Sabato scorso ho vissuto una giornata meravigliosa. In occasione della Barcolana è venuta in massa a Trieste una spedizione della LIBA, l’associazione delle leggende del basket, che ha presentato nel pomeriggio in Prefettura le sue iniziative a sostegno dello sport sano per tutti, e soprattutto per i bambini e i ragazzi, e ha provveduto a consegnare targhe ricordo a personaggi meritevoli per il loro impegno nello sport e nel basket in particolare. Poi c’è stata nel Palazzo dello sport una cerimonia per la scoperta di una targa che ricorda l’indimenticato e indimenticabile Principe del basket Cesare Rubini e infine una cena a base di pesce in un rinomato ristorante sulle Rive. Sono stato veramente onorato di essere stato invitato anch’io a questa iniziativa e di aver potuto passare una giornata indimenticabile assieme a tanti campioni che avevo ammirato da giovane appassionato, giocatore e allenatore in erba e non ancora cronista. Fare una camminata sulle Rive assieme a Pierluigi Marzorati per andare a prendere un aperitivo al Caffè degli Specchi, poi stare a cena a tavola con lui, Charlie Caglieris e Renzo Bariviera (Alberto Tonut non lo menziono non perché non sia anche lui una leggenda, ma semplicemente perché è amico mio da sempre, dunque lui è uno di casa) e infine farsi portare in macchina a casa da Fabrizio, per tutti “Ciccio”, Della Fiori assieme al mitico Lucky Lucarelli che era in albergo da Valeria a Opicina (dove abbiamo tenuto anche una sconvenscion) è stata un esperienza che forse loro stessi non sanno quanto mi abbia fatto piacere, ricordando quanto mi sembrassero lontani, eterei, in un Empireo tutto loro quando ero solamente un giovanissimo nessuno. Poi nel pomeriggio in palazzetto ho chiesto a un inserviente se mi potesse dire chi aveva vinto il Lombardia ricevendo la risposta “un tale Pògakar” e infine ho saputo che lo Jadran in C-gold aveva vinto in trasferta a Mirano, per cui la giornata è stata completa che più non avrebbe potuto esserlo. Ancora una volta veramente un sentitissimo grazie a tutti e particolarmente al leggendario ingegner “Pierlo” con il quale ci siamo scambiati anche tutta una serie di idee su cosa bisognerebbe fare per rilanciare in Italia il basket puntando principalmente sul lato culturale e ludico più che su quello agonistico. A proposito: parlando con lui e dei suoi inizi come giocatore ho saputo che da piccolo in oratorio faceva di tutto, soprattutto correva sulle lunghe distanze mettendo su fiato e muscoli, e che cominciò a giocare seriamente a basket solamente all’età di 13 anni. Un’altra dimostrazione che i grandi campioni hanno tutti, qualsiasi sia la loro latitudine, e dunque non solo nell’ex Jugoslavia, lo stesso tipo di formazione. Capite forse ora perché odio con tutte le mie forze il minibasket?

Passiamo adesso a cose meno serie, ma più attuali e tutto sommato interessanti. Fra i vostri commenti all’ultimo post mi ha particolarmente colpito quanto scritto da Stefano in commento a un azzeccato intervento di Leo che fra l’altro mi sembra che abbia colpito nel segno quando ha detto che Baldwin non fa giocare il Baskonia. E infatti la domanda che mi pongo sempre è come il famoso Baldwin IV (chissà com’erano i primi tre) possa essere ancora ingaggiato da qualche squadra di Eurolega. Secondo me è uno dei più clamorosi anti-giocatori di basket che io abbia mai visto in tutta la mia lunghissima carriera.

Il commento recita: “Un conto è il gioco basato su schemi altra cosa è il gioco basato su organizzare automatismi e poi lasciare libera espressione alle letture delle situazioni in campo. Ci vedete differenza?”.

Grande Stefano! In una frase breve e laconica ha riassunto tutta l’essenza non solo del basket, ma di ogni gioco di squadra. C’è differenza? Eccome se c’è, è tutta la differenza del mondo, quella che fra le altre cose fa capire chi è giocatore di basket e chi non lo è. E’ anche la ragione principale per la quale, finché sarò “alive and kicking”, propugnerò sempre la tesi secondo la quale una squadra potrà funzionare solamente quando in campo ci sarà un vero 1, un vero 2 e così via. Quando si verifica questa condizione gli automatismi di gioco, visto che ogni giocatore in campo sa precisamente quale è il suo ruolo, vengono, appunto, automaticamente da soli. Quando l’1 pensa per la squadra, il 2 e il 4 pensano all’azione contingente e il 3 e il 5 eseguono, il gioco fluisce da solo. Perché ciò accada ogni giocatore in campo deve essere ferrato nel suo compito, conoscere fino all’ultimo particolare cosa si vuole da lui (e già questa condizione è difficile da ottenere nel caotico basket di oggidì, nel quale sembra che saper fare un po’ di tutto e nulla veramente bene sia una cosa buona, mentre è vero esattamente il contrario, come qualsiasi organizzazione umana dimostra in abbondanza, da una squadra sportiva a una multinazionale economica e ancora a una squadra politica di governo), e, una volta assodata questa condizione, allora e solo allora si può valutare il suo valore. Posto il ruolo che il giocatore ha in campo si può cominciare a valutare la sua bravura, e cioè, oltre alla ovvia capacità tecnica, soprattutto e fondamentalmente la sua capacità di lettura sia della fase particolare del gioco (occorre più difesa, occorre più attacco, bisogna aspettare che il momento buono degli avversari si esaurisca mettendosi l’elmetto e resistere giocando a due all’ora oppure approfittare del loro momento no per colpire e affondare alzando i ritmi di gioco) che dell’istante contingente, cioè su come sviluppare un’azione per colpire l’avversario nel modo migliore sfruttando i suoi punti deboli che abbiamo individuato nella preparazione pre-partita. In questa capacità di lettura sta tutta la bravura di un giocatore, dalla cosa più stupida che ci possa essere e che normalmente nessuno fa, e cioè dare la palla sempre e comunque all’uomo nostro più caldo in quel momento e non al nostro fenomeno che in quella giornata non riesce a centrare una vasca da bagno, alla cosa più sofisticata e difficile, che è la percezione strategica del momento che porta a un determinato ritmo di gioco ed alla scelta di particolari soluzioni sia per massimizzare le proprie capacità momentanee che per colpire l’avversario dove in quel momento è più debole (esempio banale: se ha in campo una squadra di piccoli non si corre, ma si attacca sotto canestro). Nella mia visione chi adempie alla prima condizione si può definire giocatore di basket, poi in questa categoria (oggigiorno sempre più sparuta) si possono fare graduatorie di merito, cioè definire nell’insieme dei giocatori di basket chi è bravo e chi lo è di meno. Fermo restando che anche uno scarso giocatore di basket è sempre infinitamente meglio di un non-giocatore. E, paradossalmente, un non-giocatore che ha tecnica, tiro, penetrazione e capacità atletiche, cioè uno di quelli che si definisce “sarebbe un fenomeno se avesse la testa” (che sarebbe come a dire “quello sarebbe uno straordinario stallone se solo avesse le palle”), esempio preclaro e illuminante Mike James, è tanto più deleterio in quanto, avendo spesso e volentieri il pallone in mano, fa più danni e distrugge totalmente qualsiasi tipo di gioco di squadra. Concretamente più un non-giocatore è forte, più è deleterio.

Sempre ragionando in questa ottica si possono facilmente discernere i fenomeni veri, che sono semplicemente i giocatori capaci di giocare in più ruoli, e in ognuno di essi fare quello che da quel ruolo si richiede. L’esempio più calzante di questo tipo di fuoriclasse, senza scomodare gli esempi più fulgidi mai apparsi su questo pianeta quali Bird e Magic, è Toni Kukoč e non per niente Božo Maljković, alla classica solita domanda sul perché Toni non partisse mai in quintetto, rispondeva puntualmente: “Perché lui sa giocare in tutti i ruoli, per cui lo metto in campo quando vedo in quale ruolo mi può essere più utile in quel momento.” Dello stesso tipo di fuoriclasse è indubbiamente anche Luka Dončić, che è, almeno a quanto vedo io guardando in giro, l’unico giocatore attuale al mondo che abbia questo tipo di dote, ovviamente di valore incalcolabile, in quanto da alla squadra una flessibilità enorme, potendo per esempio giocare con vari tipi di quintetti, nei quali però il fuoriclasse è perno insostituibile pur nella varietà di ruoli che può ricoprire.

Per finire un discorso che, se vi interessa, può essere ripreso quando si vuole, visto che più che un libro sull’argomento si potrebbe scrivere un’enciclopedia, c’è un altro enorme vantaggio che viene spesso, anzi quasi sempre, negletto che discende dal fatto che uno è giocatore di basket o meno. Capendo il gioco il rendimento sia in difesa che in attacco è automaticamente aumentato dal fatto che un vero giocatore, dotato di capacità di lettura delle varie situazioni, può con molta più facilità scegliere la soluzione giusta sia in difesa che in attacco. Gli basta porsi la domanda: “Cosa farei io se fossi al posto del mio avversario?” E fare il contrario, come faceva quell’incredibile lettore delle menti altrui che era Dejan Bodiroga. Oppure riconoscere che l’avversario è un giocatore forte magari come lui e allora parte quella magnifica lotta fra menti superiori che prevede che l’avversario sappia cosa tu pensi e che, sapendo che lui pensa di fare il contrario, tu lo sorprendi facendo esattamente quello che lui pensava che tu non facessi, e allora lo freghi, per cui la volta dopo quell’altro, sapendo tutto, sa che deve inventarsi qualcosa di nuovo e così via. Vale esattamente la stessa cosa anche per la difesa e infatti la finta difensiva è una giocata riservata solamente a un giocatore vero e molto bravo, che deve essere per forza un grande attaccante, perché solo un grande attaccante sa cosa farebbe lui al posto dell’avversario e, una volta valutate le sue capacità, ha in mano tutte le armi per anticipare le sue mosse magari provocandole con un accenno di mossa difensiva sulla quale lui cade come un pero.

Insomma il basket è un gioco di continua lettura all’interno di meccanismi che vengono fuori da soli quando il quintetto è formato in modo armonico con tutti i giocatori che sanno quale è il loro ruolo e cosa si attende che loro facciano. E il coach in tutto questo? Guarda la partita e applaude i giocatori che ha saputo scegliere se è veramente bravo e conosce il suo mestiere. E proprio qui cade l’asino. Quanti coach al mondo oggigiorno sanno scegliere i giocatori nel modo giusto e metterli in campo avendo sempre un quintetto bilanciato capace di rendere armonicamente al massimo? Io onestamente ne vedo molto pochi. E forse, e questa è forse la constatazione più desolante, anche se lo volessero, non potrebbero fare la squadra che vorrebbero dovendo sottostare a tutta una serie di condizionamenti dovuti all’interferenza di vari presidenti, sponsor, piazza, per non parlare del preponderante potere che ha oggi in mano quella masnada di avventurieri, alla quale fregano solo i soldi e non certamente il bene del basket, che risponde alla definizione di procuratori.