatori, ma anzi di assecondarli per quanto sanno fare senza rompere loro le scatole. Insomma, il perfetto coach per una nazionale. Lui le partite le prepara sempre bene, lo faceva anche nel passato, poi come le guidava in panchina era tutto un altro discorso. Finalmente ha trovato giocatori bravi, esperti e convinti (non ho neanche nominato Batum e Gelabale), li lascia giocare e loro vincono. Cosa si vuole di più?

Faccio ammenda anche per quanto riguarda la Serbia. Contro la Grecia (di gran lunga la partita meglio giocata da ambo le squadre finora in questo mondiale) e ieri contro il Brasile ha giocato una partita perfetta dal punto di vista dell’impegno, della lucidità e del gioco di squadra. All’inizio avevo l’impressione che Đorđević non fosse in sintonia con i suoi giocatori secondo la ben nota sindrome del grande giocatore che non riesce a capire perché i suoi protetti facciano cavolate che a lui non sarebbero neanche passate per la mente di fare. E invece poi ha dimostrato che di basket ne capisce semplicemente facendo fare ai giocatori che ha quello che meglio sanno fare, esaltandone le doti e mascherandone i difetti, cosa che, l’ho già scritto tempo fa, è per me la discriminante che caratterizza un eccellente allenatore. Non ci voleva molto, ma almeno lui l’ha fatto. Intanto ha responsabilizzato il buon Teodosić che ha giocato due partite assolutamente impeccabili. Anche i tiri balzani che ha tentato avevano in quel momento una loro logica, perché venivano in momenti di inerzia sia personale che di squadra positiva. E, quando li ha sbagliati, poi ha smesso di farli. E quando il buon Teo gioca, gioca, sa giocare. Ha fatto giocare Bogdanović nel suo ruolo affidandogli i tiri importanti al momento giusto, e non c’è cosa migliore per un giocatore, segnatamente un tiratore, che sapere quando il tuo allenatore vuole che tu tiri e quando invece devi fare qualcosa d’altro, e infine, uovo di Colombo, ha messo Nemanja Bjelica nel suo ruolo naturale di regista avanzato, di giocatore nominalmente in posizione 3 o 4, ma con precisi compiti di regia avanzata, nel senso che sta a lui decidere quale sarà la soluzione dell’attacco, se un tiro da fuori, una penetrazione, uno scarico, un blocco al palleggiatore con successivo taglio o apertura (visto che anche il pick and roll/pop si può spiegare in italiano?). E, visto che lui di testa è essenzialmente un regista di 2 e 10, le cose hanno funzionato a meraviglia. Serbia-Francia di domani sarà sicuramente una leccornia e non vedo l’ora di vederla, con buona pace di coloro che facevano il tifo per gli spagnoli. Da un punto di vista mediatico o sociale mi dispiace per loro, perché con la loro eliminazione il Mondiale si sgonfia e tutto il grande circo mediatico della vigilia va a escort (mi piace quella degli americani che, visto che la Spagna ha perso, allora non avranno più avversari nei tempi a venire…ma si sono visti in DVD?), ma dal punto di vista tecnico-cestistico la partita di ieri è stata per me una straordinaria goduria come sempre quando i buoni (cioè quelli che giocano bene) vincono e i cattivi (quelli che giocano alla rovescia), per quanto favoritissimi, perdono.

Per finire, insisto: gli americani, salvo due o tre di loro, tecnicamente non sanno giocar bene, alcuni anzi giocano malissimo, praticamente non lo sanno fare, compresa quella belva umana di nome Faried che al massimo ha imparato che, prima di muoversi per il campo, bisogna almeno una volta far battere la palla per terra. Esagero, ovviamente, ma l’avete mai visto fare un assist, una giocata di fino? Non gli serve? Distrugge tutti con il fisico? E purtroppo questo è il punto. Visto che non gli serve, mi spiegate perché mai dovrebbe prendersi la briga di imparare a farlo? Come mai se hanno solo il fisico e non sanno giocare allora danno a tutti 30 punti o più, chiede il solito adoratore senza se e senza ma dell’NBA? Per la stessa ragione per la quale una squadra di veterani dopolavoristi darà sempre dai 30 punti in su alla nazionale campione d’Europa Under 14. La spiegazione è tutta qua. Fisicamente non c’è paragone. Chiedere agli sloveni (e prima a tutti quelli che li hanno incontrati finora) per farvelo spiegare ancora meglio.