Breve intermezzo da ferie casalinghe. Inciso: per me ferie vuol dire fare un emerito tubo e godermi l’ozio, ma a volte il troppo è troppo. Intanto una risposta a Edoardo che si chiede da dove derivi il mio “ostracismo” nei confronti del basket di college. Ostracismo è una parola molto forte che implica anche una connotazione di rifiuto ideologico dell’attività a cui ci si riferisce, ragion per cui non è certamente pertinente ai miei sentimenti. Più che ostracismo direi totale disinteresse, quello senz’altro. La ragione penso di averla spiegata in un post precedente e credevo di essere stato chiaro. Evidentemente non lo sono stato, per cui provo a spiegarmi meglio partendo un po’ più da lontano. Il basket era il più bel gioco del mondo, perché più di tutti gli altri sport di squadra, oltre alle indispensabili doti fisiche e atletiche, peculiari e molto importanti che altri sport non richiedono (e questo è stato da sempre il suo unico punto debole), prevedeva che per svolgerlo si dovesse essere in possesso di doti di creatività, inventiva, di reazioni istantanee a stimoli sempre diversi, di intelligenza nel proporsi nel gruppo in modo proficuo alle sorti della squadra di cui si faceva parte che altri sport di squadra, chi più chi meno, non avevano. Con la reazione violenta impressa al basket dalla sciagurata scelta dell’NBA di portarlo dalle palestre universitarie ai playground urbani tutto questo patrimonio di intelligenza applicata è andato clamorosamente a farsi benedire. Il basket è diventato uno sport da forzuti primati che si esaltano nel balzo felino, nell’urlo continuo con conseguente battuta del petto (mai visti documentari sui gorilla?), e tutta la creatività si è ridotta a una specie di istinto primordiale che dice di fare cose possibilmente spettacolari, ma normalmente poco consone al momento nel quale vengono fatte. Con la conseguenza che il basket dell’NBA è fondamentalmente un gioco da decerebrati guidati dall’istinto.

 

Ovviamente, e per fortuna, il basket si gioca anche altrove, per cui esistono ancora delle isole di resistenza umana (destinate a sparire? – spero proprio di no, sono molto vichiano nella mia filosofia di base) nelle quali il basket è ancora un qualcosa che somiglia al basket vero. Una di queste isole è ovviamente l’Eurolega, nella quale ci sono club che grazie ad allenatori capaci praticano ancora un basket logico, un basket nel quale si vede quali sono gli indirizzi che i coach danno ai propri giocatori e nei quali vedo ancora giocatori veri di basket. Ripeto per la giga milionesima volta: giocatore di basket è uno che capisce di basket, che ha la testa giusta per giocarlo e le sue capacità fisiche in ciò non c’entrano minimamente. Un’altra isola passabilmente felice era fino a qualche tempo fa proprio il basket di college, del quale si diceva che il nome importante era quello stampato davanti e non quello dietro, cosa questa che fa tutta la differenza del mondo. Poi, come detto e riassumo quanto già scritto, per cui i più attenti di voi potete tranquillamente saltare questo passaggio, è successo che il college stesso, per il cambio di mentalità citata sopra, è diventato semplicemente una rottura da espletare nel nome di una clamorosa foglia di fico di parvenza di mantenimento di una fondamentale tradizione che aveva creato il basket stesso, ricordo che senza il basket di college non ci sarebbe stata l’NBA, con la deleteria e fondamentalmente idiota mentalità dell’ “one-and-done”. Anzi, eroe eponimo dell’NBA attuale è diventato uno che l’università non l’ha vista neanche da lontano, cosa questa che, scusate, non gli perdonerò mai, per quanto forte possa poi essere diventato. Ricorderete, andando a qualche mio post di qualche anno fa, che l’NCAA la guardavo e mi divertivo anche. Poi, di anno in anno, la deriva sopra menzionata si è fatta sempre più montante e pervasiva, per cui negli ultimi anni quello che vedo è una caricatura del basket NBA. La squadra gioca normalmente per la sua stella che non vede l’ora di sbarcare nel Paese dei balocchi per portarsi a casa il prima possibile il massimo possibile dei baiocchi (scusate il pessimo gioco di parole, ma mi è venuto spontaneo), gli schemi d’attacco sono fotocopie precise del nulla che impera nell’NBA, per cui uno dovrebbe spiegarmi perché, se già non guardo l’NBA, dovrei guardare una sua grottesca caricatura proposta da gente mediamente cestisticamente analfabeta che palesa in ogni suo movimento la totale estraneità al concetto di basket che io presumo debba essere tale. Sì, ma difendono molto meglio che nell’NBA. Onestamente, e chi se ne frega? Le difese fanno vincere le partite (affermazione questa che confuto violentemente, ma ammettiamo che ad una prima approssimazione possa essere una cosa anche plausibile), ma è l’attacco che fa vendere i biglietti. Appunto. Io, che se vince Delaware State piuttosto che Rhode Island Tech non potrebbe interessarmi di meno, se guardo una partita è perché voglio vedere qualcosa che mi attragga. Voglio vedere cioè attacchi sviluppati con criterio, se possibile con furbizia, creatività e imprevedibilità, e non guardo certo la partita per vedere l’energumeno futura prima scelta prendere caterve di rimbalzi o l’asfissiante difesa costringere gli avversari a tiri forzati al 40-esimo secondo (a proposito, quanti secondi hanno adesso per l’attacco? – mi sembra si sia passati a 30, e da ciò potete capire quanto indietro sia rimasto), che comunque tanto sono già incapaci di loro e basta normalmente fare “bu” che la guardia avversaria pensa da sola di palleggiarsi sul piede. Quest’anno, anche per ragioni di lavoro, ho visto i highlight delle Final Four. Se quelli erano i highlight, immaginarsi come deve essere stato il resto. Sì, ma volete mettere l’atmosfera vibrante, la marea di folla, i colori, le bande in tribuna e le cheerleader sculettanti? Mi dispiace, ma io guardo il basket e se c’è una cosa che proprio non mi ha mai interessato è l’ambiente. Diciamo così che uno dei miei più grossi difetti è che antepongo in modo drastico la sostanza alla forma.

Piccolo intermezzo: ho apprezzato con estremo favore la delicata correzione che ha fatto Buck nella mia citazione cambiando il nome di James da Mark a Mike. Mi scuso, ma ormai l’età avanza e per i nomi sono sempre stato, anche da giovane, un disastro. Non riesco proprio ad abbinare il nome ad un cognome ed ogni tanto commetto di queste fotte. Come parziale scusante posso dire che il nome Mark James mi frulla in testa da tempo immemorabile. Penso sia stato l’autore di “Suspicious Minds” di Elvis, successo del ’71 (fu il suo ultimo numero uno in classifica – “Burning Love” l’anno dopo arrivò al numero due, poi più nulla).

In merito al “pezzo forte” del mio ultimo post sull’insegnamento devo dire che sono fiero di voi e mi viene l’idea folle che siamo un manipolo di persone forse troppo intelligenti per un semplice blog. Mi viene da pensare ma quanto siamo bravi, ma quanto ne sappiamo e come ragioniamo. Chiaramente si tratta dell’impulso di un attimo e poi uno scende immediatamente a più miti consigli. Tutti avete scritto cose molto giuste e su quanto ha scritto Llandre che mi contesta l’affermazione secondo cui la conoscenza dell’insegnante è comunque fondamentale dico solo che ne parlerò ancora. In breve sono d’accordo con lui in linea generale, e come potrei non esserlo, ma il mio discorso era comunque un tantino diverso e mirato ad altre conclusioni, per cui ho forse un po’ troppo caricato il concetto che comunque deve essere sempre preso “cum grano salis”. Magistrale l’esposizione di Boki che sottoscrivo al 100%, soprattutto perché lui vede le cose direttamente dall’interno, essendo proprio in questo momento impegnato in questo sempre più improbo mestiere, che oserei definire missione, se non fosse che purtroppo come tale è vissuta da una troppo sparuta minoranza non tanto degli insegnanti stessi, quanto di coloro che li abilitano al lavoro. Che è molto, ma molto più nobile di quanto l’ottusa burocrazia attuale non supponga. E che dovrebbe essere valutato in modo sostanzialmente superiore sia in termini pedestremente finanziari che soprattutto di considerazione sociale.

A proposito di Boki. Poco più di una settimana fa, tornato dal lavoro ed accesa la televisione, non essendoci nulla di guardabile sui più di 500, o quanti sono, canali Sky, ho cominciato a smanettare sul digitale terrestre. Sono capitato sul classico quiz preserale del primo canale della televisione croata, un programma che si chiama “Potjera” (caccia, inseguimento). E sono rimasto di sasso. Signor Boško (in quei programmi tutti vengono chiamati per nome), lei alla prossima sconvenscion mi dovrà dettagliatamente spiegare come cavolo è finito in un quiz sulla prima rete del canale di Stato e soprattutto, maledizione, come mai è riuscito a perdere?