L’ultimo tema che avete trattato nei vostri commenti sono le finali del torneo NCAA e mi sembra a questo punto di dovere delle spiegazioni e dei ragionamenti che completino il discorso che ho fatto due volte fa sul perché il torneo NCAA non mi interessi più. E continuerà a non interessarmi proprio per le ragioni addotte da Franz nel bel discorso, del tutto condivisibile perché fondamentalmente giusto, fatto per perorare la sua causa e che sono invece esattamente le ragioni del mio rifiuto.

Provate a mettervi nei miei panni. Sono gli anni ’60 del secolo scorso. Siete adolescenti avviati verso l’età maggiore, appassionati di musica (all’epoca, con tutto quello che succedeva, era molto facile esserlo) e di basket. Del quale però potete vedere in TV solamente un tempo di una partita di Serie A il sabato pomeriggio, con a seguire la partita delle 5 del campionato jugoslavo. Tutto qua. Però sapete che dall’altra parte dell’oceano c’è il vero basket, quello praticato da coloro che sono di un altro pianeta e che avete avuto modo di vedere a sprazzi grazie alle Olimpiadi romane con i vari Robertson, West, Lucas, Bellamy e compagnia bella, e nei highlights di quelle di Tokio con Bill Bradley.

Spencer Hawes (foto Ann Yow / The Seattle Times)

Vivevo dunque in un mito di una cosa bellissima, ma lontana e inafferrabile. Questo per dire che per noi della nostra generazione il basket americano era una cosa ineffabile, eterea, divina quasi, di cui potevamo avere qualche cognizione solo quando arrivava nel campionato italiano qualche forte giocatore appena uscito dal college. Tempo fa qualcuno aveva nominato Steve Hawes. Posso garantire che lui, assieme a Chuck Jura, era il mio idolo assoluto. Avevo cominciato a giocare e stavo quasi per cominciare ad allenare e mi bevevo in TV ogni mossa che faceva. E posso confermare, per averlo visto, che in una partita alla Misericordia, trasmessa in TV, l’arbitro gli annullò per passi un canestro che segnò dopo una finta in giro, ritorno, passo e gancio (all’epoca si usava) con l’avversario che neanche sapeva più come si chiamasse. Come non lo sapeva, evidentemente per non averlo mai visto prima, l’arbitro che poco mancò che il povero Hawes non uccidesse seduta stante per il sommo delitto perpetrabile, quello di leso basket.

Lasciamo stare poi quello che mostrò Bill Bradley nella trionfale cavalcata in Coppa Campioni del Simmenthal, quando arrivava da Oxford per fare lo straniero di Coppa.

Sono dunque cresciuto cestisticamente in un’epoca nella quale l’America era lontana ancora anni luce da noi e nella quale funzionava in modo impeccabile (per quanto ipocrita in modo tipicamente americano) tutta la piramide di formazione, dal liceo al college con i quattro anni obbligatori (i primi tempi non sapevamo neppure che esistesse la clausola dell’indigenza, per cui uno, se dimostrava con prove inoppugnabili che aveva bisogno disperato di soldi, poteva andare fra i pro dopo il terzo anno di college), piramide che formava giocatori istruiti in modo impeccabile che quando potevano andare nell’NBA erano pronti ad essere subito protagonisti trovandosi accanto a gente che aveva fatto la stessa loro scuola. E, ricordo ancora una volta questo particolare per me fondamentale, il basket era visto e percepito allora come uno sport per gente intelligente e istruita e nessuno voleva in nessun modo apparire volgare o sguaiato, perché la sua immagine sarebbe stata distrutta dai media e dall’opinione pubblica. Figurarsi poi i neri, gli afroamericani come si dice ora, che, come tutte le minoranze oppresse di ogni tipo, per emergere dovevano essere bravi e soprattutto intelligenti e laboriosi almeno il doppio rispetto ai loro colleghi bianchi. Il basket era e rimaneva uno sport di elite universitarie principalmente bianche wasp. La cosa era evidentemente socialmente odiosa, ma dal punto di vista tecnico e della serietà, insomma…diciamo così, se un nero riusciva a sopravvivere e a imporsi potete star certi che era una persona di livello spaziale in tutti i sensi. Cosa tutto sommato non negativa in assoluto se poteva fungere da esempio a tutti quelli che aspiravano ad emergere come aveva fatto lui.

Il basket americano era allora rigidamente diviso in due comparti, quello dilettantistico del college e quello professionista dell’NBA che era allora vista come lo spettacolo (oggi, che è diventata veramente un circo, smaccatamente mediatico per masse fondamentalmente ignoranti, è vista come il massimo possibile del grande basket – o tempora, o mores!), mentre l’NCAA era il basket nella sua essenza più pura. Come ebbe una volta a spiegare giustamente Mirko Novosel che criticava aspramente l’abitudine delle nazionali europee di andare a giocare tournee amichevoli in America contro squadre di college, il basket dei nostri club era un basket di giocatori, paragonabile in piccolo a quello dell’NBA, mentre il basket di college era un basket di coach, ed era fondamentalmente un altro sport. Nell’NCAA, proprio per il fatto che l’unica costante delle varie squadre era esclusivamente lo staff tecnico, con i giocatori che cambiavano di stagione in stagione, ogni college aveva il suo tipico stampo di gioco dovuto alle idee del coach che poteva senza impedimenti di alcun genere realizzare i suoi concetti nei vari campi, difesa a zona, a uomo, attacco ingessato o libero, insomma poteva per anni mettere in piedi il gioco che più gli piaceva cambiando e perfezionando i giochi di anno in anno fino a raggiungere più o meno quanto aveva in mente. Tanto più, altra cosa fondamentale, che i giocatori se li andava a scegliere lui prendendo quelli che più reputava adatti al gioco che intendeva praticare.

Fino a che questo sistema ha funzionato, diciamo fino alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, seguire l’NCAA era un vero e proprio godimento dell’anima. Ognuno interessato agli aspetti tecnici del gioco, ed io, da giovane allenatore che voleva capire l’essenza stessa del gioco per poi poterlo insegnare ai suoi ragazzi, ero una vera e propria spugna in merito, poteva sincerarsi con i suoi occhi se le sue idee, che magari combaciavano con quelle di qualche allenatore di qualche particolare squadra, funzionassero o meno quando la squadra a cui si ispirava affrontava avversari con tutt’altra filosofia di gioco. Era insomma un fantastico percorso di apprendimento, un vero e proprio clinic agonistico, dunque vero perché messo in pratica in partite nelle quali contava l’unica cosa importante di ogni gioco, e cioè vincere.

Poi, nel momento stesso nel quale David Stern ha deciso che l’immagine dell’NBA doveva passare da quella di sport universitario per gente istruita a quella del gioco da playground, al gioco spettacolare che si sposasse con la breakdance da strada, tutto è andato semplicemente a catafascio. Le varie ferree regole che vigevano nell’NCAA si sono dapprima allentate per poi praticamente svanire. I giocatori veramente fortissimi tipo Kobe o Lebron hanno cominciato a andare in massa nell’NBA saltando addirittura il college (cosa che avevano fatto in pochissimi fino ad allora con l’unico che era riuscito a diventare qualcuno che era stato Moses Malone) oppure facendo il primo anno per poi subito andare a raccattare soldi fra i professionisti. Sono saltate le regole (anche se non credo di aver mai letto da nessuna parte che siano state abolite ufficialmente, sono state semplicemente dimenticate) che prevedevano sanzioni pesantissime per chi avesse tratto vantaggi materiali dal fatto di giocare a basket al college, sono saltate tutte le regole che prevedevano sanzioni per i giocatori che non fossero bravi anche nello studio (anche qui, solita ipocrisia americana, nessuno le ha abolite, semplicemente i giocatori di basket hanno cominciato ad avere, diciamo così, sempre più “corsie preferenziali”), e la conseguenza di tutto ciò è stata che i coach hanno avuto sempre meno controllo su quanto succedeva nella loro squadra. E’ successo che, per pure ragioni opportunistiche, i college che avevano il fenomeno che sapevano sarebbe rimasto da loro solamente per brevissimo tempo, un anno di solito, due se era proprio un secchione, hanno abiurato al gioco maturato in tante stagioni di prove e adattamenti per cavalcare l’onda del loro fenomeno che se ne infischiava delle regole del coach per mettere insieme tutti i numeri possibili per staccare l’anno dopo un assegno a molti zeri da qualche squadra dell’NBA. Non so, un esempio che mi salta subito alla mente è Carmelo Anthony a Syracuse.

Lascio stare tutta la parte del discorso che si riferisce al fatto che oggigiorno nell’NBA approdano ogni anno sempre più mezzi giocatori, fondamentalmente non istruiti, ma che soprattutto mai hanno avuto a che fare con una disciplina di squadra, quella che veniva inculcata in modo quasi subliminale a quelli che uscivano da quattro anni di college.

Paradossalmente questo andazzo ha fatto sì, e qui sono parzialmente, se non totalmente, d’accordo con Franz, che l’NCAA si “purificasse”, nel senso che, detto brutalmente, oggigiorno nelle squadre di college sono rimasti a giocare sostanzialmente solamente gli sfigati, quelli che, pure nell’NBA generosa di oggidì, NBA nella quale può giocare (oddio, giocare, diciamo fare panchina) uno come Vlatko Čančar, che è sì di Capodistria e dunque faccio il tifo per lui, ma che non è certamente un drago, o potrà giocare addirittura un tronco semovente come Gabriel Deck, non riescono a trovare posto. E, ripeto, non riuscire a trovare posto nell’NBA di oggidì vuol dire essere molto scarsi. Del resto che quello che sto dicendo non sia proprio campato in aria o una mia semplice paturnia lo testimoniano vari fatti. Nell’NCAA hanno giocato, addirittura nelle rotazioni importanti, ragazzi come Mussini e Moretti. Dove sono ora? A Ohio State il play titolare, vero fosforo della squadra, era Ben Craft, poi bravissimo, per carità, a Trento, ma che non mi potrete mai vendere che fosse Bob Cousy o Tiny Archibald. A tagliare la testa al toro c’è secondo me l’episodio del maggio 2019, quando la squadra dell’Università di Baylor venne in Europa per una tournee precampionato e giocò una partita amichevole ad Aquilinia contro lo Jadran, squadra di C gold. La partita finì 100 a 82 per Baylor e, secondo quanto dice capitan Borut Ban, che non vedo perché dovrebbe dire balle, sei giocatori di quella squadra, di cui quattro del primo quintetto, sono ora campioni NCAA.

Ora spero mi permetterete di affermare che, rispetto ai tempi nei quali le migliori squadre nazionali europee andavano a giocare amichevoli in America contro le squadre di college ed erano contente se ritornavano a casa con uno score attorno al 50% di vittorie, ottenute contro college non di vertice, mentre nelle partite contro i college forti le prendevano di santa ragione, che ora i campioni NCAA accettino di giocare partite contro squadre di Serie C italiana e che soprattutto ci sia partita senza asfaltature imbarazzanti testimonia in modo inconfutabile il fatto che il livello attuale dell’NCAA sia del tutto non paragonabile, in peggio ovviamente, rispetto a quello dei tempi nei quali la seguivo io.

Certo, si tratta di un campionato per giovani, in teoria formativo. Si vedono squadre che praticano un gioco logico e interessante. Ma ce ne sono anche da noi. E allora, mi spiegate cosa capisco di più a guardare l’NCAA rispetto a Falconstar-Jadran? Ecco perché non la guardo più. Se fossi giovane potrei anche vedere qualcosa non avendo memoria storica. Ma io, per la mia età avanzata, ce l’ho e ricordo cosa fosse l’NCAA, cosa fosse un Indiana State-Michigan State con Bird da una parte e Magic dall’altra, e vedere cosa è invece oggi mi fa male, mi fa pensare a una mal riuscita caricatura.

Piccola curiosità per finire e chiedo agli esperti di dirmi qualcosa sul centro di Iowa Luka Garza che ha preso dei premi e di cui ho letto un profilo sul sito della TV slovena, interessata a lui perché è nipote acquisito di Teo Alibegović, primo cugino di Mirza e Amar, visto che le mamme sono sorelle. E’ uno veramente bravo?