Sergio Tavčar

Sergio Tavčar

Purtroppo non ho visto le Final Four dell’NCAA, anche se avevo tutte le intenzioni di farlo. E’ successo che volevo guardare le repliche del giorno dopo, ma, avendo saputo che Louisville, per cui facevo un clamoroso tifo contro, aveva battuto in rimonta sia Wichita State che Michigan, per le quali invece facevo un gran tifo, non ho avuto il fegato di torturarmi per assistere a due brucianti sconfitte. Perché facevo tanto tifo contro? Perché semplicemente le squadre di Pitino giocano il basket tipico che fa vincere a livello NCAA, ma che in effetti non producono giocatori di quelli che piacciono a me, ma super robusti robot che per i miei gusti non mi dicono proprio niente. Mentre per esempio desideravo tanto che vincesse Trey Burke, giocatore per il quale stravedo e che per me è stato l’unica vera stella lucente che abbia brillato in questa stagione (come dicono i miei illustri colleghi: che delusione Cody Zeller!). A dire il vero mi piaceva un sacco anche Shane Larkin di Miami Florida (la squadra di quel bravissimo coach che è Larranaga), ma purtroppo sono stati eliminati subito, a mia gran sorpresa.

Eurolega: nessuna vera sorpresa, anche se, perversamente, continuo a ritenere l’Anadolu Efes più forte dell’Olympiacos che però, lo ammetto senza esitazioni, ha molti più attributi dei turchi che in teoria avrebbero guardie più forti, ma tutte piuttosto incapaci quando la battaglia si combatte con la baionetta. Che la serie fra il Barcellona e il Panathinaikos sarebbe stata inguardabile l’avevo, me lo concederete, pronosticato in tempi non sospetti. Senza Mickael, con Lorbek a un quarto di servizio con i problemi che ha di acciacchi e di salute e con Re Juan Carlos dall’autonomia sempre più limitata il Barcellona è una squadraccia. Scusate, ma continuo a ritenere Marcelinho un decerebrato che al massimo, con un tiro assurdo e fondamentalmente idiota, può farti vincere partite che prima, con il suo gioco sconsiderato, aveva fatto di tutto per perdere. Per non parlare di Wallace e Ingles (perché Jawai e Sada dove li mettiamo?) con la ciliegina sulla torta della guida in panchina. Il Pana ha perso praticamente tutti a parte ovviamente Diamantidis che quando fa il Diamantidis può vincere da solo due partite contro il Barcellona, ma che se indovina una giornata o un periodo di cattiva forma affonda tutta la squadra che senza di lui e con Baby Shaq usato con il contagocce (ma perché, di grazia?) è praticamente inesistente (a parte Lasme, giocatore che tutti prendono in giro per ragioni a me ignote, ma che è assolutamente bravissimo, facendo sempre e comunque solo cose giuste). Morale della favola: questa Eurolega può solo perderla il Real(attenzione: addirittura in semifinale contro il Barcellona – potenza dei derby), nel senso che se trova gli equilibri giusti col Chacho che sarà il giocatore chiave di tutte le Final Four non vedo chi possa batterlo, neanche il CSKA che pure dovrebbe essere l’unica possibile altra pretendente. Sempre sull’Eurolega una piccola chiosa sull’assoluto disinteresse che riscuote nella stampa specializzata italiana, leggi Gazzetta che dedica pagine su pagine all’NBA in puro stile calcistico, nel senso che le notizie fondamentali riguardano paturnie e problemi vari dei singoli giocatori, storie insomma che fanno vendere copie ma che di sportivo non hanno niente. I giornali devono vendere copie e se fanno così una ragione ci sarà, non essendo masochisti. E la ragione purtroppo è quella che ci fa tutti noi andare in bestia: il grande pubblico oggigiorno, colpa soprattutto dei media che, appunto per vendere copie vanno al più bieco traino dell’opinione pubblica imboccando senza ritegno la linea di minor resistenza, segue soprattutto, grazie anche alle storie di cui sopra, il rutilante circo dell’NBA proprio perché è un circo che, incidentalmente, per fare spettacolo pratica (dire gioca mi sembra troppo) il basket. Con ciò, come detto, seguendo la deriva calcistica per la quale un’unghia incarnata del centrale sinistro del Sassuolo è più importante dei metodi di allenamento di Conte, Allegri, Montella o Mazzarri (Stramaccioni no, onestamente, perché penso che non lo sappia neanche lui) e secondo quale filosofia mettono in campo le loro squadre e perché usano le disposizioni tattiche che usano, tutte cose che per esempio interesserebbero me.

Vorrei finire con una riflessione sulle cose che piacciono a me e di cui, potenza del coach che è in me, tanto mi piace scrivere. Se ritenete le mie opinioni tecniche irrilevanti potete anche smettere di leggere. Vi ho avvertiti. Continuo: Stefano mi da un assist pazzesco parlando dell’attacco alla zona, avendo trovato il mio pallino assoluto. Dire che concordo in pieno con quanto lui scrive è dire poco. Non sa quanto piacere mi abbia fatto leggere che il suo coach dai tempi del minibasket diceva che la zona nevralgica dell’attacco alla zona è quella del post alto in lunetta e che solo da lì possono nascere i pericoli per la difesa. Chi è ‘sto coach? Vorrei tanto saperlo per contattarlo. Parlando di attacco alla zona penso che si possa partire da lontano con una constatazione che mi sembra banale. Mentre la uomo difende, appunto, gli uomini e dunque per metterla in difficoltà bisogna muovere gli uomini nel modo più razionale possibile con tagli e blocchi continui, la zona difende la palla e dunque per batterla bisogna muovere la palla. Avete mai provato, giocando le partitelle fra amici, attaccare la zona (nelle partitelle tutti, prima o poi, passano a zona per ovvie ragioni di fiato carente) semplicemente girando vorticosamente la palla, senza alcun tipo di costrutto, rimanendo magari sempre lì? Provatelo: vedrete che senza scampo dopo una quindicina di secondi un attaccante avrà sicuramente un tiro del tutto aperto. Garantito. Se poi, come vecchissima, ma validissima regola prevede, ogni tre passaggi laterali ne fate uno dentro, l’effetto sarà ancora più devastante. Tutte le zone, anche quelle fatte ai massimi livelli, vanno infatti in grossa sofferenza quando le “pompate”, quando cioè le fate muovere dentro e fuori, perché è in questo tipo di movimenti che normalmente qualche sincronismo difensivo inevitabilmente salta. In quest’ottica il modo migliore per attaccare la zona è, secondo me, proporre innanzitutto i famosi soprannumeri, cioè il triangolo da un lato del campo formato dall’ala, dal post alto e dal post basso posto sulla linea del tiro libero. La difesa in questo caso deve decidere come mettersi: se il post basso nel suo taglio viene seguito sulla linea di fondo dal difensore del lato opposto, allora un semplice ribaltamento veloce di lato permette all’ala dell’altra parte di giocare un comodo uno contro uno contro la guardia che è dovuta per forza andare a chiudere. Con ovvi vantaggi di mismatch. Se non viene seguito, allora ci si trova di fronte a un tre contro due che permette sicuramente ad uno dei tre di avere un comodo tiro (che poi bisogna mettere, non bisogna mai dimenticarlo!). Se a coprire il taglio del post basso è il centro, come oggigiorno accade quasi sempre, allora si crea inevitabilmente una voragine proprio sulla linea del tiro libero che, incredibilmente, non si sfrutta mai. Nel senso che può anche succedere che la palla vada lì a uno che vi capita per caso, ma questi non si rende mai conto di aver praticamente già distrutto la zona, perché non guarda il canestro, ma riapre. Peccato mortale: quando la palla è in lunetta, basta girarsi verso il canestro per tirare una specie di facile tiro libero o, in caso di rotazione, avere una serie ghiotta di opzioni per un passaggio facile fra le linee difensive. Tutto ciò però facendo girare la palla. Per cui quando vedo attacchi alla zona con palleggi insistiti o, peggio ancora, quando vedo attaccare la zona con un pick and roll mi viene l’orticaria per non dire il voltastomaco. Per me il paradigma assoluto dell’attacco alla zona è quanto vidi fare in un’azione nella più bella partita che abbia mai visto e commentato, e cioè la finale dei Mondiali 2002 fra la Serboslavia e l’Argentina. Successe che gli argentini (quintetto? Con Ginobili, ahimè, infortunato, era Pepe Sanchez, Delfino, Nocioni, Oberto e Scola) contro la zona, appunto, fecero in tempo incredibilmente (non più di 7-8 secondi) breve tutta una serie di passaggi nella quale tutti e cinque toccarono la palla dandola subito via all’uomo che nel frattempo si era smarcato finendo col trovare Delfino totalmente libero (e la Serboslavia – Bodiroga, Vujanić, Stojaković, Divac e Tomašević – difendeva, credetemi) per un indisturbato tiro da tre che mise senza scampo. Ecco, forse varrebbe la pena di guardare ancora il basket se solo si potesse avere la sublime gioia di vedere di tanto in tanto azioni del genere.