MarShon Brooks (Foto: Savino Paolella)

MarShon Brooks (Foto: Savino Paolella)

Vorrei parlare in generale, perché, come detto fino all’esaurimento psico-fisico, a guardare partite intere non ce la faccio proprio più. Addirittura venerdì scorso ho dimenticato proprio di guardare la partita di Sassari di Eurolega in favore di un documentario sulla storia della Filarmonica di Berlino che mi ero registrato su MySky la sera prima. Tanto per inquadrare la situazione. Allora, in generale: della serie, non è sempre domenica, o una rondine non fa primavera, non riesco a capire tutti questi epinici a favore del Brooks di Milano che domenica ha fatto il gradasso contro una squadra totalmente senza difesa. I commentini sarcastici potrete farli dopo che avrà giocato una partita del genere anche in Eurolega. Io sono convinto che, premessa, non avendo gli occhi foderati di prosciutto o non essendo incatenato alle sirene dei media della grande città che parlano (normalmente, ci mancherebbe) pro domo sua,  un giocatore possa essere inquadrato dopo pochi minuti guardando come si muove, cosa fa, quali siano le sue scelte e quali siano le sue capacità tecniche, leggi come esegue i vari fondamentali. Secondo questi parametri Brooks continua a mio parere a essere un giocatore molto limitato. Ha fisico quanto volete, se è lasciato solo ha tiro, ha la classica penetrazione neo-americana con svolazzi (inutili, ma sono il solo a pensarlo, per cui dimenticatelo) che fanno saltare per aria il pubblico di bocca buona, ma in fatto di genio cestistico risulta essere a mio avviso estremamente carente, se proprio voglio essere elegante. Oddio, può anche capitare che, se è intelligente, riesca con il tempo a calarsi nella realtà nella quale è capitato, che si affini, che cominci a giocare di squadra, che insomma migliori fino a rendersi utile in continuazione e non solo a sprazzi, insomma i miracoli possono anche succedere, ma su questo lasciatemi avere i miei serissimi dubbi. Proprio nella partita di qualche turno fa in Eurolega, persa da Milano in casa neanche mi ricordo più contro chi, mi era capitato si saltare dalla poltrona e di fare una standing ovation solitaria quando Geri De Rosa, forse inavvertitamente, sicuramente non accorgendosi che in quel momento stava recitando il Primo Comandamento, ha detto la Verità più assoluta che si possa dire nel basket: “Un giocatore di basket di basket vero sa sempre, in ogni situazione, cosa fare e dove andare”, alludendo in modo neanche tanto velato che Brooks non sapeva cosa fare e andava per il campo a caso, ma questo lo aggiungo io, non voglio creare guai al mio amico, frase questa magnifica nella sua icastica semplicità, che andrebbe scolpita su una targa e appesa all’entrata di ogni palestra.

Chioso io: il giocatore di basket, come lo intendo io e come evidentemente lo intende anche Geri, non ha bisogno che sia l’allenatore a dirgli cosa deve fare, ma lo “sa” da sé, proprio perché è un giocatore di talento. Insomma detto in altro modo, il giocatore che capita fra i piedi di uno che sta giocando in isolamento, che taglia a caso quando proprio non può ricevere il pallone, o che non taglia quando ha davanti una voragine magari perché un avversario ha letto male il numero di quello che deve marcare (succede molto più spesso di quanto non si creda), o che in difesa si lascia sfuggire l’uomo guardando da un’altra parte o che marca tanto bene il proprio uomo che il passaggio dell’avversario lo colpisce in testa senza che lui se ne accorga, ecco, quello non è un giocatore. Poi potrà essere utile, potrà ogni tanto impazzire e fare partite strepitose, ma continuerà a essere un “non” giocatore di basket. Il campione, il fuoriclasse poi, in ogni sport, è quello che vede cose che altri non vedono, che riesce a visualizzare nella sua mente la situazione che si andrà a creare in campo in un tot di secondi, o anche decimi di secondo, prestabiliti e che dunque reagisce in anticipo rispetto a una situazione che deve ancora verificarsi. Se poi a questa dote abbina anche doti fisiche e caratteriali superiori, allora abbiamo il giocatore eponimo di una generazione o anche di un’era, tipo Pelè o Maradona, Larry, Magic e Jordan, Laver o Federer, per gli altri sport che conoscete meglio fate voi (o rugbysti, il forum è aperto, potete disquisire senza problemi – leggerò con interesse!).

Domanda: ci sono campioni di questo tipo nel basket di oggidì? Sapete bene come la penso, per cui la mia, dal mio punto di vista, era una domanda retorica. Oddio, un genio del basket ci sarebbe, e risponde al nome di Miloš Teodosić, il problema con lui è però che non ha né il fisico né soprattutto il carattere, per cui quando gioca il pubblico si diverte, vede cose sublimi, ma il suo coach (visto il mio passato in panchina mi sono chiesto molto spesso cosa avrei fatto io in panchina con un giocatore come lui – risposta: sarei in galera per omicidio preterintenzionale) in compenso a ogni minuto che passa si accorcia la vita di qualche mese. Sul fatto che attualmente di geni che vedono in anticipo cose che devono ancora succedere non ce ne siano non credo sia un problema. Visto che sono per definizione pochi è solo normale che ci sia un periodo storico nel quale per vari motivi abbiano difficoltà a palesarsi, leggi essere scoperti. Il problema vero è se, visti i tempi sempre più robotici, computerizzati, scannerizzati, analizzati, passati al tritacarne delle simulazioni virtuali, con ragazzi sempre più cibernetici che si dedicano allo sport (e dobbiamo essere felici che lo pratichino, uno sport qualsiasi) con obiettivi alieni rispetto a quelli per i quali noi andavamo a fare due tiri in campetto, sarà ancora possibile, in futuro, riconoscere e valorizzare talenti creativi e fuori dal coro. Ho paura di no. Sicuramente non fino a che saremo in vita noi di una certa età, dalla metà del secolo in su. Cioè fino a quando la grande ruota della civiltà non comincerà a fare il giro di ritorno. E per questo ci vogliono secoli, non anni.

Sergio Tavčar

Sergio Tavčar

Il sintomo più evidente che le cose non sono più quelle che erano una volta è il fenomeno che voi stessi sottolineate e che è anche alla base della paurosa crisi che sta cominciando a colpire il calcio, come mettono bene in evidenza i commentatori più accorti che non si limitano alle trite considerazioni stereotipe sui troppi stranieri, sui vivai che non funzionano eccetera, e cioè il fatto che i campetti sono sempre più vuoti. E se c’è qualcuno, quel qualcuno sono sicuramente tizi di mezza età con la pancetta che giocano per gli sfottò e la birretta conseguente. Di ragazzini manco l’ombra. Mi sono sempre chiesto a cosa sia dovuto questo fenomeno. Per me non può essere solamente perché sono cambiati i tempi, in quanto gli uomini, intesi come razza umana, sono sempre più o meno gli stessi, con gli stessi desideri, le stesse passioni, le stesse cose che li fanno divertire o arrabbiare. Tommaso, assieme a amici, organizza ogni anno a Staranzano un ruspante torneo 3 contro 3 nel quale la Coppa più ambita è quella del “banco”, leggi la quantità di birra complessiva ingurgitata nel corso del torneo dal totale dei componenti della squadra. Più o meno nella stessa epoca la sezione giovanile del nostro club culturale di Opicina, leggi più o meno tutti sportivi praticanti, organizza anch’essa un 3 contro 3. Ogni anno le due competizioni richiamano un grande numero di giocatori, dai giocatori delle Leghe nazionali (per esempio a Opicina c’è praticamente tutto la Jadran di DNB) a tantissimi giovani e giovanissimi che giocano, si impegnano, ma soprattutto si divertono. Uno si chiede, visto che si sono tanto divertiti giocando il torneo, perché non continuare magari il fine settimana successivo a giocare ancora, magari per qualche rivincita da festeggiare in osmica? Eppure non succede. Non so perché. Forse perché lo spirito dei tempi impone che si debba sempre giocare per qualcosa di materiale, tangibile, dalla paga mensile alla Coppa da festeggiare con selfie a raffica, e che dunque si sia perso il motivo principale per cui si fa sport, che è quello di svagarsi e divertirsi facendo cose che fanno bene alla salute. Quale strano meccanismo sociale, culturale, ambientale, fate voi, abbia innescato questo perverso meccanismo mi sfugge. Le famiglie sono troppo oppressive? I genitori hanno paura che i loro piccoli si facciano male andando con gli amici in campetto magari a sbucciarsi le ginocchia o a ricevere qualche bernoccolo senza che loro li controllino? Per cui devono essere sempre sotto controllo in casa e allora più che perdere, i ragazzi-e non acquisiscono neppure la percezione che là fuori, nel mondo, ci si può anche divertire senza dover provare sentimenti di colpa perché non si fa nulla di materialmente utile? Vattelapesca, non lo so. So solo che si dovrebbe cominciare a combattere questo andazzo. I club più intelligenti e lungimiranti dovrebbero intanto incentivare tutta l’attività estranea all’allenamento, sia essa magari una gara di cross o di free-climbing, tutto fa brodo per acquisire sempre nuove capacità motorie, e non reprimerla perché, dicono i coach di oggigiorno che per me sarebbero tutti da esonero immediato, in questo modo non possono avere i ragazzi sotto controllo e rischiano magari di infortunarsi. Mentre invece è dimostrato che è vero il contrario. Le probabilità di infortunio crescono in modo direttamente proporzionale alla quantità di scazzamento del praticante. Più uno si diverte e si impegna, più il suo corpo è vigile, più pompa adrenalina, e meno possibilità ha di farsi male. Senza contare le dimensioni mentali che sconfinano già nella metafisica: uno, più è felice e contento, più ordina al proprio corpo di stare bene (e viceversa, cosa che spiega tantissimi infortuni altrimenti inspiegabili). Che ne so: tante ore in campetto a praticare fondamentali equivalgono a tanti minuti in più di impiego in campo. Chi non va a giocare in campetto è fuori squadra. Draconiano, ma comprensibilissimo e, per me, da mettere in pratica automaticamente. Il coach non deve neanche sapere cosa hanno fatto in campetto, per non parlare dei genitori che questa pratica non devono neanche sospettarla, nel senso che non dovrebbero mai sapere che è il club a propugnare questo tipo di attività. Insomma, sto citando esempi a casaccio e sicuramente impraticabili, ma è per rendere l’idea. L’idea di far ritornare il gioco del basket a quello che è, un gioco e un divertimento, dal quale poi scaturisce l’impegno a livelli più alti da parte di quelli particolarmente dotati. Una volta i ragazzi-e bisognava allontanarli dai campetti con la forza. E’ tempo che ci si dia da fare perché, sempre con la forza, ci ritornino. Chissà, magari potrà succedere che dopo un periodo di smarrimento, comincino anche a divertirsi e a ritornarvi non più spinti per forza. Utopia? Perso per perso penso che bisognerebbe comunque provare.

Per finire rispondo a Roda su Manassero. Il suo caso è emblematico del fatto perché mi piace tanto il golf. Proprio perché è uno sport nel quale la componente mentale è predominante. E’ un po’ come il tiro al bersaglio e in merito l’autobiografia di Niccolò Campriani è meravigliosamente istruttiva e secondo me dovrebbe essere letta da chiunque voglia capire cosa sia lo sport. Manassero è del ’93, ha maneggiato la sua mazzina da golf da quando era in fasce, è palesemente un predestinato, ha talento e grande intelligenza e infatti ha battuto tutti record di precocità sul circuito europeo. E allora perché fa attualmente fa schifo?  Secondo me, ma giudico da fuori e di golf in senso tecnico non capisco appropriatamente proprio una mazza, ha voluto fare il salto di qualità fisico, aumentando i carichi di lavoro per avere un drive più lungo (o almeno così dicono gli esperti) proprio nel momento in cui il suo corpo raggiungeva la definitiva maturazione osseo-muscolare. Per cui i suoi colpi sono diventati diversi per semplici questioni biofisiche di leve e masse muscolari, all’inizio non si è ritrovato più con quelli che erano i suoi automatismi che aveva memorizzato da quando era piccolo, gli sono venuti i primi dubbi, poi i secondi, poi la spirale si è allargata ed è arrivato il patatrac mentale. Da come lo sento parlare e da quanto dicono tutti deve essere un ragazzo estremamente intelligente e sicuro di sé, per cui sono convinto che prima o poi esploderà. Però dovrà fare come ha proposto quel grandissimo esperto di golf che è Silvio Grapassonni: andare convinto per la sua strada e percorrerla fino in fondo non dando credito alle voci di nessuno, ma semplicemente portando a fondo il suo programma, per quanto tempo possa metterci.