L’EUROPA ALLA FINE DEL LOCKOUT

Geri De RosaLa pacchia è finita, allora. Basta Gallinari, Deron Williams e Tony Parker: noi poveri fanatici di basket italiani, turchi e francesi dal vivo non li vedremo più! Ma di pacchia si è realmente trattato? La domanda è lecita e la risposta è tutt’altro che semplice.

I numeri, si sa, nel basket contano e non poco; ma non sono tutto, per fortuna, anzi sono più effetto che causa, ci mostrano cioè quanto ha reso un giocatore ma non sempre ci spiegano perchè. E allora nel giudicare quale impatto abbia avuto sul basket europeo la colonia di vittime (per modo di dire) del lockout si deve guardare oltre i numeri. Deron Williams e Tony Parker fanno argomento a sé perché parte di quella ristrettissima cerchia di giocatori che da soli possono modificare il volto di una squadra (attenzione: modificarne il volto e basta perché da soli nemmeno questi marziani possono far diventare vincente una squadra). I giocatori di questo tipo sono pochissimi e giocano tutti nell’NBA tranne uno, Dimitrios Diamantidis che, con il consistente zampino di Obradovic, sta tenendo il Panathinaikos ai massimi livelli europei nonostante l’austerity greca. Gli altri, tra quelli sbarcati in Europa, sono giocatori bravi, forti, capaci spesso di meraviglie, ma non certo stelle; e il loro rendimento, dunque, va valutato come si fa con qualsiasi giocatore, bisogna porsi cioè la domanda “come ha giocato la loro squadra?” Affrontando l’argomento in questo modo l’analisi è forse più semplice e, credo, più significativa: si può dire che Rudy Fernandez e Serge Ibaka abbiano dato un contributo determinante all’ottimo inizio di stagione del Real Madrid, così come Ersan Ilyasova per l’Efes, Jordan Farmar per il Maccabi e, soprattutto, Nicolas Batum per il Nancy e Andrei Kirilenko per il CSKA. Non si può dire la stessa cosa invece per Nikola Pekovic, il cui impatto sul Partizan non è stato certamente quello dei tempi del Pana, e per Ty Lawson e il suo disastrato Zalgiris. La vicenda più complessa è invece quella dell’EA7 e di Danilo Gallinari: il Gallo a Milano ha fatto il possibile, non si è mai tirato indietro e ha dato tutto quello che aveva, su questo non ci sono dubbi. Con lui però la squadra non è decollata, anzi nel suo ultimo mese di permanenza si è tremendamente involuta, facendo diversi passi indietro rispetto all’inizio. L’avventura milanese di Danilo Gallinari è stata paradossale: la squadra tutta (dirigenti, staff tecnico, compagni) ha fatto ogni sforzo per far diventare il Gallo parte del progetto, seppur a tempo, per farlo sentire non la sola arma ma una delle armi. L’obiettivo però non è stato raggiunto, anzi si è ottenuto l’effetto esattamente contrario: Gallinari è apparso un corpo totalmente estraneo non certo perché rifiutato dal gruppo ma semplicemente perché rimastone fuori. Continuando a dire che la squadra non doveva diventare Gallo-dipendente, continuando a non metterlo in quintetto, a farlo sentire uno come gli altri si è arrivati al paradosso: Gallinari riceveva palla e non sapeva cosa fare. La passo? Tiro? Vado uno contro uno? Faccio quello che fa una stella o faccio il giocatore di squadra? Troppe domande anche per una mente cestistica sopraffina come quella del Gallo; nel frattempo, fra l’altro, tutti gli altri stavano a guardare lasciandogli le responsabilità che si lasciano alle stelle. Insomma la squadra ha avuto una sorta di crisi di rigetto, è parso davvero che il gruppo abbia rifiutato Gallinari, non per cattiveria o malafede, ma in modo naturale come gli organismi viventi, a volte, rigettano i corpi estranei. Costruire una squadra è compito difficile e tortuoso, si passa da errori, tentativi e rischi. Non c’è mai garanzia di successo: la follia, forse, è stata affidarsi a giocatori di passaggio, seppur molto forti ma comunque a tempo, accettando il rischio di arrivare a dicembre con ancora una identità di squadra da costruire: il problema che Milano, per esempio, deve affrontare ora, un problema ben più serio e complesso della semplice sostituzione di Danilo Gallinari.

GERI DE ROSA