Bienvenidos a todos con questa rubrica che s’è messa in testa di frugare in giro per il mondo il top-team di alcune tra le nazionali meno celebri del panorama cestistico -e già per questo cult, di culto- cercando di raccontar qualcosa di ognuna di loro, con un occhio di riguardo per gli sbarbati che dovrebbero andare a comporne il roster ideale.
Lo scopo sarebbe quello di scovare tra le bandiere (flags) più insospettabili di questo mondo parallelo un manipolo di giocatori che, se ben assemblato ed allenato, non sfigurerebbe in una fase finale di un Mondiale, un Europeo o un’Olimpiade.
Rapido come il trash talking di Malick Rose ecco il decalogo per questo simpatico giochetto:
1- le nazionali NON devono essere tra le prime 25 dell’attuale ranking FIBA (per dire, la Gran Bretagna è 23a)
2- i giocatori devono essere tutt’ora attivi (non ritirati ufficialmente), anche se infortunati, e costituiranno una selezione dei più forti ancora eleggibili per quella determinata nazionale
3- l’allenatore, seppur di nazionalità differente (tipico per le nazionali di basso livello, diciamo i Bruno Metsu e i Guus Hiddink del basket), deve aver allenato quella specifica nazionale
4- le squadre devono avere in linea di massima un senso tattico (cercheremo di evitare quintetti con 5 playmaker, ad esempio, anche se non lo escludiamo a priori, con i giapponesi in giro)
5- valgono i passaportati, ma solo se non sono ancora stati beccati a ricevere bustarelle da ministri dello sport di federazioni improbabili per il corrotto (il tipico sloveno Omar Thomas è un buon esempio)
6- non sono permessi roster con meno di 5 giocatori, a meno di eccezioni-cult
7- cercheremo di raccontarvi qualcosa di ognuna di queste nazionali e dei loro componenti
8- se c’avete scambiato per dei nerd super seriosi sappiate che l’intento è soprattutto folkloristico, dedito più a sollevare curiosità, chiacchiere e pernacchie, piuttosto che verità assolute (ergo, se ce scappa un player, suggeritecelo voialtri!)
9- l’unico criterio oggettivo di selezione è il ranking FIBA: si lo sappiamo, nel 2013 è anacronistico tanto quanto chi gestisce l’istituzione che l’ha partorito, ma tant’è, c’abbiam provato noi a dargli un senso!
10- se state ancora leggendo, d’ora in poi non avrete altro dio all’infuori di Jr Pinnock

 

Flag of Dominican Republic - Cult Flag #4

Flag of the Dominican Republic – Cult Flag #4

 

 “Comunque, al di là della provenienza, l’arrivo degli europei a Hispaniola fu l’evento che scatenò il fukù nel mondo, e da quel giorno siamo tutti nella merda.”
[tratto da “La breve favolosa vita di Oscar Wao” –  dello scrittore dominicano Junot Diaz, premio Pulitzer 2008]

Bentornati! Il quarto episodio di Cult Flags ci porterà dove tutto è iniziato con questa rubrica: nel Mar dei Caraibi, lo stesso di Panama e di tante altre bandiere. Di una, su tutte, volevamo assolutamente scrivere. Forse la vostra reazione al termine sarà simile alla nostra, un “WOW ma che ci fanno lì?!” legittimo e sacrosanto. O forse direte semplicemente “è la Repubblica Dominicana amigo, cos’altro t’aspettavi?”. Cult Flag #4.

Ranking FIBA: 27 (45,6 pts)

Best Results: 12ma Mondiali nelle Filippine, 1978

Il primo scouting report moderno, a firma Colombo Cristoforo

Il primo scouting report moderno, a firma Colombo Cristoforo

Hometown: un tempo esisteva semplicemente un’isola. Fu la terza del Nuovo Mondo che il nostro caro avo Cristoforo Colombo vide dalla poppa della Santa Maria. La battezzò Hispaniola, in onore alle stupende bellezze che presto sarebbero state preda dei suoi datori di lavoro e del turismo mondiale qualche annetto più tardi. Ad accogliere lui ed i primi avamposti dell'(in)civiltà europea nelle Americhe si presentarono i cosiddetti “Indiani“, altro segnale che Colombo c’aveva capito il giusto. Cristoforo però si rivelò un inaspettato precursore dell’international scouting, descrivendo ai reali di Spagna nei suoi minuziosi report” gli strani personaggi e luoghi nei quali s’era appena imbattuto. “Alti, molto ben formati, meno neri degli Etiopi, timidi, non ignoranti bensì dotati di gran ingegno, con capelli lisci, generosi ed accoglienti”. Ci mancava solo “buoni tiratori dalla media e ottimi a rimbalzo offensivo” e gran parte del lavoro che oggi tiene occupate centinaia di persone in tutto il mondo sarebbe già stato riassunto in quel primo scambio epistolare.
Purtroppo non arrivò nessuna scelta alta al Draft del 1492 per i futuri dominicani, e non solo perchè il primo Draft sarebbe pervenuto 455 anni più tardi. Tutt’altro, semmai secoli di fukù, ritornando alla citazione iniziale, quella proverbiale sfiga -o meglio, calamità- storica che da sempre le leggende raccontano avvolga la Repubblica Dominicana ed i suoi amati figli (il rosso della bandiera rappresenta il sangue versato nei secoli).
Lo confessiamo, abbiamo un debole per i micromondi cestistici nati nei Caraibi. Figli di un dio ingiustificatamente minore, dall’avvento dei selvaggi europei sono passati sotto qualsiasi atrocità esclusa l’atomica che l’umanità abbia prodotto, emancipandosi solo nel 1900. Anzi no,

Santo Domingo, capitale della RD

Santo Domingo, capitale della RD

perchè poi la longa manus statunitense spesso avrebbe fatto i suoi porci comodi, concedendo a molti paesi forzatamente “satelliti” una relativa indipendenza solo in tempi recenti, ma lasciandogli in eredità un desiderio interiore di riscatto imparagonabile. Era il caso di Panama, non per coincidenza nostra prima Cult Flag, è il caso pure di questa cultissima Repubblica Dominicana, e lo è pure di altri paesi-idolo come Portorico o Haiti (anche su tutti quei vessilli il blu e il bianco significavano libertà e salvezza).
Ciò che distingue però i dominicani dal resto del mondo è una radicalizzazione di tutto ciò che sia “caraibico”. I vari vicini d’isola si dicono calienti e passionali? I dominicani sono ossessionati dal sesso e dalle femmine. Non a dargli torto peraltro, considerata la qualità et abbondanza tipicamente latina del gentìl sesso autoctono. La loro fama di conquistadores de corazones è arrivata ovunque, insieme a quella, altrettanto valida, di teste calde. Ricordate il famoso McGrady vs Casiano? Barzelletta, rispetto a quello che può saltar in testa ad un dominicano. E la passione? Ah, quella li divora fino al midollo. Per il merengue, per l’amicizia, per il baseball, per Dio (Paese ultra cattolico). Meno valide invece le nomee di grandi spacciatori (sigh) e violenti, ma un fondo di verità ci sarà pure qui.
Alla lunga però il rapporto con gli yankees ha portato frutti, la comunità dominicana ha da tempo piantato profonde e floride radici negli USA ed ormai per quelli che han trovato fortuna a Nueva York hanno coniato pure un soprannome, Doyo, dominican-yorker. Il cui simbolo più evidente non può altro che essere Alex Rodriguez, sintesi perfetta del dominicano bello, fascinoso, clamorosamente bravo a baseball -indiscusso sport nazionale- natìo di NYC e pure multimilionario. Oltre a lui e ad una miriade di compaesani in MLB sono ormai sette anche i giocatori dominicani passati dalla Nba, ed il numero sembra destinato a crescere.
Che lo zafa, l’unico tradizionale e mitico controanatema al fukù, stia tornando a funzionare?

La Grande Arena del Cibao, a Santiago

La Grande Arena del Cibao, a Santiago

The Place of the Game: complice l’aumento del successo dei dominicani in Nba la passione per la palla a spicchi è decollata anche nella roccaforte del baseball, ed è ormai facile intravedere in giro per i barrios della repubblica campetti all’aperto costruiti grazie anche agli aiuti economici dei giocatori rimasti legati alla madre patria. Strutture per sviluppare la pallacanestro in Repubblica Dominicana dunque, tra scuole e privati, ne esistono eccome, ma nessuna eguaglia in grandezza, capacità e storia la Grande Arena del Cibao o il Palacio de los Deportes del Cibao. Quando fu costruita nel 1978 venne ritenuto un capolavoro dell’ingegneria latinoamericana, ed è qui, in mezzo al tifo indemoniato e patriottico ed a splendide dominicane dai capelli corvini, curve mozzafiato e rossetto fiammante, che faremmo decisamente giocare un match senza domani alla selección de la republica. Occhio però a non fare come il buon Colombo che al suo arrivo, scambiata la parola “Cibao” con “Cipango” (Marco Polo chiamava così il Giappone), si convinse d’aver fatto centro e di esser arrivato in Asia. Cult pure Lui.

The Date of the Game: la rocambolesca storia dominicana è piena di date storiche purtroppo legate alla conclusione di guerre o con gli odiati cugini haitiani o per l’indipendenza. Per una volta dunque andiamo con una data allegra, musicale, folkloristica, devota. In poche parole il 21 Gennaio, Festa di Nuestra Señora de la Altagracia, la madre spirituale dei dominicani.

The Song of the Game: decisamente l’inno nazionale, splendida storia dei drammi e della Gloria di questa piccola grande Nazione. Il titolo, “Quisqueyanos valientes”, cita la parola Quisqueya, il nome dell’intera isola nella lingua indigena Taino, quando cioè ancora nessuno era venuto a separare Hispaniola. Avanti allora “Dominicani Valorosi!”

The Introduction: “And noooow…the starting lineup for your Dominican Republic National Team..!”
[Nota: run-and-gun quando serve, sennò attacco (s)ragionato a difesa schierata]

Al caro coach Calipari

Al caro coach Calipari

…at forward, number 31, from Detroit Pistons,2.11…Charlieeeeeee Villanueva!

Il nome forse più conosciuto tra i cestisti dominicani, trattasi di personaggione piuttosto raro nel pur variegato mondo a spicchi arancioni, di cui se ne potrebbero dire di ogni tralasciando peraltro la parte tecnica, sublime (un 2.11 dal tocco fatato che gioca indifferentemente spalle e fronte canestro). Testa bizzarra, non solo letteralmente per l’alopecia universale che gli ha fatto perdere tutti i peli del corpo e della testa ma anche per il sangue tradizionalmente caldissimo che gli ribolle nelle vene e che gli ha fatto presto scalare la classifica dei più rissosi di The League. Primo dominicano campione NCAA, ultrà radicale di sneakers e cappelli con cui ha riempito casa propria, onora l’idolo Reggie Miller indossandone il 31 sin dall’anno da rookie a Toronto. Quando coach Calipari (coach di Kentucky e della nazionale dominicana) lo tagliò dalla nazionale nel 2012 con l’accusa di sovrappeso lui rispose su Twitter con questa foto, allegandoci pure per sfregio l’anello di campione NCAA con Connecticut. Dite che lo richiamerà? TOP.

..at forward, number 1, from Washington Wizards, 2.03…Trevoooor Ariza!
Ne siamo convinti, i Lakers da quando hanno ceduto Trevor nel ’09 non sono più stati gli stessi. L’atletismo, l’intensità, la difesa, le triple e le letture di gioco portate alla causa gialloviola senza pestare mai i piedi a nessuno dalle parti di LA non si son più riviste, con quella continuità. Sarà perchè Ariza giocava in casa, davanti alla propria famiglia e dove nel ’96 morì il fratellino più giovane, sarà perchè in quanto “operaio” del gioco non gli è mai stato regalato nulla (scelto al secondo giro nel 2004), ma per noi lui rimane uno “speciale“. Ala dotata di un IQ superiore alla media, oltre a prepararsi fisicamente durante il lockout Trevor è tornato nella sua alma mater, UCLA, per completare gli ultimi esami di Storia Afroamericana. La nazionale dominicana è forte nel sangue grazie alla madre, ma Trevor deve ancora decidersi a riguardo. Nel frattempo e sperando che vada per il sì, sul web c’è capitato d’imbatterci in qualcuno che ha capito tutto di questo ragazzo, unendo alle sue giocate decisive nella corsa al titolo Nba 09 la musica di Eddie Vedder e dei Pearl Jam. “Nothingman” sì, ma quelli che l’hanno lasciato andare.
httpv://www.youtube.com/watch?v=FyQb9hK3oc8


..at guard, number 32, from Houston Rockets, 2.01…Franciscoooo Garcia!

Il pizzetto e il suo ‘Cisco entrarono per la prima volta nel nostro cuore quando nel 2005 lui, l’idolissimo Reece Gaines e il mejor amigo Taquan Dean, trascinarono Louisville, un’università “speciale” per i dominicani, alle Final Four di Saint Louis. Quell’anno, stracolmo di talento, i Fightin Illini erano troppo forti per qualificarsi per la finale, ma Garcia ci rimase impresso per quell’altezza e quella dinnocolatezza unite ad un tiro di cui siamo tutt’ora innamorati. Nato nella capitale Santo Domingo e approdato negli States grazie a coach Pitino, ama sua madre Miguelina alla follia -soprattutto dopo la scomparsa del fratello Hector nel 03-, amore che lei ricompensa con immensi piatti a base di pollo, decisamente il cibo preferito di un ragazzo che se avesse una normale costituzione sarebbe obeso. Finite le annate disgraziate di Sacramento che di positivo gli hanno lasciato però tanto spazio e buona considerazione nell’Nba grazie a versatilità e tiro da tre, ora sverna a Houston in attesa di scoprire la sua prossima destinazione. Testa sopraffina come tanti altri connazionali, è laureato in comunicazione e normalmente è più “tranquillo” della media dei dominicani. Una cosa però odia veramente: che gli si dica che è “solo” un grande tiratore. Non provateci, potreste farlo incazzare seriamente. Good shot ‘Cisco!

 

Amelia Vega, la discreta moglie di Al

Amelia Vega, la discreta moglie di Al

…the man in the middle, number 15, from Atlanta Hawks, 2.08…Aaaaal Horford!
Il nome completo è Alfred Joel Horford Reynoso, che già da solo la dice lunga sulla sua “dominicanità” al 110%. Nato a Puerto Plata, nel nord dell’isola, a 8 anni mentre batteva per l’ennesima volta la palla capì che il baseball, sport nazionale, non faceva per lui. Per cui sei anni dopo si trasferì in Michigan da suo padre, l’ex giocatore Nba Tito Horford, e dimostrò al mondo la sua “diversità” innamorandosi della neve mai vista prima. Con Joakim Noah ha formato il duo di lunghi più dominante e vincente del nuovo millennio nell’NCAA, vincendo per due anni consecutivi il campionato (06-07). Terza scelta assoluta del draft ’08 nonchè il dominicano scelto più in alto di sempre, movimenti in post, super rimbalzista, lottatore ma dotato pure di uno (strano) tiro da fuori, è anche uomo di grande cultura. E in attesa che gli Hawks diventino dei veri contender quest’estate Al si rilasserà all’ombra di una palma dominicana, in chacabana, cancletas (caratteristici camicia e infradito) ed occhiali da sole. Magari stringendo in una mano l’ultimo libro di Gabriel Garcia Marquez e con l’altra quella della moglie, “solo” Miss Universo nel 2003 e vero segreto-cult delle doppie doppie fuori e dentro al campo di Alfredone nostro. Già, un vero dominicano..macchevvelodiciamoafare?

..at guard, number 10, from Santurce in Puerto Rico, 1.88…Edgaaaaar Sosa!

Un sobrio Edgar in una tipica posa dominicana..

Un sobrio Edgar in una tipica posa dominicana..

Incredibile come alcuni drammi personali si leghino tra di loro. Quando Kevin Ware, guardia della Louisville fresca campione NCAA, si distrusse la tibia poco prima delle Final4, coach Pitino, sempre lui, in quella prima notte di degenza in ospedale tra le mille persone che potesse chiamare diede il numero di Ware ad un suo ex pupillo al college, Edgar Sosa. Edgar, purosangue di Santo Domingo, due anni prima aveva avuto un infortunio altrettanto devastante. Molti dichiararono chiusa la sua carriera ma Sosa, dimostrando tempra granitica e doti morali eccezionali, lavorò duro in riabilitazione per 14 mesi, soffrendo come un cane per la mancanza di pallacanestro. Ma si riprese alla grande, tornando a giocare ai massimi livelli. Edgar semplicemente assicurò a Ware che la sua carriera non era finita, tutt’altro, facendogli forza. Non sappiamo come andrà a finire per Kevin, ma Edgar, con quel suo viso fanciullesco e quegli occhi brillanti che hanno fatto impazzire Biella (salvezza epica all’ultima giornata nel 2011), ci ricorda ogni giorno tra un assist no-look, un’accelerazione spezzagambe o una tripla fulminante che il finale della storia spesso e volentieri siamo noi a deciderlo. Chapeau.

FROM THE BENCH:

..at forward, number 44, from Guaros, 2.01…Jaaack Martinez!

Un crash. Poi il silenzio. Jack pensava di essere morto, perlomeno paralizzato. Invece per assurdo quell’incidente del 2001 nelle strade di Portorico “semplicemente” gli ha cambiato la vita in meglio. Martinez era giovane, bello, sulla rampa di lancio. Si sentiva al centro del mondo ma in quell’episodio fu come sentire Dio, oppure era semplicemente un fukù stranamente caritatevole: “‘tate quieto!”, rallenta, ragiona! Lavorò duro per recuperare fisicamente, ottenendo una chiamata dalla Leb spagnola. Vinse il titolo da protagonista e da lì ri-cominciò la vita del più interessante giramondo che la repubblica dominicana ricordi, lasciando sorrisi anche a Scafati e Teramo. Jack Martinez, ferocissimo rimbalzista, nonostante siano altri i nomi altisonanti all’interno della selección, è nettamente il leader vocale e carismatico di questa squadra. Lo si è notato anche alle ultime qualificazioni olimpiche, purtroppo perse ma con onore, quando è riuscito a coinvolgere in una tradizionale danza dominicana anche Del “capelli d’argento” Harris, pluriveterano coach assistente di Calipari. Molto probabilmente il video più cult in cui ci siamo mai imbattuti. No Pueden! NON POSSONO! (gli avversari, ovviamente).
httpv://www.youtube.com/watch?v=znAvMiGkoyg

..at forward, number 9, from Banvit, 1.98…Sammyyyy Mejia!!

Di talento in giro per l’isola dominicana ce n’è a bizzeffe, ma saremmo andati con Sammy sin dal 2008, quando ci folgorò con quelle sue sedici partite a Capo d’Orlando al fianco del Poz. Realizzatore puro, “discretamente” egoista, con quel jumper dalla media ci ricorda come stile e come discontinuità Devin Smith. Più forte fisicamente e meno elegante dell’ala ex Avellino e del Maccabi, Sammy portò allo zenit il suo gioco duro ed efficace imparato nella giovinezza tra i playground del Bronx di NYC (altro doyo..) nell’annata 2010-11 con lo Cholet, quando fu pure MvP della quinta giornata d’Eurolega. Accantonato definitivamente il sogno Nba (poche apparizioni dopo la scelta alla 57 nel 2007), l’anno dopo arrivò addirittura la chiamata dal Cska, durata poco per la verità. Si dice che a Mosca Mejia ci diede un po’ troppo dentro con la fauna femminile locale, aggiungendo al termine di ogni “scorribanda” un sorso (ma giureremmo pure di più..) di mama juana, una “tisana” definita “ricostituente” dall’innocente Sammy ma che fu valutata diversamente dalla severa dirigenza russa. Ora in Turchia le cose sembrano andare meglio…alla salute, tío Sam!

Luis Flores all'Estundiates

Luis Flores all’Estundiates

..at guard, number 10, from Guaiqueries in venezuela, 1.88…Luiiiis Alberto Flores!!
Juan Pablo Duarte, il più famoso tra i padri fondatori della Repubblica dominicana, sarebbe fiero di Luis. Il nativo di San Pedro de Macorís, cittadina nell’est di Hispaniola, nel suo eterno vagabondare gucciniano ha sempre portato con onore e lealtà il nome della patria, regalando tutto ed il meglio del proprio grande talento realizzativo ovunque sia andato, Italia compresa. Ormai non si contano più gli stati e le squadre che hanno visto Flores segnare da ogni dove e riscuotere poi orgoglioso l’assegno mensile, ma nonostante abbia pure calcato i parquet Nba (55ma scelta al draft 2004) Luis afferma che il giocatore più forte che abbia mai visto è Hector Vinicio Muñoz, leggenda del basket dominicano di cui è pure Hall of famer. “Il suo tiro, il suo carisma, sono una cosa unica!” ripeteva a tutti. Ed ora non rimane altro che ultimare la missione incompiuta del jefe Vinicio: portare alle Olimpiadi la bandiera dominicana.

 

Quando Felipe era il Jordan Latino

Quando Felipe era il Jordan Latino

…and NOW!..a special appearance, at guard, number 13, from Santiago, 1,96…FELIPEEEE LOPEZ!!
Non poteva esistere un episodio sulla Repubblica Dominicana senza il suo figlio più controverso ed emblematico. Felipe, emigrato a 14 anni a NYC, era fortissimo. All’high school? Un dio. E già in patria ne parlavano come dell’Eletto. Al college a St John’s venne intervistato da una tv dominicana come il “Michael Jordan Latino”, una consacrazione che fece schizzare la popolarità del baloncesto nella sua terra. Tutti volevano essere Felipe, e per un breve periodo il baseball venne oscurato dalla passione travolgente che questo fenomeno atletico e tecnico seppe trasmettere. Poi arrivò l’Nba. La pressione. Forse quel dannato fukù contribuì. Insomma, il mondo di Felipe crollò, o perlomeno le aspettative. Diventò “solo” un buon giocatore, finendo presto fuori dal grande giro fino al ritiro anticipato. La storia la trovate raccontata infinitamente meglio nel libro-cult Black Jesus dell’ancor più cult Fede Buffa, per il momento sappiate che l’Nba sta cercando di sfruttare la fama che ancora detiene tra Santo Domingo e Santiago, la città natìa, per diffondere la pallacanestro sull’amata isola. Su quel celeberrimo articolo di Sports Illustrated del 20 Dicembre 1993 con “el señor Lopez” in copertina l’autore dell’articolo, Tim Crothers, concluse con un’ultima frase pronunciata da Felipe: “I want to make history everywhere I go”. Voglio fare la storia ovunque vada. Qualsiasi sia l’opinione pubblica che ne è rimasta, per noi e soprattutto per il movimento cestistico dominicano che ha tratto ispirazione da lui, c’è riuscito. Ed un posto in squadra per un talento del genere ci sarà sempre. Hasta pronto, campeón!

Coach Calipari mentre allena la nazionale dominicana

Coach Calipari mentre allena la nazionale dominicana

…and the Head Coach of Dominican Republic is…
Mister John Calipari, che domande! Forse più di qualsiasi altra squadra “da Cult Flags” questa necessitava più che di un buon insegnante semmai di un grande gestore di talenti, teste e persone. Coach Calipari non ha bisogno di molte presentazioni, dato che parliamo di uno degli allenatori di maggior successo universitario degli ultimi anni, oltre ad essere un buon tecnico di fondamentali bravo nello sviluppo dei giovani giocatori. Il buon John con quel curriculum e quella faccia da smargiasso smaliziato (ehi, qualcuno ha pensato a “mafioso”?..sicuramente a Memphis e UMass sì!) sembrava essere il tipo giusto per guadagnarsi in breve tempo la fiducia di gente come Horford, Martinez e compagnia, che con furbizia e mestiere ci convivono fin dalla nascita. Così la federazione a palla a spicchi della RD ha scelto di affidarsi al campione NCAA 2011-12 con Kentucky per conquistare finalmente e per la prima volta nella propria storia una competizione internazionale, sia essa un Mondiale o un Olimpiade. La scorsa estate la qualificazione è mancata per un soffio, con la sconfitta contro la Nigeria all’ultima giornata a sancire l’esclusione dai Giochi di Londra, ma siamo sicuri che con un Villanueva non più sovrappeso, il sì di Ariza e tutto il resto della ciurma la Repubblica Dominicana sia destinata a lasciarsi ben presto alle spalle quel sorprendente e deludente 27mo posto nel ranking FIBA.

Ma se ci sarà un ultimo tiro da prendere per vincere finalmente la partita del definitivo salto di qualità del baloncesto dominicano, scusateci ma ancora una volta chiameremmo un isolamento in punta per Felipe Lopez, affidandoci a Lui.
Perchè se salire verso le stelle e ripiombare dolorosamente a terra è percorso duro per chiunque, rialzarsi ogni volta e riprovarci è dote di pochissimi.
E perchè il fukù, il fato avverso, lo sconfiggi solo affrontandolo.

Dios, Patria, Libertad.
E’ il motto della bandiera dominicana, è il loro credo per affontare queste battaglie.
Mucha suerte, compañeros!


E voi, che ne pensate?

Alla prossima, qui su DailyBasket, con CULT FLAGS #5!